L'efficacia probatoria dei messaggi WhatsApp nei processi familiari
16 Ottobre 2020
Un coniuge scopre di essere stato tradito leggendo alcuni messaggi su WhatsApp: ai fini dell'addebito, egli intende utilizzare in giudizio le conversazioni rinvenute. Si cambi scenario, pur rimanendo nell'ambito della famiglia: il marito, con un messaggino, riconosce di essere debitore nei confronti della moglie per una somma che la stessa gli ha prestato prima del matrimonio. Ed ancora, una coppia separata intende accordarsi sull'iscrizione del minore all'asilo nido. La moglie propone un determinato istituto ed il marito, con un WhatsApp, risponde: “va bene, sono d'accordo. Ok anche per la ripartizione a metà della retta dell'asilo”. Gli esempi potrebbero continuare. Basterà svolgere, sulla scorta delle fattispecie appena accennate, due brevi considerazioni. Talvolta lo strumento di WhatsApp costituisce la strada privilegiata per far valere alcuni diritti in giudizio (si pensi alla prova di una relazione fedifraga); più in generale, la messaggistica moderna, ed in particolare quella in esame, rappresenta una delle forme di comunicazione più diffuse ed immediate nelle relazioni fra le persone, anche all'interno della famiglia. Del resto i messaggini sono semplici da fare, non richiedono alcuna specifica competenza e si possono spedire in qualsiasi momento. Lo stesso deve dirsi per gli short message service (“SMS”), che però – dopo un periodo di grande diffusione – oggi sono sempre meno utilizzati. Da qui la domanda: che efficacia probatoria possiede un messaggio WhatsApp nel processo civile e, in particolare, in quello familiare? Si ragiona, in questa sede, sul presupposto della piena e lecita utilizzabilità di uno scritto o una dichiarazione comparsi sul telefonino (sul complesso tema della riservatezza della corrispondenza nelle relazioni fra i coniugi, invece, sia consentito rinviare a G. IORIO, Infedeltà: prove e rimedi, Milano, 2019, p. 13 ss.). Innanzitutto, l'orientamento dominante della Corte di Cassazione vuole che i contemporanei sistemi di messaggistica (e, fra questi, debbono annoverarsi i WhatsApp, gli SMS, le e-mail) abbiano l'efficacia di “piena prova” che l'art. 2712 c.c. attribuisce alle riproduzioni informatiche (Cass., 17 luglio 2019, n. 19155; nello stesso senso, Cass., 21 febbraio 2019, n. 5141, con riferimento ad un SMS; Cass., 14 maggio 2018, n. 11606, a proposito di un messaggio di posta elettronica senza firma). Inoltre, siffatta impostazione costituisce il punto di riferimento delle più recenti pronunce dei giudici di merito, che sono soliti ripetere massime di tenore analogo. Si è stabilito, così, che il riconoscimento del debito è valido anche quando è effettuato con messaggio di posta elettronica, “costituendo quest'ultimo un documento elettronico contenente la rappresentazione informatica di atti, fatti o dati giuridicamente rilevanti che, seppure privo di firma, rientra tra le riproduzioni informatiche e le rappresentazioni meccaniche di cui all'art. 2712 c.c. e, pertanto, forma piena prova dei fatti e delle cose rappresentate se colui contro il quale viene prodotto non ne disconosce la conformità ai fatti o alle cose medesime” (Trib. Velletri, 16 aprile 2020; Trib. Venezia, 13 maggio 2020; Trib. Roma, 3 marzo 2020; nello stesso senso, negli anni precedenti, Trib. Milano, 3 settembre 2019; Trib. Gorizia, 12 agosto 2019, che si riferisce anche alle immagini MMS; Trib. Roma, 7 maggio 2019, a proposito della registrazione su un nastro magnetico; Trib. Torino, 23 dicembre 2016; Trib. Foggia, 27.11.2014). Resta da vedere, più da vicino, cosa prevede l'art. 2712 c.c.: “le riproduzioni fotografiche, informatiche o cinematografiche, le registrazioni fonografiche e, in genere, ogni altra rappresentazione meccanica di fatti e di cose formano piena prova dei fatti e delle cose rappresentate, se colui contro il quale sono prodotte non ne disconosce la conformità ai fatti o alle cose medesime” (la parola “informatiche” è stata inserita dall'art. 23 del d.lgs. n. 82/2005, a decorrere dal 1° gennaio 2006). La parte contro cui vengono prodotte le riproduzioni “meccaniche” è ammessa ad effettuare il disconoscimento, su cui ora occorre intrattenersi. Il disconoscimento di un whatsapp
Quella stessa giurisprudenza che, univocamente, attribuisce ai moderni sistemi di comunicazione l'efficacia di “piena prova” ex art. 2712 c.c., ammette la possibilità – sulla scorta dell'ultima parte della disposizione codicistica – di “disconoscere” il contenuto della messaggistica. Valgono, però, alcune precisazioni importanti. In primo luogo, non bisogna confondere il disconoscimento in esame con quello riguardante la scrittura privata. Il codice di procedura civile, infatti, stabilisce che colui contro il quale è prodotta una scrittura privata, se intende disconoscerla, è tenuto a negare formalmente la propria scrittura o la propria sottoscrizione (art. 214 c.p.c.). Il disconoscimento deve avvenire nella prima udienza o nella prima risposta successiva alla produzione (art. 215 c.p.c.). Ed ancora, la parte che intende valersi della scrittura disconosciuta deve chiederne la “verificazione”, proponendo i mezzi di prova che ritiene utili e producendo o indicando le scritture che possono servire di comparazione (art. 216 c.p.c.). Qualora l'istanza di verificazione non venga proposta (o, che è lo stesso, non abbia l'esito sperato dall'istante), la scrittura non può essere utilizzata. A conclusioni diverse, invece, si deve giungere per un WhatsApp o per un SMS disconosciuto. Qui si è al di fuori della disciplina del codice di rito appena ricordata. Pertanto, non può escludersi che il giudice, in caso di disconoscimento, accerti la rispondenza all'originale anche attraverso altri mezzi di prova, comprese le presunzioni (così Cass., 21 febbraio 2019, n. 5141). Inoltre, venendo ad una successiva precisazione, non è sufficiente una semplice contestazione del messaggio, giacché il disconoscimento deve essere chiaro, circostanziato ed esplicito, e deve concretizzarsi nell'allegazione di elementi attestanti la non corrispondenza tra la realtà fattuale e quella riprodotta (v., oltre alle pronunce già citate, Cass. 19 gennaio 2018, n. 1250; Cass., 17 febbraio 2015, n. 3122; nella giurisprudenza di merito cfr., ancora, Trib. Venezia, 13 maggio 2020; Trib. Roma, 7 maggio 2019). L'onere della specifica contestazione, del resto, costituisce un principio fondamentale del processo civile, come previsto dall'art. 115 c.p.c., per il quale “salvi i casi previsti dalla legge, il giudice deve porre a fondamento della decisione le prove proposte dalle parti o dal pubblico ministero nonché i fatti non specificamente contestati dalla parte costituita”. In sintesi. L'efficacia probatoria di un WhatsApp, per la giurisprudenza maggioritaria, va ricondotta nell'alveo dell'art. 2712 c.c. Questo vuol dire che il messaggio ivi contenuto (acquisito nel processo in vario modo: si pensi ad uno screenshot ed alla successiva stampa) fa piena prova di ciò che è rappresentato, a meno che colui contro cui è prodotto non lo disconosca. Il disconoscimento non deve essere generico, ma chiaro, circostanziato ed esplicito. Pur a seguito di un disconoscimento di tal fatta, il giudice resta libero di accertare la rispondenza della riproduzione all'originale avvalendosi di altri mezzi di prova, comprese le presunzioni. La ratio delle pronunce in materia
Se l'orientamento dei giudici di legittimità e di merito risulta ben delineato, più difficile è comprendere la ratio delle sentenze, le cui motivazioni muovono da un assunto che si ritiene non debba essere discusso: la riconduzione della moderna messaggistica nell'ambito dell'art. 2712 c.c. Navigando nel mare della copiosa dottrina che si è occupata del tema, può dirsi che storicamente l'art. 2712 c.c. è sempre stato visto come una norma di chiusura del sistema. La disposizione, infatti, si riferisce certamente ad ogni rappresentazione meccanica di fatti o cose. Tuttavia, anche all'esito di un procedimento analogico, non si è rinunciato ad applicare il suo precetto ai documenti informatici “dichiarativi” non sottoscritti. In tal modo si è voluto evitare che il codice civile rimanesse arretrato rispetto all'innovazione tecnologica. La bontà di questa impostazione, negli anni Novanta, sembrava essere supportata da uno dei primi interventi legislativi in materia. Ci si riferisce al d.P.R. n. 513/1997, che ha dettato il “Regolamento recante criteri e modalità per la formazione, l'archiviazione e la trasmissione di documenti con strumenti informatici e telematici, a norma dell'art. 15, comma 2, della legge 15 marzo 1997, n. 59”. Il Regolamento (oggi abrogato) attribuiva l'efficacia probatoria di cui all'art. 2712 c.c. al documento informatico non sottoscritto con firma digitale, a condizione che fosse munito dei requisiti previsti dalla legge. Argomenti a favore del libero convincimento del giudice
Le cose cambiano velocemente. E pure le leggi subiscono importanti interventi di restyling. Oggi si deve avere riguardo all'art. 20, comma 1-bis, del d.lgs. n. 82/2005 (Codice dell'Amministrazione digitale), per il quale “l'idoneità del documento informatico a soddisfare il requisito della forma scritta e il suo valore probatorio sono liberamente valutabili in giudizio, in relazione alle sue caratteristiche oggettive di qualità, sicurezza, integrità e immodificabilità”. Ora, non ci si può qui intrattenere sull'estensione del significato di documento informatico, per il quale comunque esiste una definizione normativa (ai sensi dell'art. 1, lett. p, d.lgs. n. 82/2005, esso è “il documento elettronico che contiene la rappresentazione informatica di atti, fatti o dati giuridicamente rilevanti”). Non sembra però che si possa dubitare del fatto che il messaggio scritto su WhatsApp costituisca un documento informatico, per il quale dunque vale la regola della libera valutazione da parte del giudice. A ragionare diversamente, e privilegiando un'interpretazione che comunque tende a prevalere, si finisce per attribuire ad un WhatsApp privo di sottoscrizione una vis superiore a quella che il legislatore attribuisce a documenti forniti di firma. Basti considerare, tra l'altro, l'art. 21, comma 1, d.lgs. n. 82/2005, per il quale “il documento informatico, cui è apposta una firma elettronica, soddisfa il requisito della forma scritta e sul piano probatorio è liberamente valutabile in giudizio, tenuto conto delle sue caratteristiche oggettive di qualità, sicurezza, integrità e immodificabilità”. Sussistono, pertanto, argomenti letterali e sistematici per procedere ad una rilettura dell'efficacia probatoria della moderna messaggistica (v., in senso difforme rispetto all'indirizzo dominante, Cass., 6 febbraio 2019, n. 3540, secondo cui il messaggio di posta elettronica privo di firma è liberamente valutabile dal giudice ai sensi dell'art. 20 del Codice dell'Amministrazione digitale). Né si dica che le parti offrono quasi sempre al giudice una “riproduzione” del messaggio WhatsApp (e che, quindi, la disciplina appropriata deve essere quella di cui all'art. 2712 c.c., rubricato “riproduzioni meccaniche”). In realtà, delle due l'una (tertium non datur): (a) o la “riproduzione” è oggetto di una disciplina specifica, cui dunque occorre far capo (v., ad esempio, l'art. 23-bis, comma 1, d.lgs. n. 82/2005, secondo cui “i duplicati informatici hanno il medesimo valore giuridico, ad ogni effetto di legge, del documento informatico da cui sono tratti, se prodotti in conformità alle regole tecniche di cui all'art. 71”); (b) oppure, ove manchi una normativa ad hoc, e si muova dalla considerazione che il messaggio WhatsApp è un documento informatico (liberamente valutabile del giudice ai sensi dell'art. 20 del Codice dell'Amministrazione digitale), non si potrà dire che alla riproduzione di quel documento sia da attribuire un'efficacia probatoria diversa (per giunta, superiore) rispetto all'originale.
In conclusione
La giurisprudenza prevalente, se si eccettua la pronuncia di cui da ultimo si è dato conto, riconduce i moderni sistemi di messaggistica nell'ambito dell'art. 2712 c.c.: per questa via, essi formano “piena prova”, a meno che non vengano contestati in modo circostanziato. Peraltro, ancorché ciò avvenga, il giudice resta libero di accertare la corrispondenza della riproduzione all'originale avvalendosi di altri mezzi di prova. Per una diversa tesi, anche se minoritaria, i messaggi contenuti su WhatsApp (e su altri sistemi simili di comunicazione) si sostanziano in documenti informatici liberamente valutabili dal giudice ai sensi dell'art. 20, comma 1-bis, d.lgs. n. 82/2005; simmetricamente, e salva l'applicazione di una specifica normativa, sarà liberamente valutabile ogni riproduzione di quei documenti informatici. L'adesione a quest'ultima ricostruzione, si badi, non vuol sottendere la considerazione che ai WhatsApp sia da attribuire una trascurabile valenza. Tutt'altro. Ove, ad esempio, il messaggio sia prodotto in giudizio attraverso un screenshot (poi stampato) che contenga, in alto, il nominativo del suo autor, ben difficilmente quest'ultimo riuscirà a smentire la paternità della dichiarazione. Di certo non varranno generiche contestazioni, né l'asserzione (priva di ogni riscontro) che il cellulare è finito in mani di altre persone le quali hanno scritto messaggi apparentemente riferibili a colui che ha scaricato l'applicazione sul telefonino. Un dato, in definitiva, può considerarsi pacifico: al di là del dibattito sulla riconduzione o meno della moderna messaggistica nell'ambito dell'art. 2712 c.c., le dichiarazioni giuridicamente rilevanti, contenute su WhatsApp, costituiscono attualmente un importante strumento di prova che il giudice ha a disposizione per accogliere o respingere le pretese delle parti in causa.
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