Ignorantia legis… dell'Avvocato! È invocabile l'eccezione della mancata conoscenza della norma deontologica?

10 Novembre 2020

Il difensore può invocare l'eccezione della mancata conoscenza di una norma deontologica? Il difensore non può invocare l'eccezione di mancata conoscenza della norma deontologica. In questo senso si è espresso più volte il C.N.F, considerando la doglianza destituita di fondamento. In particolare, in un caso di specie, il Consiglio era stato chiamato ad esaminare...

Il difensore può invocare l'eccezione della mancata conoscenza di una norma deontologica?

Il difensore non può invocare l'eccezione di mancata conoscenza della norma deontologica. In questo senso si è espresso più volte il C.N.F, considerando la doglianza destituita di fondamento.

In particolare, in un caso di specie, il Consiglio era stato chiamato ad esaminare il caso di un professionista al quale veniva contestata la violazione deontologica di cui all'art. 51 C.D.F. (ora 68 C.D.F.) per aver accettato un incarico contro un proprio ex assistito prima che fosse trascorso il periodo di due anni previsto dalla suddetta norma deontologica. L'avvocato impugnava la sanzione eccependo di aver ignorato in buona fede la nuova formulazione della norma convinto che fosse ancora in vigore la norma deontologica precedente che prevedeva che dovesse passare un ragionevole periodo di tempo prima di poter accettare un incarico nei confronti dell'ex cliente. Il C.N.F. rigettava il ricorso precisando che le norme del codice deontologico “hanno valore ricognitivo del comune sentire della classe forense e, quindi, di condotte già ampiamente consolidate, per prassi generale, nell'ambito dell'esercizio professionale. In ogni caso, l'ignoranza non è comunque giustificabile dopo un certo periodo dall'introduzione di una norma deontologica a carattere innovativo (Consiglio Nazionale Forense, sentenza del 30 dicembre 2016, n. 387). Deve precisarsi che nel caso oggetto della predetta decisione., peraltro, erano trascorsi 3 anni dall'entrata in vigore della modifica deontologica: “l'ignoranza non è comunque giustificabile dopo un certo periodo dall'introduzione di una norma deontologica a carattere innovativo” (C.N.F., sentenza del 11 novembre 2015, n. 164).

La sentenza n. 387 del 2016 del Consiglio Nazionale Forense, ha ritenuto di precisare -in ordine all'ulteriore doglianza difensiva del ricorrente in merito alla mancanza dell'elemento soggettivo che caratterizza l'illecito disciplinare che invoca buona fede e correttezza professionale- che: “Ai fini della sussistenza dell'illecito disciplinare, è sufficiente la volontarietà del comportamento dell'incolpato e quindi sotto il profilo soggettivo, è sufficiente la “suitas” della condotta intesa come volontà consapevole dell'atto che si compie, dovendo la coscienza e volontà essere interpretata in rapporto alla possibilità di esercitare sul proprio comportamento un controllo finalistico e, quindi dominarlo. L'evitabilità della condotta, pertanto, delinea la soglia minima della sua attribuibilità al soggetto, intesa come appartenenza della condotta al soggetto stesso.” (C.N.F. sentenza 29.12.2015 n.232 ed altre conformi).

Il Consiglio Nazionale Forense ha specificato (con sentenza del 7/5/2013 n. 71) che ai sensi dell'art. 51 Codice Dentologico Forense (ora art. 68 C.D.F.) l'incarico contro un ex cliente è ammesso in presenza di due condizioni: a) che siano trascorsi due anni dalla cessazione del rapporto professionale; b) che l'oggetto dell'incarico sia estraneo a quello in precedenza espletato: “Le condizioni indicate sono alternative e non concorrenti nel senso che è sufficiente l'esistenza di una di esse per escludere la possibilità di assumere legittimamente un incarico contro un proprio ex cliente” ( REMO DANOVI, Il Codice deontologico Forense, III edizione, Milano Giuffrè, 2006, pag. 753). Il terzo comma dell'articolo 68 del codice deontologico forense prevede in ogni caso il divieto da parte dell'Avvocato di utilizzare le notizie apprese durante l'incarico professionale già esaurito.

Inoltre si rileva che “il divieto di assumere incarichi contro ex clienti può estendersi oltre il biennio precedente il canone fissato dall'art 51 del Codice deontologico Forense, oltre alle ipotesi di assunzione di incarico contro un ex cliente nel biennio, va comunque applicato laddove si riconosca una palese violazione del principio deontologico affermato, valutando caso per caso ed in concreto la sussistenza del conflitto di interessi e quindi dell'illecito (Nel caso di specie, il professionista -già alle dipendenze dell'INPS- aveva agito giudizialmente contro l'Istituto a distanza di diversi anni)” Consiglio Nazionale Forense, sentenza del 2 marzo 2012, n. 37 Pubblicato in Giurisprudenza C.N.F.

È sempre auspicabile, dunque, un controllo rigoroso da parte del difensore in ordine all'opportunità di accettare un incarico contro un ex assistito anche a prescindere dal rispetto della norma deontologica di cui all'art. 68 (in precedenza 51 C.D.F.) del codice deontologico forense.

La relazione illustrativa del nuovo art. 68 del Codice Deontologico Forense precisa: “l'art. 68 - Assunzione di incarichi contro una parte già assistita che sostituisce l'art. 51 dell'ancora vigente codice deontologico, ne varia la rubrica (da ‘ex clienti' a ‘parte già assistita') e scandisce, con maggiore precisione ed efficacia, nella successione dei primi 4 commi, i divieti che limitano la possibilità per l'avvocato di assumere un incarico nei confronti della parte già assistita; nel comma 4 è stata inserita ed aggiunta la parola “conviventi” dopo “coniugi” mentre previsione del tutto nuova è quella del comma 5 che rafforza quella rete di protezione, anche in campo deontologico, della persona minore di età, volendo sottolineare la particolare responsabilità dell'avvocato in questo delicato ambito dell'agire professionale”.

“Ora, il disposto dei precetti evidenziati, analizzato dal punto di vista dell'ottica dell'avvocato penalista, offre lo spunto per sottoporre ad un vaglio la liceità deontologica le condotte del legale che:

a) assuma l'incarico di assistere o di rappresentare un soggetto (rispettivamente, a seconda delle fasi, persona offesa dal reato o parte civile) in un procedimento penale in cui è imputato un soggetto da lui in precedenza difeso quale imputato anche se di un diverso reato;

b) difenda Tizio (imputato) in un procedimento penale in cui Caio è persona offesa o costituita parte civile, dopo avere difeso Caio (imputato) in un altro procedimento penale in cui Tizio era persona offesa o si era costituita parte civile;

c) nell'ambito di un procedimento penale in cui vi sono più coimputati, difenda un soggetto che renda o abbia reso dichiarazioni accusatorie nei confronti di un imputato da lui in precedenza assistito.

Non vi è dubbio che, nelle ipotesi sopra tracciate a mero titolo esemplicativo e senza alcuna pretesa di esaustività, possono evidenziarsi profilli di incompatibilità, ma, anche e soprattutto, di mera opportunità, che, nell'analisi della correttezza del comportamento, recitano un ruolo di primaria importanza a prescindere dall'esistenza o meno dei criteri – temporali e oggettivo- già enunciati (…) Per quanto riguarda, inoltre, l'ipotesi delineata nella lettera c), questa trova espressa regolamentazione nel comma 4 bis dell'art. 106 del codice di procedura penale. Tale norma prevede, infatti, che: ‘non può essere assunta da uno stesso difensore la difesa dai più imputati che abbiano reso dichiarazioni concernenti la responsabilità di altro imputato nel medesimo procedimento o in procedimento connesso ai sensi dell'art. 12 o collegato ai sensi dell'art. 12 o collegato ai sensi dell'art. 371, comma 2, lettera b)'” (Gaetano Pacchi, Il Penalista e il nuovo Codice deontologico, a cura di ETTORE RANDAZZO, Milano Giuffrè 2014, pag. 175 ss).

Il secondo comma dell'art. 106 del codice di procedura penale prevede che qualora l'autorità giudiziaria rilevi una situazione di incompatibilità la stessa lo segnala alle parti coinvolte anche in forma orale indicando i motivi e fissando un termine per rimuoverla. Nel caso in cui tale incompatibilità non venga rimossa “il giudice la dichiara con ordinanza provvedendo alle necessarie sostituzioni a norma dell'art. 97” (art. 106, terzo comma, c.p.p). Nel corso delle indagini l'intervento del giudice è sollecitato dal pubblico ministero o dalle parti private che –sentite le parti interessate- provvede sempre a norma dell'art. 97 c.p.p.

Quanto agli effetti dell'incompatibilità si rileva che gli atti posti in essere dal difensore rimosso devono considerarsi affetti da nullità per violazione diritto di difesa di cui all'art. 178, comma 1 lett. c) C.P.P.: “tale nullità, di regola a regime intermedio (art. 180 e 182), è stata ritenuta assoluta nei casi di presenza obbligatoria del difensore una nullità a regime intermedio ai sensi dell'art. 178, comma 1, lett. c), ma non rientrante in quelle di cui all'art. 179, bensì in quelle di cui all'art. 180. Ciò in quanto la rilevata sussistenza di incompatibilità difensiva per conflitto di interessi tra assistiti di uno stesso difensore non può essere qualificata come assenza del difensore, come previsto appunto quale causa tipicizzata di nullità assoluta ed insanabile dall'art. 179. Ne consegue che tale nullità deve considerarsi sanata a conseguenza del suo mancato rilievo ovvero della sua mancata deduzione entro il primo grado di giudizio (Cass. III, n. 10102/2016) (in Codice di procedura penale commentato, diretto da Sergio Beltrani Milano Giuffrè, 2017).

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