Diritto della madre all'anonimato e diritto del figlio alla conoscenza delle origini
17 Dicembre 2020
Massima
La tutela del diritto all'anonimato della madre, per tutta la durata della vita della stessa, deve essere, massima. Peraltro venendo meno per effetto della sua morte, l'esigenza di tutela dei diritti alla vita ed alla salute, che era stata fondamentale nella scelta dell'anonimato, non vi sono più elementi ostativi non soltanto per la conoscenza del rapporto di filiazione, ma anche per la proposizione dell'azione volta all'accertamento dello status di figlio naturale, ex art. 269 c.c.. Il caso
La vicenda ha origini lontane quando una donna da alla luce un bambino chiedendo di non essere nominata. Successivamente peraltro lo accoglie in casa e lo tratta come figlio. Il ragazzo, raggiunta la maggiore età, e in seguito alla morte della madre, propone azione per la dichiarazione giudiziale di maternità ex art. 269 c.c.. Il Tribunale adito sulla base degli elementi raccolti, tra cui la consulenza immunogenetica, deposizioni di testi, nonché un verbale di testamento olografo dichiara la sussistenza del rapporto di filiazione. L'erede della defunta, figlia nata nel matrimonio, impugna il provvedimento prima in corte d'Appello e poi, in seguito a soccombenza, in Cassazione. La questione
La delicata questione coinvolge diversi e contrapposti interessi, tutti meritevoli di tutela, sul cui bilanciamento sono più volte intervenute dottrina e giurisprudenza. Da una parte infatti si pone l'interesse della donna a partorire nell'anonimato e a veder rispettata questa sua scelta anche in futuro. Dall'altra peraltro si ha l'interesse del figlio a conoscere le proprie origini e a veder dichiarato il proprio status. Ci si chiede fino a che punto la volontà della donna, che nel momento della nascita del figlio ha preso la difficile decisione di abbandonarlo e di non voler essere dichiarata madre, debba essere tutelata e quando invece l'anonimato debba recedere di fronte al pur essenziale interesse del figlio a conoscere le sue origini. La questione diviene poi ancora più complessa nell'ipotesi di morte della donna. Coinvolti in tale bilanciamento sono peraltro anche altri interessi quali l'incolumità e la salute della partoriente e del nato, tutelati quando l'evento nascita avviene nelle migliori condizioni possibili, nonché l'interesse di ulteriori ed eventuali figli o parenti della madre a non veder turbata la vita familiare. Le soluzioni giuridiche
La Cassazione affronta la questione, respingendo il ricorso, con una sentenza ricca e articolata nella quale espone innanzitutto il panorama normativo e giurisprudenziale in cui il diritto all'anonimato della partoriente e il diritto del figlio alla conoscenza delle sue origini si collocano. Com'è noto il d.P.R. 396/2000 all'art. 30 stabilisce che quando la madre al momento del parto dichiara di non voler essere nominata le persone tenute ad effettuare la dichiarazione di nascita (uno dei genitori, un procuratore speciale, il medico, l'ostetrica o altra persona che ha assistito al parto), hanno l'obbligo di rispettare la sua volontà. Tale dichiarazione costituisce ai sensi dell'art. 28 comma 7 della l.184/1983 limite generale al diritto di accesso alle informazioni relative ai genitori biologici. L'adottato ultraventicinquenne infatti può, ai sensi delle modifiche di cui alla l. 149/2001, accedere ai dati relativi all'identità dei suoi genitori d'origine, tranne nel caso in cui la madre si sia avvalsa del diritto all'anonimato. Il codice in materia di dati personali, inoltre, tutela per cento anni le informazioni relative alla donna che non vuole essere nominata (d.lgs 196/2003 art. 93). D'altro canto, sottolinea la Cassazione, conformandosi ai suoi precedenti in materia, fondamentale è anche il diritto del figlio a conoscere la verità sulle sue origini e ad avere uno status filiale: è questa infatti una delle “componenti più rilevanti del diritto all'identità personale”. Si legge nel provvedimento in esame che il Legislatore ha inteso assicurare una piena tutela a tale diritto riconoscendo l'interesse all'accertamento dello status di filiazione corrispondente alla verità biologica come componente essenziale del diritto all'identità personale in ogni momento della vita. Il diritto al riconoscimento di uno status si colloca dunque tra i diritti inviolabili della persona per cui trova fondamento sia nell'art. 2 Cost, che nell'art. 8 CEDU. La tutela di tale diritto è desumibile anche dalle previsioni di cui agli artt. 269 e 270 c.c. che stabiliscono che la prova dello status di figlio può essere data con ogni mezzo e che l'azione per la dichiarazione giudiziale di maternità o paternità è imprescrittibile. In questo contesto normativo è intervenuta la Consulta che, riconoscendo il fondamento costituzionale del diritto all'anonimato della madre nella tutela del diritto alla vita e alla salute, si è soffermata sulla centralità della “volontà della donna” che potrebbe anche nel tempo mutare ed ha pertanto, attraverso una dichiarazione di incostituzionalità dell'art. 28 l.184/1983, previsto la possibilità per il giudice, su richiesta del figlio, di interpellare la madre che abbia dichiarato di non voler essere nominata, ai fini di una eventuale revoca di tale dichiarazione (Corte cost. 278/2013). Tale intervento ha creato un contrasto giurisprudenziale, poi risolto dalle Sezioni unite, secondo le quali anche in assenza di una disciplina procedimentale attuativa della pronuncia della Corte Costituzionale, il giudice, su richiesta del figlio desideroso di conoscere le proprie origini, può interpellare la madre che abbia dichiarato alla nascita di non voler essere nominata, ai fini di una revoca della sua dichiarazione. E' dunque compito del giudice predisporre, caso per caso, le modalità procedimentali più opportune e idonee ad assicurare la massima riservatezza e il massimo rispetto della dignità della donna. Il diritto del figlio comunque trova un limite insuperabile nella volontà della madre di non voler essere conosciuta (Cass. Sez un.1946/2017). Di fronte a tale situazione la Cassazione, nel caso in esame, afferma che nel bilanciamento di valori entrambi di rango costituzionale il diritto della madre a mantenere l'anonimato assume posizione preminente. Tale diritto infatti è finalizzato a tutelare il bene supremo della salute e della vita sia della madre che del nascituro, protetti dalla possibilità di un parto in sicurezza che consenta alla donna in una condizione di fragilità e abbandono di decidere in serenità e libertà se crescere il piccolo o garantirgli comunque un futuro in una famiglia adottiva, evitando così per quanto possibile la soluzione dell'aborto. Principio fondamentale pertanto, conclude la Corte, è quello secondo cui “la tutela del diritto all'anonimato della madre deve essere massima” per tutta la durata della vita della stessa. Dopo la morte della madre peraltro, come nel caso di specie, la situazione si fa più complessa in quanto la donna, in una simile ipotesi non può più essere interpellata. In proposito si era già espressa in passato la Cassazione, la quale ha affermato che la morte della madre naturale non si può tradurre nella definitiva perdita della speranza di conoscere le proprie origini biologiche e che pertanto il diritto dell'adottato ad accedere alle informazioni concernenti la propria origine e l'identità della madre biologica sussiste e può essere concretamente esercitato anche se la stessa sia morta e non sia quindi possibile procedere alla verifica della perdurante attualità della scelta di conservare il segreto, non rilevando nella fattispecie il mancato decorso del termine di cento anni dalla formazione del certificato di assistenza al parto o della cartella clinica (Cass. 22838/2016). Una differente soluzione inoltre determinerebbe la cristallizzazione di tale scelta anche dopo la sua morte e la definitiva perdita del diritto fondamentale del figlio, in evidente contrasto con la necessaria reversibilità del segreto e l'affievolimento, se non la scomparsa, di quelle ragioni di protezione che l'ordinamento ha ritenuto meritevoli di tutela per tutto il corso della vita della madre, proprio in ragione della revocabilità di tale scelta (Cass. 15024/2016). Nel caso in esame la Cassazione, conformandosi ai suoi precedenti sottolinea che la tutela dell'anonimato della donna non può esaurirsi con la sua morte in quanto coinvolge altre persone, figli e congiunti della stessa. Peraltro in una simile situazione cambiano i valori di rango costituzionale da bilanciare e “l'esigenza di tutela dei diritti degli eredi e discendenti della donna che ha optato per l'anonimato non può che essere recessiva rispetto a quella del figlio che rivendica il proprio status”. In conclusione dunque, sostiene la Corte, il diritto all'anonimato della donna deve essere massimamente tutelato fino a quando la stessa è in vita, a meno che, interpellata dal giudice non decida di cambiare opinione. Nel periodo successivo alla sua morte, invece, la tutela del diritto del figlio a rivendicare le proprie origini diventa prevalente. Nel caso in esame peraltro vi era anche un altro fattore: la donna che aveva esercitato l'anonimato al momento del parto successivamente aveva accolto il figlio in casa e si era comportata con lui come una madre. Elemento questo che dimostra, come specificato dal provvedimento in esame, la volontà di revocare nei fatti la scelta di rinuncia alla genitorialità. Nel giudizio di merito era stato infatti accertato sia il “tractatus” ossia il fatto che la donna aveva trattato come figlio colui che richiedeva la dichiarazione maternità, sia la “fama” ossia la manifestazione esterna di tale rapporto nelle relazioni sociali. Elementi questi, che uniti alla consulenza immugenetica e alle deposizioni di testi avevano portato all'accertamento del rapporto di filiazione. In proposito la Cassazione specifica che la prova in materia è libera ed è ammesso il ricorso ad elementi presuntivi che, valutati nel loro complesso e sulla base del canone dell'id quod plerumque accidit, risultino idonei, per attendibilità e concludenza, a fornire la dimostrazione completa e rigorosa della genitorialità. Osservazioni
La materia è delicata e complessa e lascia aperti, come rilevato dalla dottrina molti problemi. A titolo meramente esemplificativo si consideri l'ipotesi in cui la madre abbia chiesto di non essere nominata e abbia confermato tale sua volontà in sede di interpello: può in questo caso sussistere il diritto del figlio a conoscere le proprie origini? (Paolo di Marzio, Famiglia e diritto, 8-9 del 2017). La particolarità del tema da inoltre vita a posizioni tra loro diverse. Da una parte infatti si sostiene che se finché la madre è in vita è comprensibile, anche umanamente, l'interesse del figlio alla sua identificazione, una volta che questa sia deceduta, e non è pertanto, che un nome e cognome assolutamente anonimi, “rispetto all'interesse del figlio a conoscere quel nome e quel cognome, deve prevalere la tutela da accordare ai familiari e discendenti della madre che probabilmente hanno sempre ignorato quel parto” (Finocchiaro, Guida al diritto, 6 del 2017). D'altra parte peraltro si sottolinea come la tesi dell'anonimato materno era, in origine, basata sull'impossibilità di parificare i figli nati fuori dal matrimonio con i figli legittimi. Attualmente invece il principio cardine per cui tutti i figli sono uguali riconosce al figlio naturale il diritto di avere notizie della madre ricordandole diritti e doveri “che sulla stessa incombono per il solo fatto nella procreazione” (Carbone, Famiglia e diritto, 11 del 2014). |