I compensi percepiti a Dubai da un calciatore residente fiscalmente in Italia devono essere tassati in quest'ultimo Stato
29 Dicembre 2020
Premessa
La sezione penale della Corte di Cassazione, il 21 ottobre 2020, con la sentenza n. 29095, ha dichiarato inammissibile un ricorso presentato nell'interesse di un giocatore di calcio contro l'ordinanza di un Tribunale che aveva confermato il decreto di sequestro preventivo emesso dal Giudice per le indagini preliminari del medesimo Tribunale. In particolare, a tale soggetto era stato contestato di avere evaso per complessivi € 5.854.068,67 di imposte dirette, e quindi, di avere violato l'art. 4 del D.lgs 74 del 10 marzo 2000, n. 74, avendo omesso di dichiarare i redditi prodotti all'estero. Tale accusa è stata mossa in quanto il soggetto è stato ritenuto residente in Italia, malgrado avesse stipulato un contratto con una società residente negli Emirati Arabi, in quanto, secondo i giudici, lo stesso, pur lavorando all'estero, ha mantenuto in Italia il centro dei propri interessi. Prima di procedere all'esame della sentenza, si ritiene opportuno soffermarsi brevemente, prima sulla disciplina che regolamenta il reato contestato, per poi analizzare la normativa sulla residenza fiscale. La normativa penale
L'art. 4, rubricato “Dichiarazione infedele”, del D.Lgs. 74/2000, al comma 1, come modificato dal D.L. 26/10/2019 n. 124, prevede, nella versione attuale, che:
Come specificatamente previsto, tale norma non si applica nei casi di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, e della dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici, ipotesi che si verificano per inesistenza, falsità di documenti, simulazioni e altre condotte artificiose determinanti una falsa rappresentazione della realtà La norma, in altri termini, punisce la mera “dichiarazione mendace” priva di connotati di frode (non richiede, pertanto, il ricorrere di mezzi fraudolenti). La fattispecie si differenzia da quella della dichiarazione fraudolenta (artt. 2 e 3) per l'assenza di un “impianto” fraudolento di artifizi diretti ad ostacolare il potere di accertamento dell'amministrazione finanziaria. Si tratta quindi di un'ipotesi delittuosa concepita dal legislatore come residuale rispetto alla fattispecie di dichiarazione fraudolenta, incentrata sulla sola evidenziazione di un'informazione non veritiera (esposizione di elementi attivi in misura inferiore al reale o elementi passivi inesistenti). Di seguito, si fornisce una breve analisi dei principali aspetti di tale norma. In primo luogo, la norma prevede soglie di punibilità, considerato che la condotta diventa penalmente rilevante al ricorrere della duplice, congiunta, condizione sopra indicata alle lettere a) e b) dell'art. 4. Le soglie di punibilità riferite all'imposta evasa si intendono estese anche all'ammontare dell'inesistente credito di imposta esposto nella dichiarazione. Per "elementi attivi o passivi" si intendono le componenti, espresse in cifra, che concorrono, in senso positivo o negativo, alla determinazione del reddito o delle basi imponibili rilevanti ai fini dell'applicazione delle imposte sui redditi o sul valore aggiunto e le componenti che incidono sulla determinazione dell'imposta dovuta.
Secondo la Circolare del Comando Generale della Guardia di Finanza n. 1/2018 (Manuale operativo in materia di contrasto all'evasione e alle frodi fiscali), la determinazione del superamento delle soglie spetta alle autorità giudiziarie. In secondo luogo, si evidenzia che la condotta penalmente rilevante prevede, quanto agli “elementi passivi”, che siano “inesistenti”. La parola inesistenti è stata sostituita alla precedente “fittizi” dal D.Lgs. 158/2015. Anteriormente a tale modifica, era sorto un dibattito che vedeva contrapposte due interpretazioni sulla definizione di elementi passivi “fittizi”: quella secondo cui, sostanzialmente, sarebbero stati tali tutti i costi ripresi a tassazione e quella secondo cui ci si doveva riferire solo a quei costi rappresentanti una situazione fattuale artefatta priva di riscontro nella realtà. Il Legislatore del 2015 ha recepito quest'ultima lettura. Come evidenziato anche nella Circolare della Guardia di Finanza n. 1/2018: «Ai fini della configurabilità del delitto di dichiarazione infedele, “inesistente” corrisponde a “non rispondente alla realtà” e non più a “determinato in maniera non corretta” sulla base delle regole fiscali. L'interesse penale per il reato in esame ricade quindi, unicamente, sui casi di inesistenza materiale delle componenti negative. […] Rimangono, quindi, attraibili alla fattispecie penale in argomento ipotesi residuali, quali, ad esempio, l'indicazione in dichiarazione di elementi passivi del tutto inesistenti, in alcun modo supportati da fatture passive o altri documenti di valore probatorio analogo (ovvero recanti, questi ultimi, corrispettivi inferiori rispetto ai valori riportati in dichiarazione).». Un altro punto meritevole di attenzione è che il reato in questione richiede l'elemento soggettivo del dolo specifico, consistente nel “fine di evadere le imposte” (sui redditi o) sul valore aggiunto, il quale si intende comprensivo anche del fine di conseguire un indebito rimborso o il riconoscimento di un inesistente credito d'imposta, e del fine di consentirli a terzi. Si tratta quindi della coscienza e volontà (da parte del soggetto firmatario delle dichiarazioni ad esempio quale rappresentante di una società) di indicare nelle dichiarazioni annuali dati e notizie false, al fine di evadere il pagamento dei tributi propri del soggetto che ha violato gli obblighi dichiarativi (ad esempio la società). Pertanto, come precisato nella Circolare Ministeriale n. 154/E/2000: «l'inserimento di dati non veritieri nella dichiarazione annuale imputabile a titolo di colpa, per un errore dovuto all'inosservanza delle regole di diligenza, prudenza e perizia, non ha alcuna rilevanza penale, comportando, soltanto, l'applicazione di sanzioni amministrative.». La residenza fiscale per le persone fisiche
Ai sensi dell'art. 2, comma 2, del Tuir, si considerano residenti fiscalmente in Italia le persone fisiche che per la maggior parte del periodo d'imposta:
Si considerano altresì residenti, salvo prova contraria, i cittadini italiani cancellati dalle anagrafi della popolazione residente e trasferiti in Stati o territori diversi da quelli individuati con decreto del Ministro dell'economia e delle finanze, da pubblicare nella Gazzetta Ufficiale (comma 2-bis). Le condizioni sopra indicate (iscrizione all'anagrafe, domicilio e residenza) sono tra loro alternative e non concorrenti; pertanto il verificarsi di una sola di esse è sufficiente affinché un soggetto sia considerato fiscalmente residente in Italia. Pertanto, come chiarito anche dall'amministrazione finanziaria (Cfr. Circolare del 2 dicembre 1997, n. 304/E, paragrafo 1), deve “considerarsi fiscalmente residente in Italia un soggetto che, pur avendo trasferito la propria residenza all'estero e svolgendo la propria attività fuori dal territorio nazionale, mantenga, nel senso sopra illustrato, il 'centro' dei propri interessi familiari e sociali in Italia”. Al fine di dimostrare il luogo dove collocare la residenza fiscale, l'Agenzia delle Entrate ha individuato nella cancellazione dall'anagrafe della popolazione residente e la conseguente iscrizione all'AIRE, in un contratto di affitto stipulato nel paese dove si svolge la prestazione di lavoro e nell'iscrizione alla scuola materna di uno dei figli del lavoratore nello stesso luogo alcune delle condizioni sufficienti a dimostrare lo spostamento del ‘centro' dei propri interessi e quindi la perdita della residenza fiscale in Italia da parte del lavorare (Cfr. Risoluzione del 10 febbraio 1999, n. 17/E).
In altri termini, secondo la tesi erariale, per dimostrare la residenza fiscale all'estero, è possibile utilizzare qualsiasi mezzo di prova di natura documentale o dimostrativa, atto a stabilire, in particolare:
La sentenza in esame
Anche la sentenza in esame si è occupata della perdita o meno della residenza fiscale in Italia, qualora un soggetto ivi residente decida di trasferirsi all'estero per motivi di lavoro. In particolare, i giudici di legittimità hanno ritenuto residente in Italia un calciatore che ha stipulato un contratto con una società residente negli Emirati Arabi, in quanto lo stesso, pur lavorando all'estero, ha mantenuto in Italia il centro dei propri interessi, come evidenziato - tra l'altro - dal fatto che la famiglia (moglie e figli) non avesse mai trasferito la residenza dall'Italia.
Per arrivare a tale conclusione, sono stati presi in considerazione tutti gli indici che legavano il ricorrente al territorio italiano, con particolare riguardo al versamento di contributi per collaboratori domestici, ai numerosi rapporti finanziari correnti, alla proprietà di autoveicoli e motoveicoli, alla titolarità di immobili ed utenze , alle rilevanti spese sostenute (ammontanti sempre a numerose centinaia di migliaia di euro), alla stipula di contratti immobiliari (e senza poter valutare la possibile firma preventiva evocata nel ricorso), alla frequentazione degli istituti scolastici da parte dei figli del ricorrente, verificandone i periodi effettivi e controllando al riguardo anche i timbri di ingresso ed uscita dagli Emirati Arabi. Di conseguenza, secondo la Suprema Corte, sarebbe emerso il “fumus” del delitto contestato, assumendo che il calciatore aveva mantenuto l'effettivo ed il sostanziale domicilio in Italia per almeno 183 giorni in ciascuno degli anni coinvolti, omettendo così di dichiarare i redditi percepiti negli Emirati Arabi Uniti. Alcune considerazioni
Come precisato dalla giurisprudenza di legittimità (Corte di Cassazione del 18 novembre 2011, n. 24246), in tema d'imposte sui redditi, l'art. 2 comma 2 del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 richiede, per la configurabilità della residenza fiscale nello Stato, tre presupposti, indicati in via alternativa: il primo, formale, rappresentato dall'iscrizione nelle anagrafi delle popolazioni residenti, e gli altri due, di fatto, costituiti dalla residenza o dal domicilio nello Stato ai sensi del codice civile.
Ne consegue che l'iscrizione del cittadino nell'anagrafe dei residenti all'estero non è elemento determinante per escludere la residenza fiscale in Italia, allorché il soggetto abbia nel territorio dello Stato il proprio domicilio, inteso come sede principale degli affari ed interessi economici, nonché dei le proprie relazioni personali, non risultando determinante, a tal fine, il carattere soggettivo ed elettivo della "scelta" dell'interessato, rilevante solo quanto alla libertà dell'effettuazione della stessa, ma non ai fini della verifica del risultato di quella scelta, ma dovendosi contemperare la volontà individuale con le esigenze di tutela dell'affidamento dei terzi, sicché il centro principale degli interessi vitali del soggetto va individuato dando prevalenza al luogo in cui la gestione di detti interessi viene esercitata abitualmente in modo riconoscibile dai terzi.
In altri termini, secondo la Suprema Corte, per la verifica della residenza è necessario prendere in considerazione gli elementi sostanziali e non solo quelli formali. L'interpretazione appena richiamata dell'art. 2 del d.P.R. n. 917/1986 risulta in armonia con la giurisprudenza della Corte di Giustizia, secondo cui " ai fini della determinazione del luogo della residenza normale, devono essere presi in considerazione, sia i legami professionali e personali dell'interessato in un luogo determinato, sia la loro durata, e, qualora tali legami non siano concentrati in un solo Stato membro, l'art. 7, n. 1, secondo comma, della direttiva 83/182/CEE riconosce la preminenza dei legami personali sui legami professionali. Nell'ambito della valutazione dei legami personali e professionali dell'interessato, tutti gli elementi di fatto rilevanti devono essere presi in considerazione, vale a dire, in particolare, la presenza fisica di quest'ultimo nonché quella dei suoi familiari, la disponibilità di un'abitazione, il luogo di esercizio delle attività professionali e quello in cui vi siano interessi patrimoniali" (in tal senso, sentenza 12 luglio 2001 in causa C-262/99, Louloudakis, punti 52, 53 e 55, i cui principi sono stati ribaditi da Corte Giust. 7 giugno 2007 in causa C-156/04, Commissione c. Grecia).
Pertanto, al fine della verifica se gli interessi personali ed economici del contribuente siano in Italia, è possibile valorizzare alcuni elementi specifici, quali la stabile residenza della famiglia del contribuente in Italia, la proprietà di un immobile in Italia, la intestazione delle utenze domestiche al contribuente e l'accredito dei compensi derivanti dall'attività lavorativa prestata all'estero su conti correnti accesi presso istituti bancari italiani (cfr. Corte di Cassazione del primo marzo 2019, n. 6117).
Al riguardo, va affermato che il carattere soggettivo ed elettivo della "scelta" dell'interessato di trasferire la residenza all'estero rileva principalmente quanto alla libertà dell'effettuazione della stessa (l'ordinamento deve riconoscere e garantire l'effettivo esercizio della libertà di stabilimento del centro principale dei propri interessi), ma, allorché si deve rilevare quale sia il risultato di quella scelta, la volontà individuale va contemperata con le esigenze di tutela dell'affidamento dei terzi, di modo che il centro principale degli interessi vitali del soggetto va individuato nel luogo in cui la gestione di detti interessi viene esercitata abitualmente, vale a dire in modo riconoscibile dai terzi. Ne deriva che deve prevalere un criterio di effettività, non un elemento meramente soggettivo (cfr. Corte di Cassazione del 15 giugno 2010, n. 14434).
La Corte di Cassazione, con la pronuncia in esame, pur occupandosi di un sequestro preventivo, ha confermato le suddette interpretazioni, andando ad esaminare anche quanto previsto dalla Convenzione contro le doppie imposizioni tra Italia e Emirati Arabi, e citando la sentenza della Suprema Corte, sezione tributaria, del 21 gennaio 2020, n. 1210. In tale occasione, infatti, i giudici di legittimità avevano ritenuto non tassato in Italia il compenso percepito da una sportiva italiana per l'attività svolta negli Emirati Arabi, in quanto, nel caso specifico, si poteva applicare una clausola convenzionale (art. 19 riguardante le remunerazioni di funzioni pubbliche) che evidentemente non poteva essere applicata al caso del calciatore.
Inoltre, viene fatto riferimento a quanto previsto dall'art. 4 di tale trattato internazionale che disciplina quali criteri debbano esser valutati per verificare quale Paese debba ritenersi di effettiva residenza del soggetto, e quale debba invece rinunciare al proprio potere impositivo; in tale norma, viene data importanza al luogo in cui esiste una abitazione permanente, ovvero, qualora tale condizione si verifichi in entrambi gli Stati, a quello in cui esistono le sue relazioni personali ed economiche sono più strette (centro degli interessi vitali) o, in subordine, dove soggiorna stabilmente.
Ricordando che ai sensi dell'art. 169 del TUIR, le disposizioni convenzionali, se più favorevoli prevalgono su quelle nazionali, la Corte ha ritenuto che il calciatore non aveva dimostrato le condizioni richieste dal Tratto per sostenere la residenza fiscale negli Emirati Arabi. |