Provvedimenti di ripudio (talàq) e riconoscimento dell'efficacia civile in Italia
04 Gennaio 2021
Massima
La decisione di ripudio emanata all'estero da un'autorità religiosa (nella specie il tribunale sciaraitico palestinese), seppure equiparabile, secondo la legge straniera, ad una sentenza del giudice statale, non può essere riconosciuta all'interno dell'ordinamento italiano, sotto il duplice profilo dell'ordine pubblico sostanziale (violazione del principio di non discriminazione tra uomo e donna) e dell'ordine pubblico processuale (mancanza della parità difensiva e di un effettivo contraddittorio, oltre che di ogni accertamento sulla definitiva cessazione della comunione di vita tra i coniugi) Il caso
Due coniugi, aventi entrambi nazionalità sia italiana che giordana, avevano contratto nel 1992 il loro matrimonio a Nablus, città che sorge nella parte della Cisgiordania amministrata dall'Autorità nazionale palestinese. Il tribunale sciaraitico della stessa città, con decisione non definitiva del luglio 2012, e quindi con sentenza definitiva del novembre 2012, aveva dichiarato lo scioglimento del matrimonio, in conseguenza dell'esercizio del ripudio unilaterale da parte del marito (talàq), e questa decisione era stata trascritta nei nostri registri dello stato civile. La donna ha quindi adìto l'autorità giudiziaria italiana per domandare la cancellazione della trascrizione della sentenza palestinese, perché contraria all'ordine pubblico italiano. La Corte d'Appello di Roma ha innanzitutto ritenuto che il tribunale sciaraitico, pur essendo emanazione di un credo religioso e non di un'autorità statuale, fosse comunque competente a conoscere della causa di divorzio in base all'ordinamento giuridico palestinese. La Corte territoriale ha però reputato che una procedura di scioglimento del matrimonio fondata sulla manifestazione unilaterale di volontà del marito di voler ripudiare la moglie, essendo rimasto precluso a quest'ultima di partecipare al procedimento e contraddire, si pone in contrasto con l'ordine pubblico italiano e, ravvisando l'intervenuta violazione dell'art. 64, lett. g), della legge n. 218 del 1995, ha disposto la cancellazione della trascrizione della pronuncia di divorzio palestinese dai registri dello stato civile italiano.
La questione
La sentenza in esame richiede l'analisi di una prima questione, relativa alla possibilità di riconoscere gli effetti civili ad una pronuncia emessa non dal tribunale di uno Stato, bensì da un organo giudicante di una confessione religiosa. Le questione principale che la decisione in commento propone, poi, attiene alla compatibilità con l'ordine pubblico italiano della decisione straniera di divorzio pronunciata in conseguenza della manifestazione unilaterale di volontà da parte del marito, secondo la disciplina islamica del talàq (ripudio), ed in conseguenza alla possibilità di riconoscere ad una simile pronuncia gli effetti civili in Italia. Le soluzioni giuridiche
A proposito della questione preliminare, relativa alla possibilità di riconoscere gli effetti civili in Italia ad una decisione adottata non da un tribunale statuale bensì da un'autorità religiosa, la Cassazione ha osservato che occorre esaminare la funzione svolta nell'ordinamento straniero dal tribunale religioso o sciaraitico. In questo caso, essendo le decisioni emesse dal tribunale religioso autorizzate dallo Stato palestinese nella materia matrimoniale, i tribunali sciaraitici, seppure di matrice religiosa, risultano comunque inglobati nella compagine statuale, ed a loro sono rimesse le «questioni fra i musulmani» (art. 2 della legge n. 31 del 1959) riguardanti lo statuto della famiglia. Ci troviamo pertanto in presenza di un tribunale religioso avente comunque funzioni giurisdizionali in determinate materie, con la conseguenza che alla decisione straniera non può attribuirsi la natura di mero divorzio privato, pronunciato da organi non inseriti nella compagine giurisdizionale. Tanto premesso, la Corte di Cassazione, nella sentenza in commento, ha ritenuto che il provvedimento straniero di divorzio in conseguenza del ripudio (talàq) pronunciato dal marito, risulta in contrasto con l'ordine pubblico italiano, sia in relazione al profilo processuale che in riferimento al profilo sostanziale, e non possono pertanto essere riconosciuti allo stesso gli effetti civili nel nostro ordinamento. La Suprema Corte ha osservato che, nel caso in esame, la moglie ha ricevuto la notifica del provvedimento di registrazione del ripudio del marito revocabile (nel termine di legge), ma senza aver potuto partecipare alla procedura. Successivamente, non risulta che la donna abbia ricevuto notifica dell'avvio della seconda fase del procedimento, volto all'accertamento dell'irrevocabilità del ripudio, che si è pertanto svolto in assenza della stessa. Riguardo al profilo dell'ordine pubblico processuale, il procedimento svoltosi in Palestina, ha ritenuto la Suprema Corte, è incompatibile con la tutela del diritto di difesa della moglie e con la garanzia di effettività del contraddittorio. Non emerge dalla decisione straniera, inoltre, che il Tribunale sciaraitico abbia provveduto all'accertamento dell'intervenuta cessazione del rapporto affettivo e di convivenza dei coniugi, ovvero della possibilità di una sua composizione o continuazione. Non risulta quindi rispettato il principio posto a base dell'ordine pubblico processuale in ordine al presupposto dello scioglimento del vincolo matrimoniale. Ancora, con riguardo al profilo dell'ordine pubblico sostanziale, l'istituto del ripudio disciplinato dalla legge giordana, applicabile in Palestina, si rivela discriminatorio per la donna, poiché il solo marito è abilitato a liberarsi del vincolo matrimoniale con la formula del talàq, senza neppure essere tenuto ad addurre una motivazione, ed essendo quindi l'effetto risolutivo del matrimonio ricollegato ad una decisione unilaterale e potestativa del solo marito. Non risulta quindi rispettato il principio di non discriminazione dei coniugi nella tutela giuridica per ragioni di sesso.
Osservazioni
La soluzione adottata dalla Cassazione, in ordine alla possibilità di riconoscere gli effetti civili in Italia ad una decisione adottata da un tribunale confessionale in un Paese straniero, anziché dall'autorità giudiziaria dello Stato, appare senz'altro condivisibile. La questione, infatti, non consiste tanto nella natura dell'organo che ha adottato la decisione, occorrendo piuttosto verificare se alla decisione del tribunale confessionale risultino attribuiti gli effetti civili nell'ordinamento dello Stato estero, come accertato dalla Suprema Corte nel caso di specie. In proposito, ed a titolo di esempio, si può ricordare che la decisione di nullità del matrimonio canonico trascritto agli effetti civili, il c.d. matrimonio concordatario, pronunciata in Italia dai dicasteri ecclesiastici, anche a prescindere da eventuali accordi intercorsi tra la Santa Sede e lo Stato estero, può conseguire gli effetti civili in quest'ultimo nella misura in cui tali effetti siano riconosciuti alla sentenza di nullità canonica dallo Stato italiano. Resta, nel caso di specie, la singolarità di una decisione adottata ai sensi del diritto giordano, ma pronunciata da un tribunale, non statuale ma confessionale, in Palestina, che è uno Stato il quale gode di un riconoscimento internazionale limitato e non è membro dell'ONU, anche se è stato riconosciuto dall'organizzazione internazionale, che ha attribuito alla Palestina lo status di osservatore permanente con la Risoluzione 67/19, adottata dall'Assemblea generale il 29 novembre 2012. Tanto premesso, l'istituto in esame, proprio del diritto islamico e previsto dalla Sharìa, permette al (solo) marito di divorziare da una moglie (cui non è riconosciuta analoga facoltà) mediante una manifestazione unilaterale di volontà, ripetendo per tre volte la parola talàq (“io divorzio da te”), con un intervallo di almeno una ʿidda (periodo di tempo intercorrente tra un ciclo e l'altro della donna) che deve separare la pronuncia di una formula dall'altra. Per questo l'istituto è spesso qualificato come “ripudio”. Tuttavia, come segnalato nella relazione dell'Ufficio del Massimario della Suprema Corte (Ced Cass., Relazione tematica 3.10.2019, n. 120, est. Giammarco C.), richiamata nella decisione in esame, non esiste un ‘diritto islamico unitario' nella materia del diritto di famiglia e delle persone, registrandosi tra i diversi Stati rilevanti differenze, in primo luogo in ordine alle modalità procedurali da seguire per conseguire il divorzio, e pure in relazione agli organi deputati a pronunciarlo. La relazione segnala, ad esempio, che in Tunisia il ripudio è stato espunto dall'ordinamento giuridico, e si può divorziare solo a conclusione di un procedimento giudiziario cui hanno facoltà di prendere parte ambedue i coniugi. In altri Paesi, oltre al ripudio, inteso come divorzio unilaterale su iniziativa del marito, sono disciplinate anche forme di divorzio consensuale o proceduralizzate, che prevedono la partecipazione di entrambi i coniugi. Il giudizio sulla compatibilità con l'ordine pubblico di una decisione di divorzio pronunziata in un Paese il cui ordinamento giuridico sia ispirato ai principi della tradizione islamica deve pertanto essere effettuato con cautela, valutando caso per caso. Il problema che gli ordinamenti giuridici degli Stati i quali orientano le loro norme giuridiche al rispetto delle prescrizioni contenute nei testi fondamentali dell'Islam sono in realtà diversi tra loro, in riferimento a diversi istituti fondamentali del diritto delle persone e della famiglia, sta cominciando ad originare un numero elevato di interrogativi, che sono destinati ad incrementarsi, quando un Paese non islamico è chiamato a decidere sul riconoscimento degli effetti civili ai provvedimenti adottati in tali Stati. Una questione che sta emergendo, ad esempio, ed ha già richiesto alla Cassazione di pronunciarsi ripetutamente sul punto, con esiti alterni, è quella della kafalah (cfr. Cass. sez. I, 1843/2015, Cass.11404/2014, Cass.19450/2013; Cass. SU, 21108/2013), un istituto che presenta delle analogie con l'affidamento dei minori e, in alcuni casi, pure con l'adozione c.d. legittimante. Anche in questo caso un problema di non poco rilievo è che ne esistono forme diverse, ed accanto ad una kafalah giudiziale, forma di adozione che è pronunciata dal giudice previo accertamento dello stato di abbandono del minore, alcuni diritti nazionali consentono anche la kafalah convenzionale, forma di affidamento negoziale del minore, soggetto ad omologa giudiziaria, o meno. Sulla possibilità di riconoscere gli effetti civili alla manifestazione unilaterale della volontà di divorziare, espressa dal marito nell'assenza di un procedimento giurisdizionale che assicuri la possibilità di partecipazione della moglie, ed in materia di tutela dei paritari diritti di quest'ultima, è stata chiamata a pronunciarsi anche la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, con la sentenza 20 dicembre 2017, in causa C-372/16, Sahyouni c. Mamisch. Nel caso di specie la controversia aveva ad oggetto la possibilità di riconoscere gli effetti civili allo scioglimento del matrimonio conseguito dal marito in Siria mediante ripudio, e classificato come un c.d. divorzio privato, inteso come quello ottenuto dall'uomo in un procedimento svoltosi innanzi ad un tribunale sciaraitico senza la partecipazione della moglie. La peculiarità della vicenda ha comportato che la CEDU non si sia espressa nel merito, ma ha comunque colto l'occasione per affermare che la compatibilità con l'ordine pubblico del divorzio privato deve stimarsi in base alla legislazione straniera applicata da valutarsi in astratto, indipendentemente dal fatto che, nel caso concreto, sussistano elementi per ritenere che i diritti della donna non siano stati violati, valorizzando, ad esempio, l'adesione della moglie al divorzio conseguito dal marito mediante ripudio. Alla nozione di divorzio privato, peraltro, possono essere attribuiti anche altri significati come, ad esempio, l'ipotesi in cui il divorzio sia stato riconosciuto sul fondamento di un ripudio (talàq) manifestato dal marito innanzi ad un'autorità senz'altro non giurisdizionale, come un notaio, con o senza omologazione da parte di un tribunale statuale. È proprio in riferimento ad un divorzio privato dell'ultima categoria indicata che si è registrata l'unica pronuncia della Cassazione in materia di talàq. La Suprema Corte, con la pronuncia Cass. sez. I, sent. 5.12.1969, n. 3881, ha sancito che “se, a seguito della ratifica della Convenzione dell'Aja, l'istituto del divorzio non può ritenersi contrario ai principi di ordine pubblico, stante la riconosciuta possibilità di dichiarare efficaci in Italia le sentenze straniere di divorzio relative a matrimoni civili contratti da cittadini stranieri, non si concilia, tuttavia, con i principi stessi l'efficacia di una dichiarazione unilaterale di ripudio comunque resa dal marito e comunque ricevuta e certificata dal pubblico ufficiale straniero, (sia pure che l'atto in questione sia conforme alla legge del Paese in cui è stato redatto - nella specie Iran -), in quanto essa conduce allo scioglimento del matrimonio non per cause predeterminate dalla legge ed accertabili nell'effettivo contraddittorio di entrambi i coniugi, ma per mera volontà discrezionale del marito stesso” (Ced Cass. Rv. 344261-01). Nel caso in questione il matrimonio era stato celebrato in Italia tra un cittadino iraniano ed una cittadina italiana, ed era stato sciolto in conseguenza della dichiarazione unilaterale di ripudio pronunciata dal marito innanzi ad un ufficio notarile di Teheran, all'insaputa della moglie. La Cassazione ha ritenuto la contrarietà con l'ordine pubblico della pronuncia in quanto “eleva il marito ad arbitro del vincolo coniugale”. Anche le Corti di merito italiane hanno quasi sempre ritenuto che non potesse provvedersi, per contrasto con l'ordine pubblico, al riconoscimento degli effetti civili ad un provvedimento di divorzio conseguente alla pronuncia del talàq. In tal senso si è pronunciata Corte d'App. Roma, 29.10.1948, in un'ipotesi di ripudio dichiarato dal marito innanzi ad un tribunale sciaraitico di Damasco, senza partecipazione della moglie al procedimento. Il medesimo orientamento è stato espresso da App. Milano, 14 dicembre 1965, in un caso in cui il talàq era stato pronunziato dal marito innanzi ad un notaio di Teheran, senza alcun controllo giurisdizionale. Orientamento confermato da App. Roma, 9 luglio 1973, e App. Milano, 17 dicembre 1991, in fattispecie accomunate dall'avere la moglie aderito al ripudio pronunziato dal marito. Nel primo caso il ripudio era stato dichiarato dal marito egiziano innanzi ad un tribunale sciaraitico, ma previa sollecitazione della moglie italiana, che aveva pure rinunziato al versamento di una parte della dote che le spettava ed al pagamento degli alimenti. Nel secondo caso, un ripudio pronunciato innanzi al tribunale sciaraitico di Teheran, la moglie, contumace in primo grado, si era costituita in appello dichiarando di aderire alla volontà del marito. In entrambi i casi le Corti di merito italiane hanno ritenuto che i provvedimenti stranieri di divorzio quale conseguenza del ripudio, adottati sul fondamento della volontà unilaterale del marito e senza assicurare la garanzia del rispetto dei diritti della moglie, non potessero conseguire il riconoscimento degli effetti civili in Italia per insuperabile contrasto con il nostro ordine pubblico. In senso coerente si pone anche la decisione edita più recente, adottata da App. Venezia, 9 aprile 2015, avendo la Corte territoriale negato la trascrivibilità del provvedimento adottato da un tribunale marocchino, il quale aveva dichiarato lo scioglimento del matrimonio contratto dal ricorrente con una connazionale, per effetto del ripudio irrevocabile pronunciato dal marito, ritenendo sussistere la contrarietà con l'ordine pubblico italiano, in conseguenza della verificata mancanza di un reale contraddittorio tra le parti, inteso come possibilità di agire e contraddire. L'unico caso noto in cui un giudice nazionale abbia riconosciuto un provvedimento straniero di ripudio come idoneo a conseguire il riconoscimento degli effetti civili è rappresentato dalla decisione adottata il 24.5.2008 dalla Corte d'Appello di Cagliari. In questa ipotesi il ripudio era stato pronunciato dal marito in Egitto, e la Corte di merito ha osservato che la moglie era stata portata a conoscenza della procedura, cui avrebbe avuto la possibilità di partecipare ai sensi della legislazione egiziana, che peraltro non comporterebbe una disparità di genere, secondo la Corte territoriale, poiché anche alla donna è consentito promuovere lo scioglimento del matrimonio mediante la procedura della c.d. khola. Merita ancora di essere evidenziato che la sentenza in commento, n. 16804/2020, è stata deliberata il 16 luglio 2020, e la stessa prima sezione della Suprema Corte aveva adottato altra decisione in materia il 22 giugno 2020, che è stata poi pubblicata una settimana dopo la prima, assumendo il n. 17170. La massima ufficiale recita: “Per decidere sulla richiesta di cancellazione della trascrizione dai registri dello stato civile italiano della sentenza straniera che abbia pronunciato il divorzio dei coniugi, a causa della contrarietà della stessa con l'ordine pubblico italiano, il giudice nazionale deve esaminare, ai sensi dell'art. 64, lett. g), della l. n. 218 del 1995, se la decisione straniera produca "effetti" contrari al detto ordine pubblico, accertando se nel corso del procedimento straniero siano stati violati i diritti essenziali della difesa, sicché resta esclusa la possibilità di sottoporre il provvedimento straniero ad un sindacato di merito, valutando la correttezza della soluzione adottata alla luce dell'ordinamento straniero o di quello italiano” (Cass. sez. I, sent. 14 agosto 2020, n. 17170, Ced Cass. Rv. 658878-01). Merita però di essere aggiunto che, nella specie, il Giudice di legittimità ha cassato con rinvio la decisione della Corte di merito, la quale aveva accolto la richiesta di cancellazione dai registri dello stato civile di una sentenza di divorzio iraniana per contrarietà con l'ordine pubblico, motivando che la concreta fattispecie divorzile, per il suo carattere unilaterale ed arbitrario, non si discostava dall'istituto del ripudio. Questa decisione risulta pertanto più “aperta” rispetto alla possibilità di riconoscere gli effetti civili alla decisione straniera di divorzio unilaterale, e sembra anche potersi porre in contrasto con l'orientamento secondo cui la valutazione della compatibilità con l'ordine pubblico debba effettuarsi in astratto, come sostenuto dalla CEDU nella ricordata sentenza 20 dicembre 2017, in causa C-372/16, Sahyouni c. Mamisch. Appare anche opportuno segnalare che entrambe le richiamate sentenze, adottate dalla Cassazione in materia di riconoscibilità degli effetti civili ad un provvedimento straniero di divorzio unilaterale, nell'assenza della partecipazione al procedimento della moglie, sono state pronunciate in giudizi aventi ad oggetto la cancellazione della trascrizione di detti provvedimenti, che erano pertanto già stati trascritti e producevano effetto nell'ordinamento italiano, senza che fosse intervenuto alcun controllo giurisdizionale. Tanto induce ad interrogarsi sull'efficacia della modalità di riconoscimento degli effetti civili ai provvedimenti stranieri attualmente vigente in relazione a simili casi. La Cassazione, nella sent. Cass. n. 16804/2020 in commento, rileva come “si può fondatamente dubitare che il ripudio”, come manifestato nella vicenda in questione, “costituisca “provvedimento” ai sensi dell'art. 65” l. n. 218/1995, suscettibile di conseguire gli effetti civili senza controllo giurisdizionale, “giacché rimane un atto privato di volontà, sia pure reso davanti ad un'autorità religiosa locale, che si limita ad autenticarlo”. In definitiva, la sentenza Cass. n. 16804/2020 della Suprema Corte, che nega la compatibilità con l'ordine pubblico italiano della decisione straniera che abbia accordato riconoscimento al divorzio conseguente al ripudio unilaterale dichiarato dal marito (talàq), senza che alla moglie sia stato consentito neppure di partecipare alla procedura, appare condivisibile, ma i casi possono essere diversi, perché gli ordinamenti matrimoniali non sono uguali nei diversi Stati il cui ordinamento giuridico è ispirato ai principi dell'Islam. Ѐ facile prevedere che di questi problemi occorrerà presto tornare ad occuparsi.
Riferimenti
SINAGRA A., Ripudio-divorzio islamico ed ordine pubblico italiano, nota a Corte d'App. Torino, 9.3.2006, in Il diritto di famiglia e delle persone, Giuffrè, 2007,156. GALOPPINI A., Il Ripudio e la sua rilevanza nell'ordinamento italiano, in Il diritto di famiglia e delle persone, Giuffrè, 2005, 982. |