Il mutuo per l'acquisto di un immobile quale “passività incontrata” ex art. 42, comma 2, l.fall.

Martina Elisa Pillon
07 Gennaio 2021

Rientra tra le “passività incontrate per l'acquisto” del bene, ai sensi dell'art. 42, comma 2, l.fall., il debito derivante da un contratto di mutuo stipulato dal fallito, in pendenza della procedura concorsuale, per l'acquisto di un immobile, successivamente appreso all'attivo del fallimento, a condizione che l'istituto di credito dimostri che la somma erogata è stata effettivamente richiesta ed impiegata dal debitore per tale scopo.
Massima

Rientra tra le “passività incontrate per l'acquisto” del bene, ai sensi dell'art. 42, comma 2, l.fall., il debito derivante da un contratto di mutuo stipulato dal fallito, in pendenza della procedura concorsuale, per l'acquisto di un immobile, successivamente appreso all'attivo del fallimento, a condizione che l'istituto di credito dimostri che la somma erogata è stata effettivamente richiesta ed impiegata dal debitore per tale scopo.

Il caso

Una banca depositava domanda tardiva di insinuazione al passivo ai sensi dell'art. 101 l.fall., chiedendo l'ammissione del proprio credito in prededuzione. In particolare, il creditore deduceva l'inerenza della propria pretesa al saldo di un contratto di mutuo, concesso al fallito, a fallimento già dichiarato, per l'acquisto di un immobile, il quale, successivamente, veniva appreso alla procedura e alienato. La natura prededucibile del credito risiedeva, pertanto, secondo i ricorrenti, nella riconducibilità dell'obbligazione in questione alle “passività incontrate per l'acquisto” del bene sopravvenuto al fallimento, ai sensi dell'art. 42, comma 2, l.fall.

In seguito all'esclusione della Banca dal concorso e all'istruzione della causa da parte del Giudice delegato a norma degli artt. 175 ss. c.p.c., si costituiva la curatela contestando, in primo luogo, la natura concorsuale del credito, in quanto sorto dopo la dichiarazione di fallimento; in secondo luogo, escludendo l'applicabilità dell'art. 42, comma 2, l.fall., dal momento che il debito nei confronti dell'opponente non traeva origine dal negozio con cui era stato acquisito il bene alla procedura, ma dal contratto di mutuo ed, infine, negando il carattere prededucibile della pretesa, in quanto non relativa ad atti posti in essere dagli organi del fallimento.

Il Tribunale di Marsala accoglieva l'opposizione e, in riforma dello stato passivo, ammetteva il credito, riconoscendogli rango prededucibile ai sensi dell'art. 42, comma 2, l.fall.

Secondo il Collegio, infatti, per un verso, l'acquisto alla procedura dell'attivo sopravvenuto avviene automaticamente, senza necessità di alcun atto diretto a tal fine da parte degli organi del fallimento ed è sottoposto alla condizione risolutiva del pagamento delle passività inerenti al bene.

Per altro verso, il Tribunale condivide l'orientamento della Suprema Corte secondo cui la passività gravante sul cespite sopravvenuto rappresenta un debito della massa, da soddisfare al di fuori del concorso, nell'ambito della procedura, quale atto di amministrazione attiva degli organi del fallimento. Ciò in quanto i creditori concorsuali beneficiano dell'ingresso nel patrimonio fallimentare della nuova posta attiva a condizione che l'acquisizione di quest'ultima, depurata dai debiti, si riveli per loro conveniente.

Quanto all'applicabilità, al caso di specie, dell'art. 42, comma 2, l.fall., la decisione si basa su una triplice motivazione.

In primo luogo, per opinione generalmente condivisa, l'art. 42, comma 2, l.fall., si riferisce anche ai beni che siano sopravvenuti al fallimento per effetto di un'attività negoziale posta in essere direttamente dal fallito, il quale, per effetto dell'apertura della procedura concorsuale, è privato unicamente della amministrazione e della disponibilità dei suoi beni e non anche della propria capacità giuridica.

Ciò premesso, ferma restando la necessità di un rapporto di inerenza tra la passività ed il bene appreso al fallimento, il carattere estremamente generico dell'espressione “passività incontrate”, impiegata dal legislatore all'art. 42, secondo comma, l.fall., osta ad una lettura della norma volta a ricondurre nel suo ambito di applicazione solo le obbligazioni sorte dal negozio con cui il debitore ha acquistato l'immobile. Al contrario – secondo i giudici dell'opposizione – sono passività prededucibili tutti i debiti contratti dal fallito, a qualunque titolo, in funzione dell'acquisto del bene, a condizione che ricorra uno stretto collegamento tra quest'ultimo e le passività.

Infine, secondo il Collegio, una lettura restrittiva si porrebbe in contrasto con la ratio della disposizione, la quale è posta a tutela anche dei terzi che vantino crediti nei confronti del fallito per effetto di un negozio giuridico, successivo al fallimento, dal quale sia conseguito l'acquisto del bene sopravvenuto all'attivo. Ciò – si afferma nella decisione – in considerazione del fatto che la soluzione contraria avvantaggerebbe ingiustamente i creditori ammessi al concorso i quali, per un verso, beneficerebbero dell'attivo ricavato dalla liquidazione del bene sopravvenuto senza sopportarne le passività e, per altro verso, vedrebbero esclusi dal concorso i terzi che hanno concluso il negozio con il fallito.

Osservazioni

La sentenza in commento affronta il dibattuto tema dell'individuazione delle passività deducibili, ai sensi dell'art. 42, comma 2, l.fall., dai beni sopravvenuti al fallimento, giungendo ad una soluzione – per quanto consta – inedita in giurisprudenza.

Secondo il Tribunale di Marsala, infatti, il collegamento tra il contratto di mutuo stipulato dal fallito per l'acquisto di un immobile ed il negozio con cui quest'ultimo ha acquisito la proprietà del bene consente di ricomprendere l'obbligazione restitutoria nei confronti della Banca tra i debiti al netto dei quali il curatore deve valutare la convenienza dell'avocazione al fallimento del cespite sopravvenuto.

La questione della deducibilità, ai sensi della citata norma, dei crediti vantati da terzi, relativi a finanziamenti che si siano rivelati strumentali all'acquisto di un bene da parte del fallito era, a ben vedere, già stata, in passato, portata all'attenzione delle Corti di merito. Tuttavia, nelle sporadiche ed, invero, risalenti decisioni reperibili, i Tribunali fallimentari hanno mostrato di prediligere una lettura restrittiva dell'art. 42, secondo comma, l.fall. ed hanno, pertanto, ritenuto che esuli dalla previsione in esame l'obbligo alla restituzione della somma mutuata al fallito (cfr. sul punto Trib. Roma, 14 ottobre 1950, in Dir. fall., 1950, II, 320; Trib. Treviso, 23 ottobre 1997, in Dir. fall., 1998, II, 967, con nota di Sgroi Santagati, Ancora in tema di «bene sopravvenuto»).

L'incertezza interpretativa, diversamente superata dalla giurisprudenza ricordata, nasce dalla ambigua formulazione dell'art. 42 l.fall.

Tale disposizione, infatti, dopo aver affermato, al primo comma, il principio secondo cui dal giorno della sentenza dichiarativa di fallimento il debitore è privato dell'amministrazione e della disponibilità dei suoi beni esistenti alla data della dichiarazione di fallimento (c.d. “spossessamento”), al secondo comma aggiunge che sono compresi nel fallimento i beni che pervengono al fallito durante la procedura, “dedotte le passività incontrate per l'acquisto e la conservazione dei beni medesimi”.

Quanto al comma secondo, esso pone molteplici problemi. Si discute, infatti, per un verso, dell'automaticità o meno dell'avocazione al fallimento delle attività sopravvenute e della qualificazione delle passività relative al bene sopravvenuto quali debiti della massa, ovvero quali debiti personali del fallito. Per altro verso, la letteratura giuridica si è a lungo interrogata – e tutt'ora si interroga – sul significato delle parole “passività incontrate”, impiegate dal legislatore del 1942.

Riguardo alle modalità di acquisizione del bene sopravvenuto e al carattere personale, piuttosto che concorsuale delle passività ad esso inerenti, non sembra necessario svolgere ulteriori considerazioni rispetto a quelle contenute nella decisione in commento.

A tal proposito, appare – secondo chi scrive – condivisibile la ricostruzione operatadal Tribunale di Marsala e da Cass., 21 marzo 1989, n. 1417, citata anche dalla pronuncia in commento,con riferimento al carattere automatico dell'apprensione al fallimento dell'attivo sopravvenuto (sull'efficacia ex lege dell'acquisizione, condivisa dalla maggior parte della dottrina, si veda Ricci, Lezioni sul fallimento, II, Milano, 1998, 79 e 160; Satta, Diritto fallimentare, 3ª ed., Vaccarella – Luiso (a cura di), Padova, 1996, 149; De Ferra, Sub art. 42, in De Ferra – Guglielmucci, Effetti del fallimento per il fallito, in Commentario Scialoja-Branca della legge fallimentare, Bologna-Roma, 1986, 26; Provinciali – Ragusa Maggiore, Istituzioni di diritto fallimentare, Padova, 1988, 225, secondo i quali, peraltro, il decreto di acquisizione del Giudice delegato «rende attuale l'automaticità dell'apprensione, conseguente alla sentenza dichiarativa» e «funziona quindi come condizione di procedibilità»; Lo Sinno, Nota a Trib. Treviso del 23 ottobre 1997, in IlFallimento, 1998, 8, 835 s. Contra si veda Pajardi, Manuale di diritto fallimentare3, Milano, 1986, 233 ss.; Zanichelli, Gli effetti del fallimento per il fallito e i creditori, in Trattato delle procedure concorsuali, Jorio – Sassani (diretto da), II, Milano, 12; Andrioli, (voce) Fallimento (dir. priv. e dir. proc. civ.), in Enc. dir., XVI, Milano, 1967, 386; Candian, Impossibilità di nuova impresa in costanza di fallimento, in Dir. fall., 1958, I, 122, il quale individua una condizione sospensiva dell'acquisto nella verifica di un residuo attivo in seguito al pagamento degli oneri in prededuzione).

Ad ulteriore sostegno delle argomentazioni offerte dalla decisione in esame su tale aspetto, si può solo osservare che l'art. 42, comma 3, l.fall., prevede un potere di “rinuncia” all'acquisizione in capo agli organi fallimentari. La dizione è da ritenersi tutt'altro che casuale ed, anzi, risulta coerente con la situazione contemplata dalla disposizione. Infatti, il meccanismo della rinuncia viene impiegato dal legislatore ogniqualvolta ritenga che da una fattispecie, secondo l'id quod plerumque accidit, derivi in capo al soggetto a cui è attribuita tale facoltà un accrescimento patrimoniale. Pertanto, in tali casi, poiché si presume che il beneficiario veda con favore la modifica della propria sfera giuridica, la legge prevede un acquisto automatico del diritto, senza necessità, ai fini del perfezionarsi della fattispecie acquisitiva, di accettazione (ciò avviene, ad esempio, in tema di legati, ex art. 649 c.c., in quanto il legatario non sopporta, di regola, le passività gravanti sull'eredità. Peraltro, anche qualora, per effetto del testamento, il legatario sia tenuto al pagamento dei debiti del de cuius, la responsabilità sarà solo intra vires e non cum viribus, ex art. 671 c.c.).

Come insegna la migliore dottrina, infatti, la rinuncia, a differenza del rifiuto, il quale impedisce il perfezionarsi dell'acquisizione, «si specifica come atto abdicativo di un diritto in precedenza acquisito al patrimonio del soggetto» (così Macioce, (voce) Rinuncia (dir. priv.), in Enc. dir., XL, Milano, 1989, 923 ss. Sul tema si veda anche Moscarini, (voce) Rinunzia, in Enc. Giur. Treccani, XXVII, Roma, 1993, 4; Sicchiero, (voce) Rinuncia, in Digesto (disc. priv.), Sez. civ., Torino, 1998, XVII,659).

Tanto premesso, si comprende, allora, agevolmente la facoltà di rinuncia riconosciuta agli organi del fallimento.

Il bene sopravvenuto, infatti, nella generalità dei casi, costituisce un beneficio per il fallimento, in quanto rappresenta un'ulteriore posta attiva del patrimonio del debitore, la cui liquidazione aumenta l'attivo distribuibile. Dal punto di vista dell'economia dei mezzi giuridici risulta, dunque, certamente più efficiente una soluzione che preveda l'incremento automatico del patrimonio fallimentare, piuttosto che un intervento attivo degli organi della procedura ai fini dell'apprensione del bene. Del resto, tale automatismo non lede in alcun modo l'interesse dei creditori concorsuali, poiché al curatore è riconosciuta, da un lato, come visto, la facoltà di rinunciare, con efficacia ex tunc, all'acquisizione e, dall'altro lato, ai sensi dell'art. 104-ter, comma 8, l.fall., la possibilità di non procedere alla vendita di beni nel caso in cui l'attività di liquidazione si preannunci non conveniente (sull'operare retroattivo della rinuncia si veda Ricci, op. cit., 160).

Quanto alla natura delle obbligazioni gravanti sul bene sopravvenuto, parimenti condivisibile appare la posizione sostenuta dal Tribunale di Marsala.

La contestazione opposta dalla Curatela, in base alla quale il credito fatto valere dalla Banca non sarebbe concorsuale in quanto sorto successivamente alla dichiarazione di fallimento, infatti, si fonda sulla circostanza che, al caso di specie, non sarebbe applicabile l'art. 42 l.fall., ma l'art. 44 l.fall., ai sensi del quale il contratto di mutuo stipulato dal fallito dovrebbe ritenersi inefficace.

Tuttavia, tale eccezione risulta superata, in primo luogo, dal rilievo svolto dal Tribunale fallimentare, secondo cui l'art. 42 l.fall. riguarda non solo i beni che siano sopravvenuti per effetto di una circostanza esterna alla volontà del fallito, ma anche i beni che pervengano per effetto di una attività negoziale posta in essere dal debitore. Ciò in quanto, se è vero che quest'ultimo è privato, dal giorno della sentenza dichiarativa di fallimento, della capacità di agire limitatamente ai rapporti di diritto patrimoniale compresi nel fallimento, non è men vero che egli conserva la capacità giuridica e di compiere atti che non si rivelino pregiudizievoli per i creditori. Per tale motivo, come noto, la legge fallimentare sottrae i negozi che comportino un incremento del patrimonio del debitore al regime dell'inefficacia ex art. 44 l.fall., per consentire al fallimento di beneficiare delle utilità derivanti dall'attività posta in essere (cfr., ex multis, Andrioli, op. cit., 386; Zanichelli, op. cit.,10).

In secondo luogo, una volta affermata l'applicabilità al caso di specie della disciplina in tema di beni futuri, non sembra che residuino ragioni per escludere il carattere prededucibile e la possibilità di insinuarsi al passivo del creditore.

Per un verso, infatti, la lettera stessa dell'art. 42, comma 2, l.fall., induce a ritenere tali debiti quali debiti della massa, imponendosene la soddisfazione al di fuori del concorso (in tal senso, si veda Cass., 28 settembre 1993, in Cass. pen., 1995, 1631 (s.m.). In dottrina, cfr. Ricci, op. cit., 85 s., secondo il quale, al pari di quanto avviene per qualsiasi creditore della massa, il debito può essere soddisfatto anche in corso di procedura e non costituisce, dunque, una necessaria premessa della acquisizione; Rocco di Torrepadula, Sub art. 42, in Il Nuovo diritto fallimentare, Jorio (diretto da), Bologna, 2010, II, 703; Provinciali – Ragusa Maggiore, op. cit., 225). Come noto, infatti, sono debiti prededucibili, ai sensi dell'art. 111, comma 2, l.fall., non solo quelli sorti in occasione o in funzione di una procedura concorsuale, ma anche quelli così qualificati da una specifica disposizione di legge.

Per altro verso, anche le passività prededucibili devono essere accertate all'interno del procedimento di accertamento del passivo nel caso in cui siano contestate (come nel caso di specie) per collocazione o ammontare (art. 111-bis l.fall.).

A ciò si aggiunga che, in ogni caso, non pare persuasiva la considerazione secondo cui la posteriorità del sorgere del credito rispetto alla dichiarazione di fallimento impedirebbe l'insinuazione al passivo. La legge fallimentare, infatti, contempla altri casi in cui un credito, pur successivo all'apertura della procedura, deve essere accertato secondo le modalità previste dagli artt. 92 ss. l.fall.: si pensi, ad esempio, all'ipotesi prevista dall'art. 70 l.fall., relativa all'eventuale credito del convenuto soccombente nel giudizio di revocatoria fallimentare, ovvero al caso dell'insinuazione al passivo del credito da regresso del fideiussore o coobbligato del debitore fallito che abbiano eseguito il pagamento successivamente alla dichiarazione di fallimento, ai sensi dell'art. 61, comma 2, l.fall. (cfr. Cass., 17 ottobre 2018, n. 26003, in DeJure).

Venendo, invece, all'ambito di applicazione dell'art. 42, comma 2, l.fall., che rappresenta il profilo di maggior interesse della sentenza, deve, anzitutto, premettersi che i dibattiti presenti nel panorama giurisprudenziale e dottrinario derivano dalla formulazione della seconda parte della disposizione.

Mentre, infatti, è chiara la portata della norma nella parte in cui afferma che “sono compresi nel fallimento anche i beni che pervengono al fallito durante il fallimento”, in quanto è pacifico che il legislatore ha inteso estendere lo spossessamento di cui al primo comma a tutto il patrimonio – materiale ed immateriale – del debitore, in conformità al principio sancito dall'art. 2740 c.c. (cfr. Satta, op. cit., 142 s., il quale osserva, peraltro, che dal momento che tale norma si pone come integrazione alla regola stabilita nel primo comma, non sono considerati beni sopravvenuti solamente quei rapporti giuridici patrimoniali esclusi sin dall'origine dal fallimento, quali i beni contemplati dall'art. 46 l.fall., ovvero, per l'appunto, i beni la cui acquisizione risulti non conveniente ai sensi dell'art. 42, comma 3, l.fall.), meno evidente risulta il significato della espressione impiegata nella seconda parte del comma 2.

L'art. 42 l.fall., infatti, come osservato dal Tribunale di Marsala, pone quale condizione risolutiva dell'acquisizione al fallimento del bene sopravvenuto l'estinzione delle “passività incontrate per l'acquisto e la conservazione” del cespite (sul pagamento degli oneri quale condizione risolutiva dell'acquisizione si veda, ex multis,Tomaiuoli, I beni futuri del fallito, in Foro It., 1955, IV, 230).

La norma presuppone, con tutta evidenza (ed infatti su tale aspetto vi è uniformità di vedute), un rapporto di inerenza tra la passività ed il bene sopravvenuto, la quale si sostanzia in una «diretta, assoluta e imprescindibile rispondenza del debito allo scopo, ossia di causa ad effetto» (così, Tomaiuoli, op. cit., 232). Neppure crea problemi la definizione dei debiti inerenti alla “conservazione”, in quanto tale espressione si riferisce certamente al mantenimento materiale del bene al fine di preservarne l'integrità (vi rientrano, ad esempio, spese relative alla amministrazione, oppure alla custodia del cespite).

Il dibattito concerne, piuttosto, la portata estensiva, ovvero restrittiva, del concetto di inerenza.

La lettera della norma, effettivamente, non conduce ad un'interpretazione univoca ed, anzi, sembrerebbe forse autorizzare anche un'ulteriore ricostruzione che, a differenza delle opinioni più diffuse, faccia riferimento non ai debiti contratti dal fallito, ma alle passività che l'amministrazione fallimentare dovrebbe estinguere per l'acquisto e la conservazione del bene (prova ne è che il terzo comma dell'art. 42 l.fall. individua nella prevalenza dei “costi da sostenere” – e, dunque, di obbligazioni non ancora sorte – per l'acquisto e la conservazione il criterio alla luce del quale la curatela deve valutare la convenienza dell'apprensione al fallimento del bene sopravvenuto).

Ad ogni modo, limitando l'esame a quello che rappresenta l'oggetto del dibattito prevalente, deve darsi conto di due tesi contrapposte.

Oltre alla giurisprudenza sopra ricordata, infatti, autorevoli voci in dottrina, proprio con riferimento al contratto di mutuo stipulato per l'acquisto di un immobile, hanno privilegiato una lettura dell'art. 42, comma 2, l.fall., volta a ritenere che siano deducibili solo i debiti che il fallito abbia contratto all'interno del negozio con cui ha acquisito il bene sopravvenuto. In tal senso deporrebbe, anzitutto, la scelta del legislatore di limitare la prededucibilità a due soli specifici casi (l'acquisto e la conservazione) ed, inoltre, comprensibili esigenze di prevenire istanze di pagamento pretestuose o fraudolentemente concordate con il fallito (cfr. sul punto Tomaiuoli, op. cit., 232). A ciò si aggiunge che un'interpretazione estensiva della norma porterebbe a ritenere opponibile ai creditori non solo il negozio con cui il debitore ha acquisito il bene, ma anche l'ulteriore e diverso negozio con cui il fallito ha assunto l'obbligazione nei confronti del proprio finanziatore, con conseguente violazione della regola per cui tale contratto dovrebbe ritenersi inefficace, ai sensi dell'art. 44 l.fall. (cfr. Tomaiuoli, op. cit., 232. Nello stesso senso, in giurisprudenza si veda Trib. Treviso, 23 ottobre 1997, cit.; sul tema si veda anche Ricci, op. cit., 87 s., il quale afferma che è necessario operare una distinzione tra le passività che trovino il loro titolo nel medesimo atto di acquisizione compiuto dal fallito e le passività che trovino il loro titolo in un diverso atto, ma che risultino comunque connesse al bene acquisito. Nel primo caso, trattandosi di debiti legati da un «nesso sinallagmatico con l'arricchimento patrimoniale del fallito», opererà la previsione dell'art. 42, comma 2, l. fall. ed il pagamento avverrà in prededuzione; nel secondo caso, invece, il pagamento avverrà secondo le regole concorsuali, in quanto «in difetto di esplicita previsione contraria, i principi generali vogliono che, se il ceto creditorio si giova di una qualsiasi acquisizione di beni, esso subisca per intero tutte le passività comunque connesse con l'acquisizione, anche se si tratta di passività non rientranti nella fattispecie descritta dal secondo comma dell'art. 42 l.fall.»; Sgroi Santagati, Ancora in tema di «bene sopravvenuto», nota a Trib. Treviso, 23 ottobre 1997, cit., 971 ss., il quale sostiene la possibilità di una insinuazione tardiva del credito del finanziatore in via chirografaria nel caso in cui venga fornita la prova di un collegamento negoziale con il negozio di acquisto del bene).

Al contrario, altrettanto autorevoli opinioni dottrinali hanno ravvisato nelle parole del legislatore l'intenzione di estendere l'ambito di applicazione dell'art. 42, comma 2, l.fall., sino a ricomprendervi qualsiasi debito contratto dal fallito in funzione dell'acquisto del bene, successivamente appreso al fallimento. Ciò in quanto – si afferma – «il legislatore non poteva usare formula più rivelatrice di ampiezza di previsione: il termine «incontrare» è tanto onnicomprensivo da essere atecnico» (così Pajardi, op. cit., 276 e nota 23. Nello stesso senso si veda anche Lo Sinno, op. cit., 835 ss.; Ferrara – Borgioli, Il fallimento, Milano, 1995, 334). Secondo tale orientamento, dunque, la norma in commento risponde ad esigenze di equità, poiché è rivolta a compensare i creditori successivi dell'automatica avocazione al fallimento del bene, la quale sottrae loro la garanzia generica posta a tutela del proprio credito.

A parere di chi scrive, la lettura estensiva del secondo comma pare preferibile, a condizione che vi si aggiunga il temperamento proposto dal Tribunale di Marsala e ciò, soprattutto, in ragione della ratio sottesa all'art. 42 l.fall.

L'inciso finale della norma in commento, infatti, dimostra l'intenzione del legislatore di contemperare l'interesse dei creditori concorsuali con l'interesse dei terzi che entrino in rapporto con il soggetto fallito e stipulino negozi con esso. Ciò in quanto l'attività negoziale del dichiarato fallito è vista con sfavore solo nel momento in cui arrechi pregiudizio alla massa dei creditori concorsuali, risolvendosi in una diminuzione o sottrazione fraudolenta dell'attivo. Al contrario, non vi sono ragioni per impedire al fallito di porre validamente in essere negozi giuridici che abbiano come effetto quello di aumentare il patrimonio fallimentare (così anche Provinciali, Trattato di diritto fallimentare, II, Milano, 1974, 832; Vicari, Effetti della sentenza dichiarativa di fallimento e buona fede del terzo, in Giur. comm., 1982, II, 659).

Per ottenere questo effetto e consentire, dunque, un maggior soddisfacimento dei creditori anteriori al fallimento anche grazie ai beni futuri, è però necessario prevedere meccanismi idonei a non disincentivare la contrattazione dei terzi con il fallito.

La soluzione individuata dalla decisione in commento traduce in modo equilibrato tali esigenze.

Per un verso, infatti, riconosce la necessità di stabilire un criterio per limitare il concetto di inerenza della passività al bene, in modo da evitare pretestuose richieste di soddisfacimento in prededuzione. Allo stesso tempo, tuttavia, non pretende che la passività trovi il suo titolo nel medesimo negozio di acquisto del bene. Al contrario, ravvisa l'essenza del concetto di inerenza nel collegamento negoziale tra il rapporto con cui il fallito ha acquisito il bene sopravvenuto ed il rapporto all'interno del quale è sorta la passività di cui si pretende il pagamento in prededuzione.

Grazie al collegamento, nel caso di specie rappresentato dalla stipula di un mutuo di scopo, non si potrebbe dunque ritenere che il negozio concluso con il terzo finanziatore sia estraneo rispetto al contratto con cui il fallito ha acquisito l'immobile.

Ciò risulta, del resto, conforme alla tesi civilistica maggioritaria secondo cui l'esistenza di un collegamento negoziale rilevante, dimostrato dalle parti e non riconducibile ad una semplice aspettativa individuale, consente di ritenere che un contratto, in apparenza dotato di una determinata causa, integri la causa concreta di un altro contratto ad esso collegato, assumendo dunque il rilievo di elemento costitutivo, ai sensi dell'art. 1325 c.c., del negozio collegato e perdendo la qualifica di semplice motivo, irrilevante ai fini del regolamento contrattuale (cfr. Bianca, Diritto civile III. Il contratto, Milano, 2019, 437 ss.; Roppo, Il contratto3, Milano, 2011, 368 ss. Si consideri inoltre che la giurisprudenza di legittimità, coerentemente con tale lettura, afferma la nullità del contratto di mutuo di scopo concesso per l'acquisto di un immobile, nel caso in cui il mutuatario impieghi la somma per un fine diverso da quello cui l'erogazione delle somme era preordinata. Cfr. Cass.,21 ottobre 2019, n. 26770 in DeJure; Cass., 18 giugno 2018, n. 15929, in Riv. not., 2020, 3, II, 490; Cass., 19 ottobre 2017, n. 24699, in DeJure).

Si tenga, infine, conto che una lettura della norma financo più ampia di quella sostenuta in questa sede risulta essere generalmente ammessa in tema di eredità sopravvenuta al fallimento. Con riferimento a tale ipotesi, infatti, si è sviluppato un dibattito relativo all'obbligo o facoltà del curatore di accettare l'eredità con beneficio di inventario. Tale incertezza deriva proprio dal presupposto che le passività ereditarie rappresentano debiti della massa ai sensi dell'art. 42, comma 2, l.fall. e che, dunque, ricorre il rischio di un pregiudizio per i creditori concorsuali nel caso in cui i debiti del de cuius superino l'attivo ereditario (cfr. Cass., 5 aprile 1946, n. 381, in Foro it., 1946, I, 707 s.; Provinciali – Ragusa Maggiore, op. cit., 225; Zanichelli, op. cit., 13 e la giurisprudenza, anche di legittimità, ivi riportata; Boggiali, I limiti all'attività negoziale del debitore sottoposto a procedure concorsuali, in Studi e materiali. Quaderni trimestrali. Consiglio Nazionale del Notariato, 2013, 171 ss.).

Sembra, allora, che ai fini dell'individuazione delle passività inerenti non sia richiesto che queste ultime derivino dal medesimo negozio di acquisto del bene, poiché è evidente che i debiti ereditari non trovano nell'accettazione dell'eredità il loro titolo (contra, si veda Ricci, op. cit., 89, il quale, coerentemente, dopo aver affermato che possono essere soddisfatte in prededuzione solo le passività che trovino il proprio titolo nel medesimo negozio di acquisto del bene, afferma che i debiti ereditari possono trovare soddisfazione solo in sede concorsuale).

Conclusioni

In conclusione, l'art. 42, comma 2, l.fall., così come ricostruito in via interpretativa, esprime senza dubbio un favor nei confronti dei terzi che entrino in contatto con un soggetto fallito, in quanto amplia il numero dei creditori legittimati a far valere le proprie pretese in prededuzione, con conseguente minor aumento dell'attivo fallimentare in seguito all'acquisizione del bene sopravvenuto e minor soddisfazione dei creditori ammessi al passivo.

Tale preferenza, manifestata dalla sentenza in commento, nei confronti dei terzi operatori sul mercato non deve tuttavia stupire. A tal proposito, in dottrina è stato acutamente osservato che «il “favor creditorum” cui è ispirata tutta la normativa, deve necessariamente incontrare un limite nel principio fondamentale del nostro sistema, che è quello della tutela dell'affidamento del terzo» e inoltre che la «tutela dei terzi in buona fede [...] non solo costituisce uno dei cardini del nostro diritto, ma, [...] “imposta dall'intensificarsi del ritmo dei rapporti economici, rappresenta innegabilmente nel nostro ordinamento un principio in costante espansione”» (così Vicari, Effetti della sentenza dichiarativa di fallimento e buona fede del terzo, cit., 643). Soluzione tanto più condivisibile ove si osservi che, non di rado, la disciplina del fallimento sacrifica l'interesse dei creditori concorsuali in nome della tutela dell'affidamento dei terzi (si pensi, ad esempio, all'art. 67 l.fall., che fa salva la prova dell'assenza della scientia decoctionis in capo al convenuto in revocatoria, oppure all'art. 16, comma 2, l.fall., ai sensi del quale la sentenza dichiarativa di fallimento produce i suoi effetti nei confronti dei terzi dalla data di iscrizione della sentenza nel registro delle imprese).

In tali casi, a ben vedere, la soccombenza delle posizioni dei creditori particolari del fallito si traduce nella tutela della generalità dei creditori del mercato e dunque, in definitiva, nella protezione dell'interesse pubblico alla sicurezza dei traffici.