La scelta tra tutela della collettività e diritto alla salute del detenuto

Riccardo Polidoro
Claudia Cavaliere
08 Gennaio 2021

Con la sentenza n. 245/2020, la Corte Costituzionale è tornata a pronunciarsi, questa volta in maniera più esaustiva, sulla legittimità costituzionale degli artt. 2 e 5 d.l. 10 maggio 2020, n. 29 e dell'art. 2-bis d.l. 30 aprile 2020, n. 28 (recante, tra l'altro, ulteriori misure urgenti in materia di ordinamento penitenziario), convertito, con modificazioni, nella legge 25 giugno 2020, n. 70.
Premessa

Con la sentenza n. 245/2020, la Corte Costituzionale è tornata a pronunciarsi, questa volta in maniera più esaustiva, sulla legittimità costituzionale degli artt. 2 e 5 d.l. 10 maggio 2020, n. 29 e dell'art. 2-bis d.l. 30 aprile 2020, n. 28 (recante, tra l'altro, ulteriori misure urgenti in materia di ordinamento penitenziario), convertito, con modificazioni, nella legge 25 giugno 2020, n. 70.

Le norme sottoposte al vaglio della Consulta disciplinano la concessione degli arresti domiciliari ai condannati per reati di particolare allarme sociale, in caso di gravi condizioni di salute. Misura che il Magistrato di Sorveglianza, dovrà rivalutare periodicamente per verificare la permanenza degli elementi che giustificano la misura, alla luce dei pareri delle Procure Distrettuali e della Procura Nazionale Antimafia, nonché delle informazioni del Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria, sull'eventuale sopravvenuta disponibilità di strutture sanitarie all'interno degli istituti di pena o di reparti di medicina protetti, idonei ad “ospitare” nuovamente il condannato.

La precedente pronuncia. L'ordinanza n. 185/2020

La Corte, con l'ordinanza n. 185/2020, si era già espressa sui dubbi di legittimità costituzionale che il Magistrato di Sorveglianza di Spoleto aveva sollevato in relazione all'art. 2 del d.l. 29/2020. La norma disponeva che, qualora il Magistrato o il Tribunale di Sorveglianza avessero concesso la detenzione domiciliare o il differimento della pena, per ragioni di salute, ai condannati per reati gravi, avrebbero dovuto rivalutare la sussistenza dei presupposti a sostegno di dette misure, entro il termine di 15 giorni dall'adozione del provvedimento e, successivamente, con cadenza mensile, previa acquisizione del parere delle competenti Procure Antimafia e di ulteriori informazioni da parte dell'Amministrazione Penitenziaria e dell'Amministrazione Sanitaria. All'esito di tale accertamento il Giudice avrebbe potuto revocare la misura già concessa, con provvedimento immediatamente esecutivo.

Il rimettente sottolineava la compressione del diritto di difesa, di fatto esclusa da questa fase istruttoria, con una conseguente carenza assoluta di contraddittorio. Partecipava, infatti, solo l'accusa, rappresentata dal Procuratore Distrettuale Antimafia individuato in relazione al luogo del commesso reato, chiamata a fornire un parere obbligatorio, non vincolante, sulla permanenza dei presupposti di concessione della misura.

Nelle more della decisione della Corte Costituzionale, entrava in vigore la legge 25 giugno 2020, n. 70 che convertiva in legge il d.l. 28/2020 e abrogava la norma censurata, riproducendola sostanzialmente, nel nuovo articolo 2-bis.

Rispetto alla prima stesura della norma, la modifica prevede un termine perentorio di giorni trenta in cui il Tribunale di Sorveglianza – nel contraddittorio delle parti – dovrà decidere sul provvedimento adottato dal Magistrato.

La Consulta ha, quindi, ritenuto che le modifiche introdotte «appaiono […] orientate “nella stessa direzione dell'ordinanza di rimessione” […] con un effetto che potrebbe essere ritenuto suscettibile di ridimensionare, o al limite di emendare, i vizi denunciati dal rimettente». Per tali motivi rigettava le questioni sollevate e invitava il remittente a rivalutarne la non manifesta infondatezza.

Il provvedimento della Corte, invero, risponde solo parzialmente ai rilievi del Magistrato di Sorveglianza di Spoleto, in quanto lascia inalterata la mancanza di un effettivo contraddittorio, nel momento in cui dovesse essere revocata la detenzione domiciliare per ragioni di salute, prima dell'intervento del Tribunale di Sorveglianza.

La sentenza n. 245/2020

La Corte ha affrontato, in primo luogo, le censure sollevate circa la totale assenza della difesa tecnica dell'interessato in un procedimento caratterizzato da un contradditorio differito, ai fini dell'eventuale revoca della misura extramuraria da parte dello stesso Magistrato di Sorveglianza che l'ha in precedenza concessa, ritenendo di poter superare tali doglianze comparando la disciplina emergenziale con quella prevista, in via ordinaria, dall'art. 47-ter dell'ordinamento penitenziario.

Non è possibile, a parere della Consulta, dichiarare una lesione del diritto di difesa del condannato e del principio del contraddittorio, in quanto ai sensi dell'art. 47-ter, comma 1-quater, dell'ordinamento penitenziario, il Magistrato di Sorveglianza già prima poteva disporre, in via provvisoria, la misura della detenzione domiciliare, in situazioni di urgenza, sulla base di documentazione acquisita d'ufficio senza il necessario intervento della difesa. Il contraddittorio è assicurato in ogni caso successivamente innanzi al Tribunale di Sorveglianza che decide in via definitiva sull'istanza del detenuto.

Ciò posto, a parere della Corte, se nessuna lesione si ravvisa nella disciplina tratteggiata dall'ordinamento penitenziario, allo stesso modo deve ritenersi idoneo a garantire il diritto del detenuto il procedimento di rivalutazione, disciplinato dalla disposizione censurata, destinato all'eventuale revoca da parte del Magistrato della detenzione domiciliare precedentemente concessa, spettando al Tribunale di Sorveglianza confermare o meno il provvedimento nel contraddittorio tra le parti.

I remittenti, invero, anticipando tale previsto ragionamento, avevano altresì evidenziato la differenza tra il provvedimento de plano di concessione del beneficio e quello di revoca dello stesso, che produce l'effetto del ritorno in carcere del condannato, in ragione dell'immediata esecutività della decisione prevista dalla norma censurata. Una differenza che non rileva, tuttavia, secondo la Corte Costituzionale, in un'ottica di bilanciamento tra le ragioni di tutela della salute e della vita del condannato e le contrapposte esigenze di tutela della collettività; queste ultime giustificano una rapida decisione nel procedimento di rivalutazione, anche senza l'intervento della difesa.

Secondo la Corte, inoltre, non si ravvisa una lesione del diritto costituzionale di difesa, in quanto il Legislatore ha previsto che il procedimento innanzi al Tribunale di Sorveglianza debba concludersi entro il termine perentorio di trenta giorni, nell'ipotesi in cui il Magistrato abbia disposto la revoca della misura.

La Consulta ha ritenuto ugualmente infondate anche le censure formulate con riferimento all'art. 32 della Costituzione. La nuova disciplina non contravviene in alcun modo gli standard minimi di tutela della salute del detenuto, previsti dall'art. 32 e dalla Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo poiché la disposizione censurata non mira a “costringere il Giudice che ha concesso la detenzione domiciliare a revocarla, ma si pone esclusivamente lo scopo di tenerlo informato sulla situazione epidemiologica in corso e sulle strutture idonee a tutelare egualmente la salute del condannato.

Quanto poi alle questioni sollevate in ragione dell'art. 3 della Costituzione, sono state ritenute infondate in ragione del particolare allarme sociale generato dai reati per cui sono stati condannati i soggetti interessati dalla normativa censurata.

Allo stesso modo, inoltre, sono state ritenute infondate le questioni formulate in riferimento agli articoli 27, comma 3, 102, comma 1, e 104, comma 1, della Costituzione.

Quanto al principio rieducativo espresso all'art 27, la Corte ha chiarito che le misure in questione non sono destinate alla rieducazione del condannato, ma alla tutela della sua salute. In secondo luogo hanno poi escluso la paventata ingerenza del potere legislativo nell'attività giurisdizionale, poiché la legge non ha effetto retroattivo, non travolge i provvedimenti già adottati e neppure contrasta con il termine contenuto nell'originario provvedimento di concessione della misura.

Le argomentazioni della Corte, nell'ottica di un bilanciamento tra i diritti fondamentali in gioco, quali il diritto alla difesa, il diritto alla salute, e la tutela della pubblica sicurezza, fanno pendere “l'ago della bilancia” prevalentemente a favore dell'esigenza di tutela della collettività. Scelta che potrebbe essere condivisa, ove non ignorasse, o addirittura si contrapponesse – mortificandoli – agli altri diritti.

In conclusione

Una riflessione sorge, in primo luogo, quanto al recupero per il detenuto del suo diritto a difendersi nel contraddittorio differito, come definito dalla Corte, innanzi al Tribunale di Sorveglianza. Nonostante si colga l'analogia che la Consulta ha voluto sottolineare con la disciplina di cui all'art. 47-ter dell'ordinamento penitenziario, si ritiene opportuno considerare taluni aspetti. In primis, l'attenzione va rivolta alla differenza, evidenziata dai rimettenti, tra il provvedimento de plano di concessione del beneficio e quello di revoca dello stesso. È chiaro che se, in un'ottica di favor rei, problemi minori sono determinati dal provvedimento di concessione della misura domiciliare, diversa è la circostanza in cui sia adottata una decisione di revoca del beneficio, alla luce non solo delle ulteriori informazioni fornite dal DAP, non conosciute dalla difesa, ma soprattutto delle argomentazioni svolte dalla Parte Pubblica, che invece ha piena conoscenza del compendio istruttorio ed addirittura esprime in merito il proprio parere obbligatorio. Non si comprende come un contraddittorio differito – e trenta giorni non sono pochi - possa essere ritenuto sufficiente per garantire la partecipazione della difesa ad un procedimento in parte già svolto.

L'irragionevolezza della normativa introdotta in ragione dell'epidemia da Covid appare evidente, infatti, non solo su un piano logico, ma anche e soprattutto degli interessi in gioco, contrariamente a quanto sostenuto dalla Corte Costituzionale.

Ricordando la dimensione globale della pandemia in corso, occorre evidenziare che i soggetti cui fa riferimento la normativa censurata sono persone affette da gravi patologie, spesso anche d'età avanzata, che appartengono proprio a quella fascia di popolazione che, come dall'inizio dell'emergenza epidemiologica è stato sottolineato, è più esposta al rischio di contrarre tale malattia. È l'elevata tutela che al giorno d'oggi merita il diritto costituzionalmente garantito di cui all'art 32 Cost., che ha generato l'iniziativa dei Giudici remittenti e che avrebbe meritato una maggiore attenzione.

Gli effetti pratici delle disposizioni in vigore sono, d'altra parte, paradossali. Potrebbe accadere, infatti, che il Tribunale di Sorveglianza – sulla base anche di quanto evidenziato dalla difesa - ritenga di non confermare il provvedimento di revoca adottato dal Magistrato. In tal caso avremo un ulteriore trasferimento del detenuto che coinvolgerà non solo la sua persona, ma anche tutti coloro interessati materialmente ed emotivamente nello spostamento, come personale della Polizia Penitenziaria e familiari. Il detenuto, infatti, prima beneficiario del provvedimento di arresti domiciliari emesso dal Magistrato di Sorveglianza, verrà da altro provvedimento – questa volta di revoca del precedente – riportato in carcere, per essere dopo alcuni giorni posto nuovamente agli arresti domiciliari, per quanto emerso innanzi al Tribunale di Sorveglianza, grazie all'intervento della difesa.

Se la Costituzione è la “bussola” che deve orientare il nostro sistema giudiziario, non può esservi alcuno spazio per posticipare il contraddittorio tra le parti. L'applicazione immediata del diritto di difesa in ogni frangente, deve essere la “luce” che non va “differita” per non oscurare, sia pur momentaneamente, diritti indisponibili, inalienabili e intoccabili.

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