Non commette reato il marito che produce in giudizio le mail della moglie
15 Gennaio 2021
Massima
Non è imputabile di nessun reato di cui agli artt. 616 c.p., commi 1 e 4, 617-bis c.p. e 617-quater, il marito che, usando il programma informatico keylogger installato sul computer anni prima di comune accordo con la moglie per controllare la figlia minorenne, intercetta la corrispondenza elettronica della moglie per produrla poi nel giudizio di separazione personale. Il caso
Il Tribunale territoriale dichiara la responsabilità penale del marito per i delitti di cui agli artt. 616 c.p., commi 1 e 4, 617-bis c.p. e 617-quater c.p., per aver acquisito e prodotto in giudizio la corrispondenza elettronica della moglie, attraverso l'utilizzo di un programma informatico precedentemente installato in comune accordo con la stessa, al fine di controllare la figlia minorenne sul web. L'uomo viene condannato alla pena di otto mesi e venti giorni di reclusione, ed al risarcimento del danno in favore della moglie, costituitasi nel frattempo parte civile. La sentenza viene poi confermata anche dalla Corte d'Appello. Il marito, quindi, ricorre in Cassazione. La Suprema Corte sovverte la decisione dei giudici di merito, annullando, senza rinvio, la sentenza impugnata perché il fatto non sussiste e per le ragioni che qui di seguito verranno meglio analizzate. La questione
L'accordo tra i coniugi di installare sul computer di casa un programma informatico al fine di controllare la figlia minorenne, esclude che, successivamente, il marito sia punibile ai sensi degli artt. 616 c.p., commi 1 e 4, 617-bis c.p. e 617-quater c.p. per aver acquisito, attraverso tale dispositivo, anche e-mail private della moglie per produrle in un giudizio di separazione personale? Le soluzioni giuridiche
Nel caso di specie, la Cassazione esclude la configurazione dei suddetti reati per l'uso che il marito ha fatto del programma informatico keylogger, installato anni prima per controllare la figlia minorenne, ed utilizzato poi anche per intercettare la corrispondenza elettronica della moglie e produrla nel loro giudizio di separazione personale. La Suprema Corte si è orientata in tal senso discostandosi dai giudici di primo e di secondo grado che, invece, avevano condannato l'imputato per i reati di violazione, sottrazione e soppressione di corrispondenza ai sensi dell'616 c.p., commi 1 e 4, di installazione di apparecchiature atte ad intercettare od impedire comunicazioni o conversazioni telegrafiche o telefoniche contemplato dall'art. 617-bis c.p. e per intercettazione, impedimento o interruzione illecita di comunicazioni informatiche o telematiche ai sensi dell'art. 617-quater c.p.. Pendeva, infatti, in capo all'imputato l'accusa di aver installato un programma con il quale è riuscito ad intercettare in modo fraudolento messaggi, foto ed e-mail inviate alla moglie e di aver, in particolare, utilizzato le comunicazioni e-mail in seno al giudizio di separazione personale dalla moglie. Nei suoi atti difensivi, il marito contesta la decisione di condanna della Corte d'Appello e ricorre in Cassazione, dolendosi della mancata applicazione, in relazione al reato di violazione della corrispondenza, della causa di giustificazione contemplata dall'art. 51 c.p. perché commesso per far fronte all'esigenza di tutelarsi nella causa di separazione, invocando a tale riguardo il Regolamento Generale sulla Protezione dei Dati (RGPD) che, all'art. 9, par. 2, lettera f) prevede che «il trattamento è necessario per accertare, esercitare o difendere un diritto in sede giudiziaria…». Nella sua difesa, inoltre, il marito espone che il consulente del PM non era stato in grado di stabilire a quanto tempo prima risalisse l'installazione del programma informatico e da quanto tempo avvenisse l'illecita intercettazione. In ragione di ciò, l'installazione del programma informatico keylogger poteva essere avvenuta anche prima della crisi coniugale al solo scopo di controllare e tutelare la figlia minorenne verso situazioni insidiose del web. Inoltre, la Cassazione non ritiene neanche che si sia configurato il reato contemplato dall'art. 617-quater c.p. comma 2 che punisce la divulgazione del contenuto della comunicazione intercettata, poiché a tal fine è necessario che la divulgazione del contenuto della comunicazione intercettata avvenga mediante qualsiasi mezzo d'informazione al pubblico mentre, nel caso di specie, la divulgazione è avvenuta mediante la produzione delle e-mail in un giudizio di separazione personale dei coniugi pendente tra l'imputato e la persona offesa, modalità che non è idonea a rivelare il contenuto della comunicazione alla generalità dei terzi. Infine, la Corte di Cassazione, nella disamina del caso in questione, ha considerato che la produzione di documenti ottenuti illecitamente, tramite la lesione di un diritto fondamentale, può essere scriminata per giusta causa, ai sensi dell'art. 616 c.p., comma 2, qualora costituisca l'unico mezzo per contestare le pretese della controparte e l'imputato riesca a dare prova della circostanza, anche perché – afferma la Cassazione – la nozione di giusta causa, ai sensi del secondo comma precedente articolo, non è fissata dalla legge e il suo riconoscimento è rimesso al giudice che deve valutare, sotto il profilo etico e sociale, la liceità dei motivi che hanno indotto il soggetto a tenere un certo comportamento. Osservazioni
Più in generale, vi è da osservare che sul tema che qui ci occupa, la Suprema Corte, con la sua prima sentenza a Sezioni Unite depositata nel 2020, ha inteso dare una svolta, in chiave chiaramente garantistica, al regime di utilizzabilità delle intercettazioni telefoniche ed ambientali, limitando la loro utilizzabilità nell'ambito del medesimo procedimento ove esse siano state autorizzate, per la prova dei reati che siano connessi ai sensi dell'art. 12 c.p.p. e non anche per quelli che siano semplicemente ex art. 371 c.p.p. a quelli che hanno legittimato l'ascolto. La Suprema Corte ha aggiunto, in coda al suddetto principio di diritto appena enunciato, anche la seguente frase: «sempreché i reati connessi rientrino nei limiti di ammissibilità previsti dalla legge». Da tale aggiunta consegue l'inevitabile esito che i risultati dell'attività captativa non siano utilizzabili per quei reati estranei al catalogo dell'art. 266 c.p.p., che elenca le fattispecie per le quali è consentito il ricorso a un mezzo di ricerca della prova così invasivo. Le Sezioni Unite dimenticano, invece, di fare riferimento alla giurisprudenza non prevalente rappresentata dalle recenti sentenze in cui si stabilisce che i risultati di intercettazioni telefoniche legittimamente autorizzate all'interno di un procedimento penale inizialmente unitario sono utilizzabili per tutti i reati che ne sono oggetto. E solo quando lo stesso sia stato successivamente frazionato a causa delle eterogeneità delle ipotesi di reato e dei soggetti indagati l'utilizzabilità è subordinata al fatto che il controllo sulle conversazioni avrebbero potuto essere automaticamente disposto ai sensi dell'art. 266 c.p.p., senza necessità, quindi, del requisito dell'arresto obbligatorio in flagranza che postula l'esistenza di procedimenti ab origine tra loro distinti. Per avere una visione d'insieme sull'argomento, pare opportuno fare qui cenno anche alla sentenza Cass. n. 19496/2018, Rv. 273277, con la quale, ancora più nettamente, la Suprema Corte statuisce che i risultati delle intercettazioni telefoniche disposte per uno dei reati rientranti tra quelli indicati all'art. 266 c.p.p. sono utilizzabili anche relativamente ad altri reati che emergono dall'attività di captazione, ancorchè per essi le intercettazioni non sarebbero state consentite. Nelle ragioni della propria pronuncia, la Corte ha chiarito che, in tal caso, i contenuti delle intercettazioni sono utilizzabili a prescindere dal ricorrere delle condizioni dettate dall'art. 270 c.p.p. in quanto il concetto di diverso procedimento non equivale a quello di diverso reato.
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