Risarcimento del danno da lesione del rapporto parentale: quanto rileva il vincolo di sangue?
21 Gennaio 2021
Massima
Il vincolo di sangue non è un elemento imprescindibile ai fini del riconoscimento del danno da lesione del rapporto parentale, dovendo esso essere riconosciuto in relazione a qualsiasi tipo di rapporto che abbia le caratteristiche di una stabile relazione affettiva, indipendentemente dalla circostanza che il rapporto sia intrattenuto con un parente di sangue o con un soggetto che non sia legato da un vincolo di consanguineità naturale, ma che ha con il danneggiato analoga relazione di affetto, di consuetudine di vita e di abitudini, e che infonda nel danneggiato un sentimento di protezione e di sicurezza.
Fonte: RIDARE Il caso
Nel caso di specie, il 20 luglio 2003, alle ore 22.30, una pattuglia dei carabinieri notava che, da un'auto lasciata in sosta nel parcheggio di un centro commerciale, scendevano tre individui, i quali, dopo aver parcheggiato il mezzo, si dirigevano presso il greto del fiume, che scorreva poco distante. Il luogo era, peraltro, noto come zona di spaccio di sostanze stupefacenti. Sospettando che i proprietari dell'auto vi si fossero recati proprio allo scopo di vendere o, comunque, cedere sostanze stupefacenti, i militi si inoltravano nel boschetto che conduceva al greto del fiume e, grazie all'uso di una torcia, scorgevano i tre individui, i quali, accortisi della presenza delle forze dell'ordine, iniziavano a proferire nei loro confronti frasi minacciose. L'appuntato dei CC, intento a scendere lungo la scarpata ed a circa sei metri di distanza dai tre giovani, sentendosi minacciato, estraeva l'arma di ordinanza e, cadendo a terra, faceva esplodere accidentalmente un colpo di pistola che attingeva mortalmente uno dei tre soggetti. La madre e i fratelli germani della vittima, nonché l'unico fratello unilaterale, citavano in giudizio l'appuntato, il Ministero della Difesa e il Ministero dell'Interno, dinanzi al Tribunale civile, chiedendo la condanna ex artt. 2050 e/o 2051 e/o 2043 c.c., al risarcimento dei danni non patrimoniali patiti dalla vittima e trasmessi iure hereditario, nonché quelli patiti iure proprio per la perdita definitiva del rapporto parentale. I Ministeri, costituitisi in giudizio, richiamavano l'istanza di archiviazione del PM ed il conseguente provvedimento di archiviazione emesso dal GIP nel procedimento penale svoltosi a carico della vittima; eccepivano l'inapplicabilità dell'art. 2051 c.c., e contestavano la risarcibilità del danno esistenziale e del danno biologico patito dal defunto (in ragione del fatto che il decesso fosse avvenuto nell'immediatezza dell'evento lesivo, in assenza di un apprezzabile lasso di tempo). Il Ministero della Difesa eccepiva, in aggiunta, il proprio difetto di legittimazione passiva. L'appuntato chiedeva, all'opposto, il rigetto della domanda. Il Tribunale, con sentenza del 2016, rigettava la domanda proposta nei confronti del Ministero dell'Interno, nonché l'eccezione di difetto di legittimazione passiva del Ministero e - accertata la responsabilità esclusiva dell'appuntato ai sensi dell'art. 2043 c.c. nella causazione della morte - lo condannava, in solido con il Ministero della Difesa ex art. 2049 c.c., al pagamento, a titolo di perdita del rapporto parentale, di euro 300.000,00 nei confronti della madre, e di euro 110.000,00 nei confronti di ciascuno dei tre fratelli della vittima. Infine, negava il risarcimento del danno tanatologico richiesto dai congiunti del defunto. L'appuntato impugnava la pronuncia dinanzi alla competente Corte d'appello, insistendo per l'accertamento dell'assenza di qualsivoglia sua responsabilità e chiedendo che gli appellati venissero condannati a restituire le somme eventualmente loro versate in esecuzione della sentenza di primo grado, nonché a rifondere le spese di lite e di CTU per entrambi i gradi di giudizio; in via subordinata, chiedeva l'accertamento della responsabilità concorrente della vittima e dei suoi due fratelli, con conseguente riduzione della sua esposizione risarcitoria. In via incidentale, anche i due Ministeri impugnavano la sentenza, chiedendo l'accertamento del concorso colposo della vittima nella causazione della sua morte, invocando l'applicazione dell'art. 2045 c.c. sulla base del fatto che dovesse tenersi conto della situazione di pericolo in cui si era venuto a trovare l'appuntato. La Corte d'appello confermava integralmente la sentenza del Tribunale: reputava, in particolare, che l'appuntato avesse tenuto un comportamento oggettivamente imprudente ed imperito nella manipolazione dell'arma, puntata in avanti anziché in basso ed armata, mentre si trovava in una situazione di precario equilibrio posturale, atteso che stava scendendo lungo una ripida scarpata; negava la ricorrenza dei presupposti di cui all'art. 2045 c.c. in quanto l'appuntato aveva sparato accidentalmente e non già per rispondere ad una imminente minaccia; stimava congrue le somme liquidate a titolo risarcitorio dal giudice di primo grado. La causa, infine, giungeva all'attenzione della Suprema Corte di cassazione. Nel rivolgersi alla Suprema Corte i ricorrenti deducevano che la Corte d'appello avrebbe erroneamente liquidato il danno da lesione del rapporto parentale a favore del fratello uterino, senza tenere conto dell'intensità del vincolo familiare, della situazione di convivenza e di ogni ulteriore circostanza. La questione
Nell'ordinanza qui esaminata, la Suprema Corte, pronunciandosi sul ricorso dei parenti di un uomo rimasto ucciso da un colpo di pistola esplosa accidentalmente da un carabiniere, si chiede se sia lecito o meno che al fratello unilaterale della vittima spetti un risarcimento del danno da perdita parentale pari a quello liquidato a favore degli altri fratelli consanguinei. Le soluzioni giuridiche
L'ordinanza n. 24689/2020 si è pronunciata sul ricorso dei parenti di un uomo rimasto ucciso da un colpo di pistola esplosa accidentalmente da un carabiniere. Ebbene, i giudici del merito, accertavano la responsabilità esclusiva dell'agente nella causazione dell'incidente mortale, condannandolo (in solido con il Ministero della Difesa) al pagamento di euro 110.000,00 nei confronti di ciascuno dei tre fratelli. La Corte d'appello, sul punto, non nega che, in tema di pregiudizio derivante da perdita o lesione del rapporto parentale, il giudice sia tenuto a verificare, in base alle evidenze probatorie acquisite, se sussista il profilo del danno non patrimoniale subìto dal prossimo congiunto (ossia l'interiore sofferenza morale soggettiva, e quella riflessa sul piano dinamico-relazionale), nonché ad apprezzare la gravità ed effettiva entità del danno in considerazione dei concreti rapporti col congiunto, anche ricorrendo ad elementi presuntivi (quali la maggiore o minore prossimità del legame parentale, la qualità dei legami affettivi, la sopravvivenza di altri congiunti, la convivenza o meno col danneggiato, l'età delle parti ed ogni altra circostanza del caso). E così, facendo applicazione di tali principi, il giudice d'appello ha riconosciuto la ricorrenza del danno parentale subìto dalla madre e dai fratelli della vittima e lo ha quantificato tenendo conto di tutti gli elementi acquisiti. Tuttavia, nella prospettazione difensiva portata all'attenzione della Suprema Corte, si contesta al giudice d'appello l'errata liquidazione del danno da lesione del vincolo familiare a favore del fratello unilaterale della vittima. Il giudice d'appello non avrebbe tenuto conto della condizione di tossicodipendenza della vittima, né avrebbe preteso la prova da parte dei richiedenti del cambiamento dello stile di vita determinato dal fatto illecito, né, tantomeno, ha personalizzato i valori stabiliti dalle tabelle di Milano. La Suprema Corte, tenendo conto del fatto che uno dei fratelli della vittima non fosse germano, ma fratello unilaterale - perché figlio del secondo marito della madre –, ha statuito che le sue condizioni avrebbero dovuto essere interamente equiparate a quelle degli altri fratelli, pur non essendo egli convivente con la vittima all'epoca dei fatti. La cessata coabitazione, infatti, non esclude il rapporto di affetto e il fratello unilaterale ha diritto ad un ristoro pari agli altri fratelli germani: pesano la consuetudine di vita e le abitudini, oltre che il dato biologico.
Osservazioni
Il fatto che i fratelli abbiano in comune solo uno dei genitori non deve incidere in modo automatico negativamente sull'intimità della relazione di parentela, sul reciproco legame affettivo e sulla pratica della solidarietà. Il legame di parentela, infatti, resta diretto ed immediato pur se l'origine comune si concreti in un solo genitore; insomma, non c'è, né può esservi, una differenza qualitativa tra fratelli germani da un lato, e consanguinei o uterini dall'altro. La Suprema Corte, richiamando i propri precedenti in materia (Cass. civ., 11 novembre 2019, n. 28989; Cass. civ., 8 aprile 2020, n. 774), dimostra in questa pronuncia la ferma convinzione che il danno derivante dalla sofferenza per la morte ex delicto del congiunto non vada rigorosamente circoscritto ai familiari con lui conviventi al momento del decesso e che la cessazione della convivenza non è elemento indiziario destinato a sorreggere, da solo, la congettura di un automatico allentamento della comunione spirituale tra congiunti (fratelli e sorelle), con conseguente riduzione della sofferenza dei superstiti a livelli immeritevoli di apprezzamento giuridico. La Corte sostiene, dunque, che il rapporto di convivenza, pur costituendo elemento probatorio utile a dimostrare l'ampiezza e la profondità dell'affectio, non assurge a connotato minimo di esistenza di rapporti costanti connotabili da reciproco affetto e solidarietà con il familiare defunto, e, laddove essa manchi, l'esistenza e la profondità dei rapporti, nonché la loro rilevanza giuridica, non sono automaticamente esclusi. La Suprema Corte, infatti, afferma che la giovane età del fratello unilaterale (all'epoca dei fatti minorenne) e il fatto che la sua vita fosse stata già segnata dalla tragica e prematura scomparsa del padre, lo avevano posto, rispetto alla perdita risentita, nella stessa condizione degli altri fratelli, anche loro non conviventi con la vittima, ma accomunati dalle stesse circostanze in cui si erano svolti i fatti. Nessun rilievo può essere attributo, poi, alla circostanza che il rapporto di fratellanza fosse unilaterale. La Corte, infatti, ritiene necessario ribadire che il vincolo di sangue non è un elemento imprescindibile ai fini del riconoscimento del danno da lesione del rapporto parentale, dovendo esso essere riconosciuto in relazione a qualsiasi tipo di rapporto che abbia le caratteristiche di una stabile relazione affettiva, indipendentemente dalla circostanza che il rapporto sia intrattenuto con un parente di sangue o con un soggetto che non sia legato da un vincolo di consanguineità naturale, ma che ha con il danneggiato analoga relazione di affetto, di consuetudine di vita e di abitudini, (così anche Cass. civ., 21 agosto 2018, n. 20835). La circostanza che i fratelli abbiano in comune uno solo dei genitori non può inficiare, in termini negativi, l'intimità della relazione di parentela. Il danno riconosciuto nel caso di specie è quello volto a ristorare la perdita del rapporto tra i superstiti e la vittima: perdita atta a provocare uno stravolgimento del sistema di vita, che trovava le sue fondamenta nell'affetto e nella profondità del rapporto parentale, e sul quale le attitudini di vita della vittima e/o dei superstiti (dediti ad attività illecite) non rilevano, non incidendo sulla intensità del legame. Tanto più che, nel caso di specie, è stato negato che la condotta asseritamente illecita della vittima fosse stata causa o concausa del suo decesso. |