Le conseguenze dello scioglimento della comunione tra coniugi

26 Gennaio 2021

Lo scioglimento della comunione legale dei coniugi, per una delle ragioni previste dall'art. 191 c.c., comporta che i beni e diritti che ne facevano parte cadano in comunione ordinaria tra loro fino alla divisione. Pertanto, ciascun coniuge divenuto titolare di una quota del diritto o del bene a suo tempo acquisito alla comunione legale, può liberamente e separatamente disporne, sempre che non si tratti di un diritto la cui durata non può eccedere la vita del soggetto che ne è titolare.
Inquadramento

La separazione tra i coniugi, consensuale o giudiziale, ha effetti sul regime patrimoniale, ossia sul regime legale della comunione legale o su quello della separazione dei beni, oltre che sull'affidamento dei figli e sul riconoscimento dell'assegno di mantenimento nei confronti della prole e del coniuge, se dovuto. La separazione personale tra i coniugi determina lo scioglimento della comunione legale dei beni (art. 191 comma 1 c.c.). L'espressione legislativa di "scioglimento" è impropria e che in realtà deve essere intesa come "cessazione del regime della comunione legale". Questo effetto decorre, dal 26 maggio 2015 (in applicazione dell'art. 191 comma 2, c.c. inserito dalla l.55/2015):
- in caso di separazione consensuale: dalla data di sottoscrizione del verbale di separazione dei coniugi innanzi al Presidente, purché successivamente omologato con decreto dal Tribunale competente in sede collegiale;
- in caso di separazione giudiziale: dal momento in cui il Presidente autorizza i coniugi a vivere separati con apposita ordinanza motivata emessa nel corso dell'udienza presidenziale.
Questa cessazione determina alcuni effetti:
-viene meno il regime di coacquisto e tutti i beni acquistati dai coniugi singolarmente rimangono di esclusiva proprietà di ciascuno;

-si instaura un regime di comunione ordinaria fra i coniugi sui beni già oggetto della comunione legale (Trib.Milano18 aprile 2005) caratterizzata quindi dal diritto di ognuno di liberamente disporre dei beni oggetto della comunione nei limiti della quota, senza il consenso dell'altro e dal diritto dei coniugi di chiedere la divisione successivamente al momento in cui si è perfezionato lo scioglimento (sottoscrizione del verbale della separazione consensuale, autorizzazione a vivere separati nella separazione giudiziale). La separazione di fatto dei coniugi non produce alcun effetto sul regime patrimoniale della comunione legale dei beni. Al momento del divorzio, lo scioglimento della comunione è di regola già avvenuto, per cui dopo la sentenza di divorzio non si produce alcun effetto. Se il Tribunale pronuncia invece la sentenza di divorzio senza un preventivo periodo di separazione, la comunione legale tra i coniugi si scioglie per effetto del passaggio in giudicato della sentenza di divorzio (art. 191 c.c.). La separazione produce effetti profondamente diversi sul patrimonio dei coniugi a seconda del regime patrimoniale scelto al momento della celebrazione.

La separazione personale non è tuttavia la sola causa di scioglimento della comunione legale, atteso che l'art. 191 c.c. fa riferimento alla morte presunta, alla dichiarazione di assenza, all'annullamento del matrimonio, alla separazione giudiziale dei beni e al fallimento, oltre che al mutamento di regime patrimoniale.

I beni esclusivi prima del matrimonio

L'art. 211 c.c. si riferisce all'ipotesi in cui, sulla base di una convenzione matrimoniale stipulata ai sensi dell'art. 162 c.c., vengano inclusi nella comunione uno o più beni determinati che prima del matrimonio erano di proprietà esclusiva del singolo coniuge (c.d. comunione convenzionale).

È evidente che, in questo caso, il legislatore ha inteso tutelare i terzi creditori particolari del coniuge proprietario, stabilendo che i beni della comunione rispondono delle obbligazioni contratte dal coniuge su beni poi confluiti nella comunione stessa. La ratio legis è proprio quella di evitare che i terzi, creditori del singolo coniuge precedentemente al matrimonio, vengano a trovarsi, per effetto della convenzione suddetta, posposti rispetto ai creditori della comunione, in virtù della disposizione prevista all'art. 189, comma 2, c.c. L'art. 211 c.c., in deroga al disposto dell'art. 189, comma 2, c.c., consente proprio ai creditori di agire sui beni comuni in via principale e paritetica rispetto ai creditori della comunione; inoltre, in luogo della garanzia prevista dall'art. 189 c.c., costituita dal «valore corrispondente alla quota del coniuge obbligato», i creditori potrebbero contare sulla garanzia patrimoniale rappresentata dal valore dei beni di proprietà del singolo coniuge volontariamente immessi in comunione.

La dottrina, difatti, ha chiarito che garanzia delle obbligazioni contratte precedentemente al matrimonio sarebbe unicamente il valore dei beni poi confluiti in comunione, non i singoli beni in sé; di conseguenza, i singoli creditori anteriori al matrimonio non potrebbero agire esecutivamente sui soli beni personali divenuti comuni per effetto della convenzione, ma indistintamente su tutti i beni della comunione. (M. Confortini, La comunione convenzionale tra coniugi, in G. Bonilini, G. Cattaneo (diretto da), Il diritto di famiglia, Milano, 1997).

Gli artt. 189 e 211 c.c., peraltro, risulterebbero essere solo apparentemente in contrasto, differenziandosi per il loro diverso oggetto: mentre l'art. 211 c.c. ha ad oggetto il valore di quei beni che precedentemente alla loro immissione in comunione convenzionale erano di proprietà esclusiva del singolo coniuge, l'art. 189 c.c. riguarda invece tutti gli altri beni oggetto della comunione, in relazione ai quali il comma 2 prevede che, sia pure in via sussidiaria rispetto ai creditori della comunione, i creditori personali dei coniugi per debiti anteriori al matrimonio possano soddisfarsi fino al valore corrispondente alla quota del coniuge obbligato.

Viene a delinearsi la seguente disciplina: i creditori personali dei singoli coniugi anteriori al matrimonio potrebbero soddisfarsi, alla pari con i creditori della comunione, fino a concorrenza del valore dei beni eventualmente immessi in comunione convenzionale; oltre tale limite di valore, invece, i creditori particolari verrebbero postergati rispetto a quelli della comunione e potrebbero soddisfarsi sui beni comuni residui soltanto in via sussidiaria rispetto ai creditori della comunione e, comunque, nei limiti della quota del coniuge obbligato.

II momento dello scioglimento

Il momento del verificarsi dello scioglimento della comunione legale assume particolare rilevanza, tanto più che, prima della novella dell'art. 191 c.c., attuata con l. 6 maggio 2015, n. 55, nulla disponeva di preciso la normativa, salvo per quanto attiene la separazione giudiziale dei beni (l'art. 193 c.c. fa infatti retroagire quel momento al giorno della proposizione della domanda). Per alcune delle cause sopra individuate il problema è agevole: la data della morte del coniuge, come quella del mutamento convenzionale del regime, stipulato per atto pubblico ex art. 162 c.c., segnano lo scioglimento della comunione. Per altre invece, che presuppongono un procedimento giudiziale, non è così. Quanto alla dichiarazione di assenza, e di morte presunta si fa riferimento alla data di eseguibilità della sentenza, a quella dell'ultima notizia, ovvero dal giorno indicato dalla pronuncia come quello di morte, piuttosto che, con effetto retroattivo, al momento di presentazione della domanda. Per i casi (piuttosto rari nella pratica) di divorzio non preceduto da un periodo di separazione (c.d. “divorzio immediato”), ci si riferisce alla data di passaggio in giudicato della sentenza, a prescindere dall'annotazione della decisione nei registri dello stato civile. Per il fallimento, deve farsi riferimento alla data del deposito in cancelleria della sentenza definitiva, che abbia a dichiararlo. La causa di scioglimento della comunione legale più frequente nella pratica è rappresentata dalla separazione personale. Al riguardo, prima dell'entrata in vigore della l. 6 maggio 2015, n. 55, si era pervenuti a conclusioni consolidate. Occorreva in primo luogo distinguere fra separazione giudiziale e consensuale. In presenza di separazione giudiziale, lo scioglimento si riteneva avvenire ex nunc con l'emanazione della sentenza definitiva; se peraltro, come avviene solitamente, vi fosse stata un'impugnazione quanto alle statuizioni accessorie (addebito, affidamento dei figli, assegno per coniuge e figli, assegnazione della casa), si sarebbe formato il giudicato sul presupposto della separazione stessa (l'intollerabilità della convivenza), con conseguente scioglimento della comunione legale (Cass., S.U., 4 dicembre 2001, n. 15279; Cass. 16 aprile 2012, n. 5972). Soccorreva peraltro già l'art. 709-bis c.p.c., che ammetteva la possibilità di una sentenza non definiva di separazione (in aderenza a quanto da tempo previsto dall'art. 4, comma 12, della l. n. 898/1970, quanto al divorzio); ad essa, quando emessa, doveva farsi riferimento quale momento di scioglimento della comunione legale. Per unanime dottrina e giurisprudenza (Sesta M. Codice della famiglia, Giuffrè 2015, 381; Corte. Cost. 7 luglio 1988, n. 795) l'ordinanza presidenziale ex art. 708 c.p.c.non avrebbe inciso sul regime patrimoniale dei coniugi. Il quadro normativo è stato profondamente modificato con l'entrata in vigore della l. n. 55/2015 (meglio conosciuta come quella del “divorzio breve”). L'art. 2 di detta legge ha infatti integrato l'art. 191 c.c.; in oggi, l'ordinanza con la quale il presidente del Tribunale autorizza i coniugi a vivere separati, nell'ambito di un procedimento di separazione giudiziale, determina lo scioglimento della comunione. Analogamente, in caso di separazione consensuale, è previsto che detto scioglimento avvenga alla data di sottoscrizione del verbale, purché lo stesso sia omologato. Disponeva l'art. 3 della citata l. n. 55/2015 che la nuova disciplina si applichi anche ai procedimenti in corso; dunque, è da ritenere che, alla data dell'entrata in vigore della legge (26 maggio 2015), i coniugi che siano già stati autorizzati a vivere separati dal presidente del Tribunale, vedranno sciolto il regime di comunione legale in essere. Di tanto occorre tener ben presente, ai fini della determinazione del momento di formazione della c.d. comunione de residuo. Va al riguardo rammentato che il nuovo art. 191 c.c. prevede oggi che l'ordinanza con la quale i coniugi sono autorizzati a vivere separati è comunicata all'ufficiale dello stato civile, ai fini dell'annotazione dello scioglimento della comunione, a margine dell'atto di matrimonio.

Le cause dello scioglimento: effetti

Prima di procedere alla divisione, i coniugi devono effettuare eventuali:
restituzioni di somme personali e spese ed investe per il patrimonio comune;
rimborsi di somme prelevate dal patrimonio comune e spese non nell'interesse familiare;
Effettuate queste operazioni è possibile provvedere alla divisione, secondo le regole che esaminiamo di seguito.
Avere conti personali separati (anche con delega all'altro coniuge) è una scelta opportuna per evitare inconvenienti e contestazioni di qualsiasi tipo nell'eventualità di procedere alla divisione degli importi depositati sul conto stesso. I problemi patrimoniali al momento della separazione o del divorzio possono, infatti, nascere: -in caso di conto corrente cointestato;
- in caso di conto intestato ad un solo coniuge in regime di comunione dei beni.

Nel primo caso, il deposito di denaro in un unico conto cointestato tra i coniugi si presume di proprietà dei titolari in parti uguali, fatta salva prova contraria (art. 1298 c.c.) (Cass. ord. 27 luglio 2020, n. 15996). Pertanto una volta sciolta la comunione, le somme presenti sul conto comune devono essere divise tra i coniugi nella misura del 50% ciascuno, a meno che uno dei due riesca a provare che il denaro versato, o parte dello stesso, sia di proprietà esclusiva (Cass.10 ottobre 2016, n. 20457; Cass. 23 settembre 2015, n. 18777; Cass. 6 novembre 2012, n. 19115). Nel secondo caso, se al momento dello scioglimento della comunione legale il coniuge unico titolare di un conto corrente ha un saldo attivo, tale saldo rientra in comunione (c.d. comunione de residuo ai sensi della'art. 177, comma 1, lett. c, c.c.) (Cass. 20 gennaio n. 1197).

Va, altresì, precisato che la disciplina della comunione legale coinvolge esclusivamente gli “acquisti” e non inerisce invece a rapporti meramente creditizi, quali quelli connessi all'apertura di un conto corrente o deposito cointestato. Il coniuge può pertanto provare che il conto è stato alimentato in via esclusiva o prevalente con i propri apporti e chiedere la restituzione di quanto prelevato dall'altro senza titolo; lo stesso coniuge potrà inoltre richiedere la divisione del saldo per quote differenti, in relazione ai diversi apporti. Proprio perché il conto corrente non fa parte della comunione legale, la relativa divisione potrà chiedersi, a prescindere dall'esistenza dello scioglimento della comunione medesima (Cass. 27 aprile 2004, n. 8002).

La presunzione di comproprietà ha anche riflessi nella procedura esecutiva nel senso che quando il pignoramento cade sul credito di restituzione di somme depositate per esempio su un libretto ban¬cario e/o conto corrente, intestato a più persone e il creditore abbia assoggettato a pignoramento l'intero anziché la quota di pertinenza del debitore – per esempio uno dei coniugi – l'altro cointestatario del deposito è legittimato a dedurre, sotto forma d'opposizione di terzo, che il credito appartiene per una quota anche a lui (Cass. 9 ottobre 1998, n. 10028). Ugualmente si è precisato in tema di sequestro conservativo in relazione al quale si è affermato (Cass. 30 ottobre 1997, n. 5967) che , poiché la cointestazione del conto corrente bancario opera nei confronti dei terzi facendo presumere la contitolarità e comproprietà dell'oggetto del contratto e poiché la solidarietà attiva e passiva prevista dall'art. 1854 c.c. è limitata ai soli rapporti fra correntisti ed istituto di credito, il creditore di uno dei cointestatari non può pretendere di aggredire presso la banca l'intero importo della prestazione dovuta a tutti i cointestatari solidali, ma può colpire solo la quota spettante al suo debitore con la conseguenza che deve ritenersi illegittima l'apposizione del vincolo cautelare, finalizzato a garantire l'adempimento delle obbligazioni civili nascenti dal reato, sull'intero ammontare dei depositi bancari cointestati.
Prima di procedere alla divisione ciascun coniuge deve rimborsare le somme prelevate dal patrimonio comune per scopi diversi dall'adempimento delle obbligazioni familiari. Deve anche rimborsare il valore dei beni della comunione su cui si sono soddisfatti i creditori per obbligazioni contratte separatamente dai coniugi per atti di straordinaria amministrazione senza il consenso dell'altro (ai sensi dell'art. 189c.c.), a meno che, trattandosi di atto di straordinaria amministrazione da lui compiuto, dimostri che l'atto sia stato vantaggioso per la comunione o abbia soddisfatto una necessità della famiglia. Nel caso in cui il coniuge abbia acquistato un bene dopo lo scioglimento della comunione con denaro o beni appartenenti alla comunione, tale bene non entra comunque a far parte della comunione, ma comporta l'obbligo per il coniuge acquirente di corrispondere all'altro coniuge, in sede di divisione, la differenza fra il valore del bene di cui è stato disposto e quello della quota di cui poteva disporre (Cass.16 luglio 2014 n. 16273). Nella divisione ciascun coniuge (o i suoi eredi) ha diritto di prelevare i beni di sua proprietà esclusiva, che gli appartenevano o prima della comunione o che gli sono pervenuti successivamente per successione o donazione. In mancanza di prova contraria si presume che i beni mobili facciano parte della comunione (art. 195c.c.). Se questi beni non si trovano più, i coniugi possono ripeterne il valore, provandone l'ammontare anche "per notorietà”, salvo che la mancanza di quei beni sia dovuta a consumazione per uso o perimento o per altra causa non imputabile all'altro coniuge (art. 196c.c.). In questo caso il coniuge che ha diritto alla restituzione matura un diritto di credito nei confronti della comunione. È discusso se la prova liberatoria in ordine alla consumazione per uso o al perimento o ad altra causa non imputabile incomba sul coniuge contro cui viene intentata l'azione di ripetizione o in capo all'altro coniuge.

La divisione dei beni in comunione

La divisione dei beni della comunione, all'esito della quale viene meno la contitolarità tra i coniugi dei beni comuni, non opera automaticamente a seguito della separazione personale dei coniugi, ma avviene per un accordo tra i coniugi, divisione consensuale, o in mancanza di accordo, mediante ricorso all'autorità giudiziaria che provvede a una divisione giudiziale. Si tratta comunque di una fase eventuale (anche se nella prassi molto frequente) in quanto i coniugi possono rimanere in comunione ordinaria. I beni acquistati dai coniugi separatamente, in regime di comunione legale, prima della sottoscrizione del processo verbale di separazione consensuale o dell'autorizzazione del presidente a vivere separati in caso di separazione giudiziale, sono compresi nella comunione legale (art. 177lett. a c.c.). La divisione consensuale avviene per mezzo della stipulazione di un contratto. Non è richiesta una forma particolare (a differenza della forma di atto pubblico richiesta per le convenzioni matrimoniali dall'art. 162c.c.); va comunque rispettata la forma eventualmente richiesta dalla natura dei beni ricompresi nella comunione (Cass.18 novembre 1996 n. 10586). Sciolta la comunione legale tra coniugi per effetto della separazione personale, ciascuno dei coniugi in caso di mancato accordo, ha il diritto di chiedere la divisione dei beni comuni (c.d. divisione giudiziale) presentando una richiesta al Tribunale competente Il giudizio di divisione non può essere proposto all'interno del giudizio di separazione per motivi di connessione e opportunità (art. 40c.p.c.).
Può però essere proposto in pendenza del procedimento di separazione personale, purché il passaggio in giudicato della relativa sentenza avvenga prima della decisione in primo grado sulla domanda di divisione. Tale soluzione, adottata dall'orientamento prevalente della giurisprudenza (Cass.26 febbraio 2010 n. 4757, App.Genova10 novembre 1997) è confermata dalla L.55/2015.I beni rientranti nella comunione sono divisi dal giudice e ripartiti in parti uguali (art. 194 comma 1 c.c.). La divisione in parti uguali avviene indipendentemente dalla misura della partecipazione di ciascuno dei coniugi agli esborsi necessari per l'acquisto dei beni caduti in comunione.
La somma sul conto può essere divisa in percentuali diverse dalla metà effettiva del saldo quando l'altro coniuge ha in precedenza fatto dei prelievi sul conto e il contitolare legittimato può chiedere al giudice che venga restituito quanto a lui sottratto dall'altro. Il giudice, in relazione alle necessità della prole e all'affidamento di essa, può costituire a favore di uno dei coniugi l'usufrutto su una parte dei beni spettanti all'altro coniuge (art. 194 c. 2 c.c.). La durata dell'usufrutto non è tanto commisurata al conseguimento della maggior età da parte del figlio, quanto all'obbligo di mantenimento del genitore non affidatario. La competenza a disporlo è del Tribunale ordinario. La ripartizione può avvenire in natura, mediante la formazione di due masse distinte di beni di uguale valore economico. I beni comuni indivisibili possono essere venduti (all'incanto in caso di divisione giudiziale) con successivo riparto del ricavato o assegnati ad uno dei coniugi riconoscendo all'altro un conguaglio in denaro, secondo le regole della divisione ereditaria. Ad esempio il credito verso il coniuge socio di una società di persone, a favore dell'altro coniuge in comunione "de residuo", è esigibile al momento della separazione personale ed è quantificabile nella metà del plusvalore realizzato a tale momento (consentendosi altrimenti al coniuge-socio di procrastinare la liquidazione della società o di annullarne il valore patrimoniale) (Cass.20 marzo 2013 n. 6876). In caso di restituzione della somma pari alla metà di quanto contenuto sul conto, gli interessi vanno conteggiati dalla data della domanda e non da quella dei prelievi effettuati dall'altro intestatario (Cass.27 gennaio 2014 n. 1646).

L'individuazione dei beni da dividere

La separazione dei coniugi o il divorzio non hanno effetto sui beni personali dei coniugi.
I beni acquistati durante il matrimonio dal singolo coniuge rimangono nella proprietà o nella disponibilità del coniuge medesimo. Il coniuge però deve provare che il singolo bene è di sua proprietà altrimenti i beni si presumono di comproprietà di entrambi. I coniugi possono spartirsi i beni mobili acquistati durante il matrimonio.
Si ritiene che i beni oggetto della spartizione debbano essere solo quelli presenti nella casa coniugale (o in residenze secondarie della famiglia) e non anche i beni che si trovano presso l'azienda, l'ufficio o l'officina del singolo coniuge, in considerazione del fatto che, in linea di principio, in regime di separazione ciascun coniuge conserva la titolarità esclusiva dei beni acquistati durante il matrimonio. In senso parzialmente diverso si afferma anche che si deve distinguere relativamente ai beni che si trovano nei locali di lavoro di uno dei coniugi, tra: - i beni tipicamente impiegati per un determinato tipo di lavoro (ad esempio i libri giuridici per un avvocato) che rimangono personali; - i beni che non appaiono caratteristici di quel tipo di attività (ad esempio un quadro antico appeso nello studio del professionista) per i quali la presunzione di comproprietà. Ai beni mobili acquistati durante il matrimonio dai coniugi in separazione dei beni si applicano i due principi posti dalla legge circa la prova della proprietà dei beni, ossia:
1) il coniuge può provare con ogni mezzo nei confronti dell'altro la proprietà esclusiva di un bene (art. 219 c.c.);
2) i beni di cui nessuno dei coniugi può dimostrare la proprietà esclusiva sono di proprietà indivisa per pari quota di entrambi i coniugi (art. 219 comma 2, c.c.): per legge tali beni si presumono in comproprietà e quindi in sede di separazione devono essere divisi pro quota (Cass.15 febbraio 2010 n. 3479).
Queste regole poste dalla legge sono inderogabili per espressa previsione di legge (art. 160c.c.), trattandosi di diritti che scaturiscono a favore del coniuge dal matrimonio. Si ritengono quindi invalidi i patti:
a) che escludono l'utilizzabilità di certi mezzi di prova o che, più semplicemente, modificano l'onere della prova rendendo più gravosa la posizione di un coniuge;
b) che stabiliscono che i beni dei quali nessuno possa provare la proprietà esclusiva devono considerarsi comuni, ma a quote diseguali; c) che stabiliscono presunzioni di proprietà esclusiva di determinati beni in capo a un solo coniuge. Secondo un indirizzo prevalente della Cassazione i principi sulla prova posti dalla legge (dall'art. 219c.c.) riguardano essenzialmente le controversie relative a beni mobili e sono volti principalmente a derogare, con la presunzione di comproprietà, alla regola generale sull'onere della prova in tema di rivendicazione, mentre nessuna deroga si pone per la prova degli acquisti immobiliari (in tal senso: Cass. SU 23 aprile 1982 n. 2494; Cass.2 agosto 2013 n. 18554; Cass.15 novembre 1997 n. 11327; Cass.22 dicembre 1995 n. 13066). Le ragioni della presunzione di comproprietà risiedono nell'inevitabile confusione che la convivenza comporta circa la titolarità dei beni mobili, anche in regime di separazione dei beni, nonché nella difficoltà della relativa prova da parte di ciascuno dei coniugi; è evidente che si sia inteso far fronte a tale difficoltà con la presunzione di comproprietà (Cass.7 luglio 1998 n. 6589).
Per provare la proprietà esclusiva e rovesciare la presunzione di comproprietà stabilita dalla legge non è necessaria una prova qualificata, ma è sufficiente una prova libera che può essere fornita con ogni mezzo, anche per presunzioni. Per dimostrare la proprietà esclusiva di un bene, i coniugi non possono invocare la norma che ammette ogni mezzo di prova (art. 219 comma 1, c.c.) nei confronti:
- di un terzo che, facendo valere le proprie ragioni di credito, aggredisca i beni in possesso dell'altro coniuge. Il coniuge del debitore rimane in tal caso sottoposto ai limiti di prova fissati dal codice di procedura civile ai sensi dell'art. 621 c.p.c. (Cass.7 luglio 1998 n. 6589);
- di un terzo che affermi di aver acquistato beni dall'altro coniuge (in tal caso infatti il terzo avrebbe un trattamento svantaggioso ogni volta che il suo venditore è una persona coniugata). Alcune decisioni di merito affermano invece che la presunzione della comproprietà non opera solo nell'ambito dei rapporti fra i coniugi, ma estende la sua portata anche nei confronti dei terzi, a prescindere dal regime patrimoniale adottato dai coniugi; di conseguenza l'azione esecutiva avente ad oggetto i beni mobili esistenti nella casa coniugale resta circoscritta alla quota ideale (50%) di proprietà del coniuge esecutato, con conseguente illegittimità del pignoramento limitatamente a quella parte dei beni che eccedono detta quota (Trib. Pavia 20 novembre 1979).

La divisione consensuale e giudiziale

La divisione dei beni della comunione, all'esito della quale viene meno la contitolarità tra i coniugi dei bei comuni, non opera automaticamente, come abbiamo visto, a seguito della separazione personale dei coniugi, ma avviene per un accordo tra gli stessi, (divisione consensuale), o in mancanza di accordo mediante ricorso all'autorità giudiziaria (divisione giudiziale). Nel dettaglio, la divisione consensuale avviene per mezzo della stipulazione di un contratto. Non è richiesta una forma particolare (a differenza della forma di atto pubblico richiesta per le convenzioni matrimoniali dall'art. 162c.c.). La divisione giudiziale sciolta la comunione legale tra coniugi per effetto della separazione personale, ciascuno dei coniugi in caso di mancato accordo, ha il diritto di chiedere la divisione dei beni comuni (c.d. divisione giudiziale) presentando una richiesta al Tribunale competente. Il giudizio di divisione non può essere proposto all'interno del giudizio di separazione per motivi di connessione e opportunità (art. 40c.p.c.). Può però essere proposto in pendenza del procedimento di separazione personale, purché il passaggio in giudicato della relativa sentenza avvenga prima della decisione in primo grado sulla domanda di divisione. Tale soluzione, adottata dall'orientamento prevalente della giurisprudenza (Cass.26 febbraio 2010 n. 4757, App. Genova 10 novembre 1997) è confermata dalla L.55/2015. Allo scioglimento della comunione segue la fase (eventuale) della divisione, che si effettua ripartendo in parti uguali l'attivo ed il passivo, come prevede l'art. 194 c.c.. La divisione dei beni può essere effettuata in forma contrattuale, ovvero giudizialmente (in mancanza di specifica normativa ad hoc, troveranno applicazione, in quanto compatibili, le previsioni generali di cui agli artt. 713 ss. c.c.). La divisione richiede che si sia già verificata una causa di scioglimento della comunione. La giurisprudenza, in precedenza, con riferimento al giudicato sulla separazione personale, riteneva che detto scioglimento rappresentasse presupposto processuale e, quindi, dovesse essersi già verificato al momento della proposizione della domanda divisionale (Cass. 25 marzo 2003, n. 4351; Cass. 18 settembre 1998, n. 9325). Successivamente, esso è stato qualificato come condizione dell'azione: la causa di scioglimento (e, nella specie, il giudicato sulla separazione personale) potrebbe dunque intervenire anche nel corso del giudizio di divisione, purché prima della decisione, pena l'improcedibilità della domanda (Cass. 26 febbraio 2010, n. 4757). La divisione può riguardare singoli cespiti, ovvero tutti quelli compresi nella comunione. Ne consegue che il convenuto, in via riconvenzionale, potrà estendere l'ambito del giudizio oltre quello individuato dall'attore, che avesse inteso chiedere la divisione solo di alcuni beni e non di altri. Le regole, in base alle quali procedere alla divisione, sono individuate dettagliatamente dagli artt. 192 ss. c.c.. In fase di divisione deve farsi luogo ai “rimborsi” e alle restituzioni”, indicati dall'art. 192 c.c., sia che si tratti di somme a suo tempo prelevate dal patrimonio comune per fini differenti dall'adempimento delle obbligazioni di cui la comunione deve rispondere (art. 186 c.c.), sia si tratti di denari prelevati dal patrimonio personale, per far fronte alle esigenze della comunione. Mette conto rammentare che devono essere restituiti soltanto gli importi impiegati in spese ed in investimenti per il patrimonio comune già costituito, ma non il denaro personale impiegato per l'acquisto di un bene facente parte della comunione (Cass. 9 novembre 2012, n. 19454); in caso contrario verrebbe meno la stessa ratio della comunione legale. Occorre poi procedere al prelevamento, dalla massa comune, dei beni personali di ciascun coniuge; il carattere personale del bene può essere provato, nei rapporti tra i coniugi, con ogni mezzo. In mancanza di prova, il bene mobile si presume comune. Qualora (sovente immobili), già appartenenti alla comunione legale, è tenuto al pagamento, in favore dell'altro, del corrispettivo pro-quota, di tale godimento, quale frutto spettante ex lege (Cass. 24 maggio 2005, n. 10896).

In conclusione

Lo scioglimento della comunione tra coniugi, in virtù di separazione personale, ha conseguenze in ambito patrimoniale che vanno valutate attentamente. Infatti, il regime patrimoniale di comunione legale si scioglie a seguito della pronuncia di separazione coniugale e in oggi, a seguito delle modifiche apportate all'art. 191 c.c. dalla l. n. 55/2015, anche in conseguenza dell'ordinanza che autorizza i coniugi a vivere separati. A seguito dello scioglimento, i beni che facevano parte delle comunione legale, sono assoggettati al regime della comunione ordinaria (salva l'applicazione degli artt. 192 ss. c.c., ove i coniugi intendano procedere alla divisione). Dunque, lo scioglimento della comunione determina l'ulteriore effetto dell'ingresso nel patrimonio comune dei beni oggetto di comunione de residuo che indica quella comunione residuale e differita che viene a formarsi tra i coniugi, all'atto stesso dello scioglimento del regime patrimoniale legale, a condizione che i beni che ne costituiscono oggetto non siano stati consumati prima di tale momento, secondo quanto previsto dagli artt. 177, lett. b) e c) e dall'178 c.c.. La ratio sottesa all'istituto si individua nella funzione di compromesso tra le esigenze di tutela del coniuge debole e il principio solidaristico proprio della vita coniugale, da un lato (art. 29 Cost.) e, dall'altro, la garanzia della libertà di autodeterminazione, gestione e remunerazione del lavoro del coniuge percettore (artt. 35, 41, 42 Cost.), oltre a motivi di opportunità, in relazione alle fattispecie sottese dall'art. 178 c.c.

Riferimenti

Tagliaferri, Separazione dei beni, in Il Familiarista, 2015.

Figone, Comunione legale:scioglimento, Il Familiarista, 2015;

Iodice- Mazzeo, Il regime patrimoniale della famiglia, Milano, 2015;.

Sesta, Codice della famiglia, Milano 2015;

Confortini, La comunione convenzionale tra coniugi, Il diritto di Famiglia, Milano 1997.

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