Doppia maternità: la madre intenzionale va riconosciuta sulla base del consenso prestato alla fecondazione assistita eterologa

27 Gennaio 2021

Il Tribunale di Brescia, chiamato a pronunciarsi sulla legittimità del rifiuto reso dall'Ufficiale di stato civile di consentire il riconoscimento del figlio minore da parte della madre intenzionale non legata allo stesso da un vincolo biologico, si è soffermato, in particolare, sull'applicabilità dei principi desumibili dalla lettura degli artt. 8, 9 e 12 della legge 40..
Massima

Il rifiuto dell'ufficiale di stato civile di consentire il riconoscimento della madre intenzionale non biologica di un minore concepito all'estero con PMA eterologa e nato in Italia è illegittimo e deve essere superato, in applicazione dell'art. 8 della legge 40/2004, in virtù del quale il consenso in origine prestato alla procreazione medicalmente assistita si configura come un atto giuridico volto a completare la stessa fattispecie dell'art. 8 e a determinare la costituzione del rapporto di filiazione con il genitore intenzionale.

L'art. 8 della legge 40/2004 trova, dunque, applicazione anche nelle ipotesi in cui due mamme abbiano avuto in Italia un figlio da PMA effettuata all'estero.

Il caso

A seguito del rifiuto manifestato dall'Ufficiale di Stato Civile di accogliere l'istanza di riconoscimento di Caia relativa al figlio minore nato in Italia a seguito di un percorso di fecondazione assistita eterologa intrapreso con la compagna Tizia in Spagna, Tizia e Caia hanno proposto ricorso, ex art. 95 e s.s. del d.P.R. n. 396/2000, al Tribunale di Brescia affinché accertasse e dichiarasse l'illegittimità del rifiuto reso in data 12 febbraio 2019 dall'Ufficiale dello stato civile.

Dopo la richiesta del parere del Giudice Tutelare e l'intervento del Pubblico Ministero che ha concluso per l'accoglimento del ricorso, le ricorrenti sono state ascoltate all'udienza dell'8 febbraio 2020.

Con decreto dell'11 novembre 2020, il Tribunale di Brescia ritenendo illegittimo e, dunque, superabile il rifiuto dell'Ufficiale di Stato Civile di consentire a Caia il riconoscimento del figlio minore, in conformità alla richiesta delle ricorrenti e in ossequio al disposto dell'art. 262, secondo comma, c.c. ha:

i) ordinato all'Ufficiale di Stato Civile di annotare, a margine dell'atto di nascita del minore il riconoscimento di figlio da parte di Caia, disponendo che ne assuma il cognome;

ii) dichiarato il decreto immediatamente efficace;

iii) mandato alla Cancelleria gli adempimenti relativi alla trasmissione del decreto all'Ufficiale dello Stato Civile.

La questione

Chiamato a pronunciarsi sulla legittimità del rifiuto reso dall'Ufficiale di stato civile di consentire il riconoscimento del figlio minore da parte della madre intenzionale non legata allo stesso da un vincolo biologico, il Tribunale di Brescia, dopo aver individuato gli ambiti di operatività della Legge 40 del 2004 in materia di Procreazione Medicalmente Assistita, si è soffermato, in particolare, sull'applicabilità dei principi desumibili dalla lettura degli artt. 8, 9 e 12 della legge 40 al fine di individuare il trattamento giuridico applicabile ai casi in cui due donne abbiano fatto ricorso alla PMA all'estero e la madre intenzionale intenda poi riconoscere il figlio nato in Italia.

Ciò avendo come punto di riferimento, in primis, l'interesse del minore e la sua tutela.

Le soluzioni giuridiche

Partendo dall'analisi del quadro normativo vigente nel nostro ordinamento in materia di Procreazione Medicalmente Assistita (PMA) e, in particolare, dei criteri soggettivi e oggettivi di accesso a tali trattamenti enunciati dalla legge 40/2004, i giudici di primo grado si sono poi soffermati sulla soluzione adottata dalla Corte di Cassazione con le sentenze cd. “gemelle” dell'aprile 2020 evidenziandone il carattere discriminatorio rispetto alle coppie omosessuali e non in linea con le intenzioni del legislatore.

I giudici si sono, poi, interrogati sulla applicabilità dell'art. 8 della legge – in materia di identificazione dello status giuridico dei nati a seguito dell'applicazione delle tecniche di PMA – ai sensi del quale gli stessi hanno lo status di figli legittimi o di figli riconosciuti della coppia che ha espresso la volontà di ricorrere alle tecniche medesime, anche nei casi in cui siano due donne ad accedere alle tecniche di PMA all'estero e la madre intenzionale voglia successivamente riconoscere il figlio nato in Italia.

Nello specifico, la motivazione del decreto si articola su due aspetti fondamentali:

i) La costituzione del legame di filiazione e la tutela del superiore interesse del minore

Il Tribunale ha valutato, nello specifico, l'esistenza di un nesso di condizionamento tra il riconoscimento di tale status ai figli nati da PMA e il rispetto dei criteri soggettivi di accesso a tali tecniche (art. 5, legge 40/2004) che ne limitano il ricorso esclusivamente alle coppie maggiorenni di sesso diverso, coniugate o conviventi, in età potenzialmente fertile e entrambi viventi, e si è così interrogato sull'applicabilità dell'art. 8 anche alle ipotesi – come quella in oggetto – in cui ad accedere alla PMA è una coppia esclusa dal novero dell'art. 5.

I giudici bresciani hanno ritenuto come, tranne nei casi di surrogazione di maternità, la risposta debba essere negativa e come, pertanto, non si possa escludere l'applicabilità dell'art. 8 nelle ipotesi in cui due donne abbiano fatto ricorso alla PMA all'estero e la madre intenzionale intenda successivamente riconoscere il figlio nato in Italia.

Ciò a maggior ragione se si analizza l'art. 8 in combinato disposto con gli artt. 9 e 12. Infatti, se da un lato l'art. 9, quando ancora era vigente il divieto di fecondazione assistita eterologa impediva – e impedisce tuttora – che il coniuge o il convivente che avesse manifestato il consenso ad accedere alla PMA potesse esercitare l'azione di disconoscimento della paternità e l'impugnazione di cui all'art. 263 c.c., escludendo che il donatore dei gameti potesse acquisire una relazione giuridica parentale con il nato; dall'altro, l'art. 12 disciplina le sanzioni amministrative applicabili in caso di mancato rispetto dei criteri soggettivi enucleati dalla legge 40 e tra queste, mai è menzionata la possibilità di compromettere la relazione di filiazione instaurata con il genitore intenzionale.

Pertanto, i giudici hanno ritenuto di poter definire la legge 40 un esempio di lex minus quam perfecta se solo si considera che, pur essendo gli atti compiuti in difformità dalla fattispecie legale, eventualmente passibili di sanzione amministrativa, gli stessi hanno, comunque, come effetto quello di costituire un rapporto giuridico di filiazione tra il nato ed entrambi i membri della coppia che ha espresso la volontà di ricorrere alle tecniche di procreazione assistita. Tutto ciò, anche ai sensi dell'art. 1 della legge in questione, finalizzato a fornire piena tutela prima al concepito, poi all'embrione e, infine, al nato.

E' evidente, pertanto, come anche in questo caso i giudici abbiano deciso di tenere ben distinti il piano della tutela dell'interesse del minore e quello della liceità della condotta assunta dai genitori, che non può in alcun caso influire sul diritto del figlio alla sua identità, nonché alla certezza dello status e alla continuità della relazione familiare.

ii) Il rischio di discriminazione per le coppie omosessuali

Evidenziando come, alla luce delle norme richiamate, sembrerebbe quasi che la disparità di sesso sia l'unica condizione idonea a impedire l'instaurazione del rapporto di filiazione con il genitore intenzionale, il Tribunale di Brescia si è poi soffermato sulla soluzione adottata dalla Suprema Corte di Cassazione con le sentenze cd. “gemelle” (7668/2020 e 8029/2020), che, in virtù del divieto di accesso alle tecniche di PMA delle coppie omosessuali in Italia, ha ritenuto legittimo il rifiuto dell'Ufficiale di Stato Civile di inserire, nell'atto di nascita di un minore nato in Italia ma concepito all'estero tramite PMA, il nome della madre intenzionale accanto a quello della madre biologica.

In particolare, i giudici bresciani hanno evidenziato come tali pronunce si basino su un'interpretazione dell'art. 8 che appare discriminatoria per le coppie omosessuali che devono essere considerate formazioni sociali tutelate ai sensi degli artt. 2 e 3 della Costituzione, e come le eventuali ripercussioni negative sul piano educativo e della crescita del minore debbano essere valutate in concreto, come del resto anche enunciato dalla stessa Corte di Cassazione (601/2013).

Non solo.

Il Collegio ha, infatti, rilevato come il modello di famiglia costituito da una mamma e un papà, l'unico ad essere stato preso in considerazionedalla Cassazione non sia, in realtà, l'unico possibile, soprattutto alla luce degli sviluppi e dell'evoluzione sociale, economica e delle tecniche scientifiche e di come nonostante lo status di figlio sia unico, lo stesso possa sorgere per effetto di fattispecie differenziate come accade nel caso dell'adozione e della Procreazione Medicalmente Assistita.

Pertanto, i giudici lombardi hanno accolto la domanda delle ricorrenti ritenendo che l'art. 8 debba trovare applicazione anche nel caso, come quello in questione, in cui due donne abbiano avuto in Italia un figlio concepito con PMA all'estero e che la richiesta di riconoscimento del minore da parte della madre intenzionale debba essere accolta perché pur non attestando la verità della gestazione, è espressione del consenso manifestato all'inizio della procedura di PMA, idoneo a costituire il rapporto giuridico di filiazione.

Osservazioni

È apprezzabile osservare come l'interpretazione e l'analisi del Tribunale Bresciano, avente ad oggetto i principi cardine in materia di costituzione del rapporto di filiazione ai sensi della legge 40/2004, sia totalmente fondata sulla necessità di scindere il piano della condotta assunta dall'adulto rispetto alla necessità di tutelare l'interesse del minore, proprio nell'ottica di garantire allo stesso quella continuità affettiva e familiare già in origine acquisita al momento del suo concepimento.

Il collegio lombardo ha così superato la ricostruzione effettuata dalla Suprema Corte di Cassazione con le sentenze “gemelle” già richiamate ma, altresì, quella effettuata dalla Corte Costituzionale con sentenza Corte cost. 221/2019 che ha riconfermato la legittimità costituzionale del divieto di accesso alla PMA, vigente nel nostro ordinamento, per le coppie omosessuali.

In particolare, i giudici di primo grado hanno evidenziato come nelle ipotesi in cui risulti impossibile evocare la forza del vincolo biologico, assente in questo caso con riferimento a una delle due donne, sia altrettanto necessario focalizzarsi sull'intenzione e sulla assunzione volontaria della responsabilità genitoriale, manifestata da entrambe sin dalla fase antecedente al concepimento, in sede di sottoscrizione del consenso alla PMA, giacché espressione evidente della volontà di attuare un progetto di vita comune.

Pertanto, il collegio lombardo si è focalizzato sul supremo interesse del minore, confermando come nonostante lo status di figlio sia unico, lo stesso possa derivare da fattispecie differenziate – come l'adozione e la PMA – che non possono essere “racchiuse” nel modello tradizionale di famiglia costituito da un uomo e una donna. Ciò, infatti, significherebbe interpretare in maniera eccessivamente restrittiva l'art. 8 della legge 40/2004 che è stato posto evidentemente a tutela dell'interesse del minore.

Non solo.

Tale modello non può più essere considerato l'unico modello esclusivo di famiglia, giacché se da un lato va comunque considerata l'evoluzione sociale e lo sviluppo tecnologico, dall'altro, i diritti del bambino devono essere sempre tutelati anche quando lo stesso si trovi a vivere in una famiglia diversa da quella costituita da una mamma e un papà.

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