Reati tributari di natura dichiarativa: la responsabilità degli amministratori senza deleghe

Marina Smeralda Caini
Gianluca Gambogi
28 Gennaio 2021

I reati fiscali cosiddetti dichiarativi (artt. 2, 3, 4 e 5 d.lgs. 74/2000) si perfezionano con la presentazione della dichiarazione dei redditi o dell'IVA del legale rappresentante della società, eccezion fatta ovviamente per il delitto di mancata presentazione.. Qualora la società sia rappresentata da un amministratore unico, nessun dubbio sorge in relazione alla sua responsabilità (salvo il concorso con un eventuale amministratore di fatto o un consulente fiscale), più problematico è invece il caso in cui vi sia un Consiglio di amministrazione, laddove ci si può interrogare se sussista anche una responsabilità concorsuale dei Consiglieri privi di delega.
Abstract

I reati fiscali cosiddetti dichiarativi (artt. 2, 3, 4 e 5 d.lgs. 74/2000) si perfezionano con la presentazione della dichiarazione dei redditi o dell'IVA del legale rappresentante della società, eccezion fatta ovviamente per il delitto di mancata presentazione.

Qualora la società sia rappresentata da un amministratore unico, nessun dubbio sorge in relazione alla sua responsabilità (salvo il concorso con un eventuale amministratore di fatto o un consulente fiscale), più problematico è invece il caso in cui vi sia un Consiglio di amministrazione, laddove ci si può interrogare se sussista anche una responsabilità concorsuale dei Consiglieri privi di delega. La giurisprudenza non offre spunti sull'argomento specifico, mentre più volte ha affrontato il caso relativamente ai reati fallimentari.

L'argomento di cui trattasi consente di ripercorrere brevemente: da un lato i princìpi del diritto penale, segnatamente, quelli relativi al concorso di persone nel reato (art. 110 c.p.) e quelli in materia di nesso causale fra condotta ed evento (art. 40 c.p.); dall'altro la natura dei reati fiscali, limitatamente ai delitti dichiarativi.

Brevi cenni sui reati fiscali di natura dichiarativa

È ben noto che l'art. 2 del d.lgs. n. 74/2000, così come del resto gli artt. 3 e 4, configura, sotto un profilo materiale, un reato commissivo di mera condotta. La realizzazione dell'azione descritta dalla norma integra ed esaurisce il fatto previsto dalla norma come reato.

Non è così, ovviamente, per l'ultimo dei delitti in materia di dichiarazione ovverosia quello previsto dall'art. 5 del d.lgs. n. 74/2000, non foss'altro perché quest'ultimo, come tutti gli operatori ben sanno, è caratterizzato dalla mancata presentazione della dichiarazione dei redditi nei termini previsti.

Questa diversa caratteristica non pare, come vedremo poco oltre, incidere in maniera tale da arrivare a conclusioni diverse rispetto ai reati dichiarativi commissivi: tanto per questi, quanto per l'art. 5, infatti, le riflessioni sul concorso nel reato dell'amministratore senza deleghe rimangono sostanzialmente identiche.

Fermo restando quanto sopra e tornando a ragionare dei reati dichiarativi commissivi, è il caso di ricordare che gli stessi si perfezionano all'atto della presentazione della dichiarazione a prescindere dal verificarsi o meno di un evento dannoso.

Il principio può ritenersi univoco stando alla giurisprudenza della Suprema Corte (cfr., per tutte, Cass. pen.,sez. III, 16/12/2016, n. 10507).

Si tratta oltretutto di delitti “propri” del contribuente tenuto alla sottoscrizione della dichiarazione dei redditi o dell'IVA.

Nel caso di una società l'onere dichiarativo incombe, ovviamente, su chi ne abbia la legale rappresentanza: il Presidente del Consiglio di Amministrazione, se quest'ultimo è presente, ovvero l'Amministratore Unico.

Non può sfuggire la stretta correlazione tra la carica rivestita e la condotta richiesta, nel caso di specie caratterizzata dalla presentazione della dichiarazione, tant'è vero che, sempre sulla scorta della giurisprudenza di legittimità, non va esente da responsabilità l'amministratore appena nominato sul quale grava l'onere di verificare quale sia lo stato degli adempimenti fiscali posti in essere da chi lo aveva preceduto nella gestione dell'impresa (cfr., ad esempio, Cass. pen., sez. III, 27/01/2014, n. 3636).

È appena il caso di ricordare un ulteriore dato, anche questo ben chiaro a chi si occupa della materia, e cioè che i reati dichiarativi di cui trattasi, ovverosia, in particolare, quelli previsti dagli artt. 2, 3 e 4 del d.lgs. n. 74/2000, sono caratterizzati da frode (i primi due) e infedeltà dichiarativa (l'ultimo).

È del tutto evidente che il profilo del concorso nel reato da parte del soggetto non direttamente obbligato alla presentazione della dichiarazione dei redditi riguarda ed anzi non può prescindere da valutazioni concernenti gli elementi della frode o dell'infedeltà stessa.

In altre parole: il Consigliere di amministrazione senza delega risponderà, a parere di chi scrive, a titolo di concorso solo e soltanto vi siano le prove della conoscenza della perpetrata frode o dell'infedeltà e della volontarietà della omissione. Diversamente finiremo per ammettere una responsabilità penale di natura oggettiva per fatto altrui.

Sulla causalità nei reati omissivi propri e sul concorso di persone per omissione nel reato commissivo

Stante la natura dei reati in questione, sopra sinteticamente delineata, occorre quindi esaminare come si articoli e coordini la disciplina del concorso di persone nei reati fiscali dichiarativi.

Trattandosi di reati propri, ove la condotta descritta dalla fattispecie incriminatrice può essere tenuta esclusivamente dal legale rappresentante, il concorso del consigliere non operativo potrà avvenire solo per omissione. Si tratta quindi di configurare l'ipotesi di concorso per omissione dell'extraneus nel reato commissivo proprio altrui.

Al riguardo, la prima osservazione che si profila è che l'omissione, intanto può assumere rilevanza penale, in quanto vi sia un obbligo giuridico di impedire l'evento.

L'art. 40 comma2 c.p., infatti, dispone che: “Non impedire un evento, che si ha l'obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo”.

Mentre il primo comma del medesimo articolo, sancisce il “rapporto di causalità” tra condotta ed evento, segnando, come ricorda un illustre autore, il passaggio dalla “responsabilità per fatto altrui verso la responsabilità per fatto proprio”, il secondo comma attiene al rapporto di causalità c.d. normativa e riguarda i reati omissivi impropri (cfr. F. Mantovani, Diritto Penale, Cedam, Padova, 2020, pag. 149).

Sempre con riferimento al concorso di persone nel reato deve osservarsi che l'art. 110 c.p. non definisce l'ipotesi concorsuale, limitandosi ad equiparare, in linea generale, quoad poenam, la manifestazione plurisoggettiva di un reato monosoggettivo a quello commesso da un solo agente.

Ciò porta a ritenere, ovviamente, che sia necessario un contributo di ciascun concorrente che si ponga come conditio sine qua non della realizzazione del fatto illecito, quanto meno a livello di agevolazione.

La condotta del concorrente può inoltre manifestarsi sotto forma di impulso psicologico ad un fatto materialmente posto in essere da altri; si parla in tal caso di concorso morale (sotto forma di determinazione o rafforzamento dell'altrui proposito criminoso).

Occorre poi che il contributo materiale o morale del singolo concorrente sia supportato dall'elemento psicologico richiesto dalla norma incriminatrice (dolo o colpa, in quest'ultimo caso si parlerà, più propriamente, di cooperazione nel delitto colposo ai sensi e per gli effetti dell'art. 113 c.p.).

I delitti previsti dal d.lgs. n. 74/2000 sono, com'è noto, esclusivamente dolosi e ciò rappresenta una significativa differenza rispetto all'impianto punitivo previsto dalla cosiddetta Manette agli evasori, ovverosia la legge n. 516/1982 che prevedeva, tra le varie ipotesi di reato, anche alcune ipotesi di contravvenzione che, come noto, sono punite, indifferentemente, a titolo di dolo o colpa.

È appena il caso di precisare ulteriormente che allorquando si tratta dell'elemento psicologico dei nuovi delitti tributari, si deve considerare che nel dolo (più precisamente specifico per la quasi totalità dei reati fiscali), oggi necessariamente richiesto, si ricomprende anche quello cosiddetto ‘eventuale'.

Il concorso omissivo nel reato commissivo di altri (questo è il caso di specie in cui il delitto è “proprio” ed ontologicamente monosoggettivo) richiede che l'omissione dell'extraneus sia condizione necessaria o agevolatrice e sia supportata dal dolo specifico di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto. Infine, tale – consapevole - omissione, deve costituire, è già stato ricordato poco sopra, violazione di un obbligo giuridico di impedire l'evento ai sensi dell'art. 40 comma 2 c.p.

Le altre ipotesi di concorso nel reato dichiarativo

Prima di affrontare le criticità riguardanti il concorso degli amministratori senza deleghe, è appena il caso di ricordare che si registrano ipotesi concorsuali nei reati suddetti nelle quali il contributo del concorrente non si sostanzia in un'omissione. Ciò avviene quantomeno in due casi: quello del c.d. amministratore di fatto e quello del professionista per il quale, peraltro è prevista addirittura una circostanza aggravante specifica ai sensi dell'art. 13-bis, comma 3 del d.lgs. n. 74/2000.

Analizziamo innanzitutto il caso del c.d. amministratore di fatto.

L'art. 2639 c.c. estende la qualifica soggettiva di colui che sia formalmente investito della qualifica a “chi esercita in modo continuativo e significativo i poteri tipici inerenti la qualifica”. Tale precetto normativo modifica profondamente l'ipotesi concorsuale poiché rende esplicito che, a certe condizioni, chi compie le scelte e gli atti tipici della gestione d'impresa sia l'amministratore di fatto. Rispetto a tale ruolo, costui perde quello di extraneus. La Corte Suprema si è espressa in un caso di omessa dichiarazione (ma analogo ragionamento può valere per i reati dichiarativi), in questi termini: “Del reato di omessa presentazione della dichiarazione ai fini delle imposte dirette o IVA, rispondono sia l'amministratore di fatto sia l'amministratore di diritto (il prestanome) in virtù del principio generale di cui all'art. 2639 c.c., secondo cui il soggetto formalmente investito della carica deve essere equiparato a chi esercita in maniera continuativa e significativa i poteri tipici inerenti la qualifica o funzione. Il primo risponde quale autore principale, in quanto titolare effettivo della gestione sociale e, pertanto, nelle condizioni di poter compiere l'azione dovuta. L'amministratore di diritto, quale mero prestanome, è invece responsabile a titolo di concorso per omesso impedimento dell'evento (artt. 40, co. 2, c.p. e 2932 c.c.), a condizione che ricorra l'elemento soggettivo richiesto dalla norma incriminatrice. (cfr. Cass. pen. sez. III, 20/01/2017, n. 18924).

L'altra ipotesi di concorso nei reati in esame è quella del professionista, consulente fiscale. Secondo le regole dell'art. 110 c.p. il concorso consapevole - anche a titolo di dolo eventuale - del professionista può essere sia materiale che morale (quindi, in entrambi i casi, di tipo commissivo).

In tal senso vi è giurisprudenza consolidata (cfr. da ultimo, Cass. pen. sez. III, n. 27/06/2019 n. 28158).

Nel caso in cui, poi, il professionista addirittura elabori o commercializzi modelli di evasione fiscale sarà, come già evidenziato poc'anzi, applicabile la circostanza aggravante (art. 13-bis, comma 3) in forza della quale le pene stabilite sono aumentate della metà con evidenti ripercussioni, serissime, sotto il profilo sanzionatorio.

L'obbligo giuridico di impedire l'evento dei consiglieri privi di delega

Quadro generale - Come sopra osservato, i reati omissivi impropri, o di non impedimento, trovano il loro presupposto in un dovere giuridico che, sia pure non indicato dall'art. 40 comma 2 c.p. deve necessariamente trovare fondamento nelle fonti formali. Queste ultime, in forza del principio della riserva di legge, devono essere costituite dalla legge (penale o extrapenale), dal contratto, o dall'assunzione volontaria di un obbligo: negotiorum gestio (cfr. sul concetto di posizione di garanzia G. Fiandaca–E. Musco, Diritto Penale – parte generale,Bologna, 2010, pag. 606 e ss. i quali oltre alle situazioni sovra richiamate ritengono che la posizione di garanzia possa essere assunta anche al compimento di precedenti azioni pericolose, circostanza quest'ultima che pare ravvisabile, maggiormente, in reati di natura diversa da quelli tributari; secondo F. Mantovani, op. cit., pag. 186, le attività pericolose non costituiscono obblighi di garanzia).

Il ruolo che viene normativamente attribuito è definito “posizione di garanzia”.

Nella fattispecie analizzata, la fonte cui attingere per verificare se vi sia in capo al consigliere privo di deleghe un dovere corrispondente a quanto sopra detto, è il codice civile: in particolare, gli articoli 2381 e 2392 c.c.

La riforma della disciplina delle società, portata dal d.lgs. n. 6/2003, ha certamente mutato il quadro normativo dei doveri di chi sia preposto alla gestione della società; da un lato ha compiutamente regolamentato i compiti degli amministratori destinatari di delega e la funzione di quelli c.d. “non operativi” (art. 2381 c.c.), dall'altro ha modificato la responsabilità degli amministratori tout court verso la società (art. 2392 c.c.). Iniziando dal primo comma di quest'ultimo articolo, la responsabilità solidale degli amministratori della società può nascere dall'“inosservanza dei doveri imposti dalla legge e dallo statuto”.

Qui la riforma, lasciando intatto il principio, ha inciso però sulla diligenza richiesta ai titolari della carica; mentre nella precedente formulazione era sancita la diligenza del mandatario, ora è quella riferibile alla “natura dell'incarico” ed alle “specifiche competenze”.

Il mandato, cui rinviava la precedente formulazione, è un contratto “intuitu personae” (con il che si presume conferito a persona che abbia la competenza di compiere gli atti giuridici affidati) e prevede l'obbligo di rendiconto in capo al mandatario.

Concetti più generici, invece, sono quelli declinati dall'attuale art. 2381 c.c., ossia la “natura dell'incarico” - che potrebbe riferirsi anche al conferimento di specifiche deleghe o meno - e le “competenze” di ognuno (termine che non pare riferirsi però necessariamente a quelle tecniche in senso stretto).

Ma è il secondo comma del medesimo art. 2392 c.c. ad aver subìto la modifica più significativa attraverso la cancellazione dall'obbligo di “vigilare sul generale andamento della gestione” della società in capo ai consiglieri non delegati e della collegata responsabilità solidale per mancato esercizio di tale - generale e generico - dovere di vigilanza sulla gestione societaria anche a prescindere dal verificarsi di un danno. Tale obbligo giuridico per la sua formulazione era, in sostanza, funzionale a porre in capo a tutti gli amministratori, delegati e non, un onere di attivazione che si esplicava mediante un controllo sulla gestione. Dal che, sul versante penale, era ben difficile sottrarsi a responsabilità da reato, anche se questa era strutturata più a livello oggettivo che personale.

Il nuovo art. 2392 c.c. ha eliminato l'obbligo di vigilanza, mantenendo invece quasi – è stata infatti sostituita la parola atti con fatti - immutata la seconda parte del comma 2 che prevede una responsabilità da mancato impedimento, ossia una condotta omissiva degli amministratori non operativi qualora “essendo a conoscenza di fatti pregiudizievoli, non hanno fatto quanto potevano per impedirne il compimento o eliminarne o attenuarne le conseguenze dannose”.

In tale ottica la norma ha sicuramente “alleggerito gli oneri e le responsabilità degli amministratori privi di deleghe”e, conseguentemente, il ruolo penale dell'amministratore privo di delega risulta modificato.

Ciò in armonia con la trasformazione del compito attivo di controllo e vigilanza in quello di mera valutazione di quanto loro riferito dall'amministratore delegato.

Infatti la riforma ha dato un contenuto all'art. 2381 c.c. che in precedenza prevedeva unicamente la possibilità per il consiglio di amministrazione di conferire deleghe (ad un comitato esecutivo o ad alcuni dei suoi membri).

Il novellato art. 2381 c.c. invece, specifica nel dettaglio i compiti del Presidente del C.d.A. - e/o dell'amministratore delegato - precisando che incombe su questa figura un obbligo di ragguaglio “sulle materie iscritte all'ordine del giorno” e, periodicamente, "sul generale andamento della gestione e sulla sua prevedibile evoluzione, nonché sulle operazioni di maggior rilievo, per le loro dimensioni o caratteristiche, effettuate dalla società o dalle sue controllate" (art. 2381 commi 1 e 5 c.c.).

Ne deriva che il compito (ed anche il potere) dei consiglieri senza delega sia:

a) valutativo per ciò che concerne il generale andamento ed assetto della società, non di controllo/vigilanza;

b) limitato in funzione delle informazioni ricevute dal delegato. Potremmo dire che la penale responsabilità, postula la dimostrazione di un effettivo ed efficace ragguaglio circa l'evento oggetto del doveroso impedimento;

c) con facoltà di chiedere – ulteriori - informazioni relative alla gestione della società. Su quest'ultimo punto la giurisprudenza di legittimità ha opportunamente rilevato che trattandosi di mera “facoltà” occorre, per trasformarsi in obbligo positivo di condotta, che sia “innescata” da elementi tali da porre sull'avviso gli amministratori”, “altrimenti si ricadrebbe nella configurazione di un generale obbligo di vigilanza che la riforma ha invece volutamente eliminato” (cfr. Cass. civ. n. 17441 del 31/08/2016).

La relazione di accompagnamento al d.lgs. n. 6/2003 infatti enuncia in merito alla responsabilità degli amministratori non operativi il dichiarato scopo di “evitare sue indebite estensioni che, soprattutto nell'esperienza delle azioni esperite da procedure concorsuali, finiva per trasformarla in una responsabilità sostanzialmente oggettiva”.

Una considerazione da aggiungere poi, è che la riforma non ha fornito al consigliere non operativo strumenti impeditivi dei fatti pregiudizievoli di cui sia venuto a conoscenza.

Il rilievo non è di poco momento, tanto che non è sfuggito all'attenta valutazione del Giudice di legittimità che, in argomento, ha osservato: “Se sono da intendere solidalmente responsabili, al pari di chi abbia cagionato l'evento, coloro che non hanno fatto quanto potevano per impedirlo, occorre che quei poteri siano ben determinati, ed il loro esercizio sia normativamente disciplinato in guisa tale da poterne ricavare la certezza che, laddove esercitati davvero, l'evento sarebbe stato scongiurato: il che non sembra” (cfr. Cass. pen., sez. V, n. 23000 del 28/05/2013; cfr. anche Cass. civ.,sez. I, n. 17441 del 31/08/2016).

Né in proposito pare possa soccorrere l'ultimo comma dell'art. 2392 c.c. a mente del quale “La responsabilità per gli atti o le omissioni degli amministratori non si estende a quello tra essi che, essendo immune da colpa, abbia fatto annotare senza ritardo il suo dissenso nel libro delle adunanze e delle deliberazioni del consiglio, dandone immediata notizia per iscritto al presidente del collegio sindacale”, attenendo, dato il suo tenore letterale, ad un diverso profilo rispetto ai fatti pregiudizievoli.

Nello specifico - Per ciò che interessa il versante penale, questa premessa riconfigura la "posizione di garanzia" del consigliere non operativo, posto che l'obbligo di impedire l'evento, disciplinato quale tramite giuridico causale, dall'art. 40 comma 2 c.p., si parametra su una fonte normativa che costituisce il dovere di intervento allorché questi:

a) sia a conoscenza di fatti pregiudizievoli.

Rispetto alla precedente formulazione dell'art. 2392 comma 1 c.c., è stata cambiata la parola “atti” con “fatti”.

Si pone subito il quesito di quale sia la voluntas legis sottesa a tale cambiamento, posto che si debba ritenere che il legislatore abbia inteso dare un significato a tale novità. Potremmo pensare che, nel medesimo comma, è stato pure sostituito il concetto di diligenza, non più rimandando agli obblighi del mandatario (che compie atti giuridici), bensì utilizzando un parametro relativo (alla natura dell'incarico ed alle specifiche competenze), in tal modo dando prevalenza all'aspetto soggettivo (o personale) più che oggettivo. Ciò in linea con lo spirito della riforma che ha proprio inteso eliminare quella responsabilità oggettiva che a carico dei consiglieri non operativi troppo spesso è stata foriera di condanne che, sul piano che ci interessa, mal si conciliano con il principio costituzionale sancito dall'art. 27: “la responsabilità penale è personale”.

Potremmo inoltre aggiungere su un piano ermeneutico, che la parola “fatti” evochi un accadimento, più correttamente un “evento”.

Non a caso la giurisprudenza formatasi in argomento riguarda pressoché esclusivamente i reati fallimentari ma non i reati fiscali dichiarativi di cui stiamo parlando. Difatti, nell'ambito societario, vi è un obbligo di conservazione dell'integrità del patrimonio sociale previsto dall'art. 2394 c.c. in primis verso i soci ed i creditori; la mancata osservanza di tale obbligo, anche solo sotto il profilo del pericolo di una lesione dell'integrità del patrimonio, determina l'eventus damni (così si esprime anche la giurisprudenza).

Questi reati, in particolare quelli fallimentari, sono di evento; al contrario, i reati fiscali dichiarativi sono di mera condotta.

Non solo, ma il soggetto attivo, con la presentazione della dichiarazione dei redditi o ai fini IVA compie un'azione di per sé non solo lecita, ma obbligatoria (la sua omissione infatti, integra il diverso reato fiscale a carico del legale rappresentante che per legge è obbligato). Le condotte prodromiche, quali le indicazioni di elementi fittizi nelle scritture contabile obbligatorie, sono irrilevanti ai fini penali (si prende in esame il delitto previsto dall'art. 2 ma le stesse considerazioni valgono, mutatis mutandis, anche per le fattispecie di cui agli artt. 3 e 4). Inoltre tale reato si compie avvalendosi di fatture per operazioni inesistenti. Com'è noto, oltre al caso del documento fiscale emesso a fronte di un'operazione mai avvenuta, vi è il caso di operazione giuridicamente inesistente (avente, cioè, una causa diversa da quella rappresentata, e soggetta a diversa disciplina fiscale) ed infine le fatture soggettivamente inesistenti, ossia che indichino una prestazione avvenuta fra soggetti diversi da quelli reali e come tali in violazione della normativa sull'IVA.

Per far scattare l'obbligo di impedire l'evento che la causalità normativa equipara al commetterlo, occorre che l'agente cui non spetta – più - un generale dovere di vigilanza abbia contezza del presupposto. Sia, cioè, a conoscenza, di fatti pregiudizievoli; tale valutazione, come osserva Cass. pen., sez. V, n. 43101 del 22/11/2007, attiene “all'elemento oggettivo del reato”, non all'aspetto soggettivo.

La necessaria rappresentazione dei fatti pregiudizievoli non può essere solo conoscibile, ma dev'essere conosciuta. Occorre l'accertamento dell'esistenza di peculiari segnali di allarme “nonché l'accertamento del grado di anormalità di questi segnali non in linea assoluta, ma per l'amministratore non operativo” (così Cass. pen., sez. V, n. 23838 del 19/06/2007; Cass. pen.,sez. V, n. 42519 del 2/11/2012).

Quanto all'art. 5, sebbene la fattispecie non richieda alcun “antecedente” fraudolento o inveritiero, è pur vero che, in mancanza di un dovere di controllo specifico dei singoli atti compiuti (od omessi) dal titolare della rappresentanza a carico dei consiglieri non operativi, sia difficile ipotizzare segnali d'allarme che richiedano l'obbligo di attivarsi in capo a questi ultimi.

b) Tenga una condotta omissiva consapevole e volontaria.

All'esito positivo di tale accertamento, segue quello della valutazione dell'elemento soggettivo, ossia l'indagine sulla volontarietà della condotta omissiva. Il punto è ben chiarito dalla sentenza sopra citata n. 43101/2007 laddove si afferma che “non sia sufficiente la dimostrazione della consapevole condotta di omissione, per dedurre, per ciò solo, la necessaria rappresentazione degli eventi pregiudizievoli. Tanto, invero, non attesta ancora la rappresentazione dell'accadimento che si deve impedire (che è l'oggetto del meccanismo normativo in discorso)”.

Ulteriore chiarimento è sempre desumibile dal dictum che segue: “Un conto è che l'amministratore privo di delega rimanga indifferente dinanzi ad un segnale di allarme percepito come tale, in quanto decida di non tenere in considerazione alcuna l'interesse dei creditori o il destino stesso della società, ben altra cosa è che egli continui a riconoscere fiducia, per quanto mal riposta, verso le capacità gestionali di altri, ovvero che per colpevole -ma non dolosa- superficialità venga meno agli obblighi di controllo su di lui effettivamente gravanti, accontentandosi di informazioni insufficienti su un'operazione che gli viene sottoposta per l'approvazione senza che egli si renda davvero conto delle conseguenze che ne potrebbero derivare. Solo nel primo caso l'amministratore potrà essere chiamato a rispondere penalmente delle proprie azioni od omissioni, non già nel secondo, dove, ricorrendone i meno rigorosi presupposti, sarebbe ipotizzabile soltanto una sua condotta colposa, al massimo nella forma della colpa cosciente per aver egli ritenuto erroneamente che le capacità manageriali di qualcun altro avrebbero di certo impedito il verificarsi di un pur previsto evento: e l'ordinamento non consente la condanna in sede penale per fatti di bancarotta connotati da mera colpa” (così Cass. pen., sez. V, n. 23000 del 28/05/2013).

Riassumendo

L'analisi del profilo della responsabilità discendente dall'art. 40 comma 2 c.p. per condotte connotate da volontarietà, e la configurazione della "posizione di garanzia" che qualifica il ruolo dell'amministratore evidenziano due momenti, tra loro complementari, ma idealmente distinti ed entrambi essenziali. Il primo postula la rappresentazione dell'evento, nella sua portata illecita, il secondo - discendente da obbligo giuridico - l'omissione consapevole nell'impedirlo.

Entrambe queste due condizioni debbono ricorrere nel meccanismo tratteggiato dal nesso di causalità giuridico di cui si discute. Non è, quindi, responsabile chi non abbia avuto rappresentazione del fatto pregiudizievole (cosicché che l'omissione dell'azione impeditiva non risulti connotata da consapevolezza).

Sul primo aspetto, la giurisprudenza della Suprema Corte ha elaborato la teoria dei c.d. “segnali di allarme” di cui l'amministratore deve avere conoscenza, opportunamente specificando che non possa esservi equiparazione tra "conoscenza" e "conoscibilità" dell'evento che si deve impedire – neanche sotto forma di dolo eventuale - attenendo la prima all'area della fattispecie volontaria e la seconda, quale violazione ai doveri di diligenza, all'area della colpa.

La locuzione creata dalla giurisprudenza è dovuta proprio all'eliminazione - con il d.lgs. n. 6/2003 - dello specifico obbligo di vigilanza sugli atti compiuti dall'amministratore delegato alla gestione.

La “presenza di segnali peculiari in relazione all'evento illecito, nonché l'accertamento del grado di anormalità di questi sintomi” (cfr. Cass. pen., sez. V, n. 23000 del 28/05/2013 sopra citata) si spiega bene nei reati, appunto di evento come la bancarotta.

Gli argomenti fin qui spesi attraverso i concetti contenuti nella sentenza della Suprema Corte, attengono, come abbiamo già osservato, a processi per bancarotta fraudolenta (come tutta la giurisprudenza sul punto), ossia a reati di evento.

Non può quindi non considerarsi che, al contrario, il reato di cui trattasi è di mera condotta.

In conclusione

Non è chi non veda che, per quanto abbiamo sopra accennato, circa le fatture oggettivamente o soggettivamente inesistenti che, se utilizzate nella dichiarazione, danno luogo agli elementi fittizi idonei all'evasione fiscale, si pone in modo importante il problema della conoscenza del fatto pregiudizievole. Nel caso di specie la teoria dei “segnali di allarme” evidenzia una chiara inefficacia per la mancanza dell'evento nella struttura dei delitti fiscali.

Il fatto pregiudizievole, infatti diventerebbe un documento fiscale, precisamente una fattura per un'operazione inesistente.

In primo luogo il fatto pregiudizievole quindi in qualche modo “retroagirebbe” rispetto alla condotta vera e propria, e sarebbe in realtà solo “potenzialmente pregiudizievole” in quanto ancora irrilevante ai fini fiscali.

In secondo luogo le fatture sono in genere formalmente corrette.

Ciò porta a concludere che il consigliere non operativo dovrebbe avere piena contezza delle singole operazioni compiute dall'amministratore rappresentate nelle fatture: esse debbono essere realmente avvenute, anche a livello giuridico (ossia non essere oggettivamente simulate), nonché essere rispettivamente emesse e ricevute dai reali soggetti fra cui l'operazione sia intercorsa. Rispetto a quest'ultima ipotesi, ossia alla simulazione soggettiva che determina un'evasione IVA, occorre anche la consapevolezza che il soggetto emittente la fattura non provveda al versamento dell'IVA così che l'avvenuta detrazione dell'imposta da parte della società sia indebita (e quindi configuri anche l'illecito penale).

Tali meccanismi volti a frodare il fisco non si accompagnano necessariamente a sintomi di crisi della società, anzi spesso il risparmio di imposta (sia sotto il profilo dell'abbattimento dell'imponibile che della detrazione dell'IVA) consente all'impresa di restare attiva nel mercato.

Il che sta a significare che il “generale andamento della società”, oggetto di valutazione del consigliere non operativo, non desta alcun aspetto di criticità o di “anomalia”.

Le osservazioni di cui sopra, pur con espresso riferimento all'art. 2, sono riferibili anche agli artt. 3 e 4. Il primo presuppone la simulazione di operazioni (oggettiva o soggettiva), la falsità documentale, ovvero condotte artificiose che determinino una falsa rappresentazione della realtà; il secondo l'inesistenza di elementi passivi esposti in dichiarazione ovvero l'indicazione di elementi attivi inferiori.

Nella prima fattispecie, dunque, il consigliere non delegato dovrebbe essere a conoscenza di fatture emesse sulla base di un contratto simulato ovvero di un'interposizione fittizia di persone o ancora su documenti falsi; nella seconda dovrebbe essere a conoscenza dell'esatta consistenza degli elementi attivi e passivi.

Per avere contezza o “segnali d'allarme” in relazione alle fattispecie in esame, occorre che il soggetto sia addentro alla gestione della società: ciò spiega perché l'art. 110 c.p. sia facilmente applicabile all'amministratore di fatto ed al professionista; forti perplessità, invece, desta con riguardo al consigliere non operativo.

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