Il principio di soccombenza dello Stato nel processo penale: un indennizzo da attività giudiziaria lecita
03 Febbraio 2021
Abstract
Le disposizioni previste dai commi da 1015 a 1022 dell'art. 1 della legge n. 178 del 2020 introducono nell'ordinamento un principio che non è azzardato definire rivoluzionario, quanto meno nella nostra legislazione: per la prima volta, infatti, si riconosce il diritto al rimborso delle spese legali all'imputato assolto con sentenza divenuta definitiva, sia pure limitatamente ad alcune delle formule assolutorie previste dall'art. 530 c.p.p. Nell'articolo che segue l'analisi del testo normativo si affianca all'esame di vari spunti problematici: la qualificazione giuridica del rimborso; le possibili distorsioni conseguenti alla scelta del legislatore di negare tale diritto gli imputati assolti per taluni capi di imputazione e condannati per altri; la ratio dell'esclusione del diritto al rimborso in relazione ad alcune categorie di provvedimenti (decreto o ordinanza di archiviazione, sentenze di non luogo a procedere, di non doversi procedere per estinzione del reato o per improcedibilità dell'azione penale, di assoluzione con formule diverse da quelle espressamente previste dal legislatore); il riconoscimento implicito del diritto anche nei casi in cui l'imputato abbia tenuto condotte processuali negligenti o dilatorie; l'apparente esiguità della somma massima erogabile all'assolto e l'incertezza circa i criteri da applicare per la sua concreta determinazione; il sostanziale silenzio del legislatore sull'autorità competente e sul procedimento finalizzato all'accertamento del diritto al rimborso. Tutti questi aspetti, se non scalfiscono l'innegabile importanza dell'innovazione normativa di cui si tratta, rischiano tuttavia di limitarne l'efficacia o, per altro verso, di disciplinare il diritto in termini che, a seconda dei casi, appaiono eccessivamente ampi o, all'opposto, eccessivamente restrittivi. La disiciplina in sintesi
Con l'approvazione della legge di bilancio (la n. 178 del 30 dicembre 2020), entrata in vigore il 1° gennaio 2021, è stato riconosciuto all'imputato definitivamente assolto con formula piena il diritto ad ottenere dallo Stato il rimborso delle spese sostenute per la propria difesa (art. 1, commi 1015-1022). Le formule assolutorie che consentono l'accesso al rimborso sono: 1) il fatto non sussiste; 2) non aver commesso il fatto; 3) il fatto non costituisce reato; 4) il fatto non è previsto dalla legge come reato.
Il rimborso non è riconosciuto se: a) l'imputato è stato assolto da uno o più capi di imputazione, ma condannato per altri reati; b) se il reato si è estinto per amnistia o prescrizione; c) se i fatti oggetto di imputazione sono stati depenalizzati. Per ottenere il rimborso, l'imputato dovrà presentare la fattura del difensore, con espressa indicazione della causale e dell'avvenuto pagamento, corredata di un parere di congruità del competente Consiglio dell'ordine degli avvocati, nonché di copia della sentenza di assoluzione con attestazione di cancelleria della sua irrevocabilità (purché successiva all'entrata in vigore della novella). Il rimborso non potrà superare i 10.500 euro e sarà corrisposto in tre quote annuali di pari importo, a partire dall'anno successivo a quello in cui la sentenza è divenuta irrevocabile. Quanto percepito non concorrerà alla formazione del reddito ai fini del calcolo delle imposte. Il comma 1021 inserisce, infine, una norma transitoria, prevedendo che le disposizioni in questione si applichino solo alle pronunce di assoluzione passate in giudicato dopo l'entrata in vigore della legge. La natura giuridica
Come suggerisce il termine rimborso, con la norma in commento si intende reintegrare l'imputato delle spese effettuate a seguito di un'attività giudiziaria lecita, ossia avviata e condotta nel pieno rispetto delle regole processuali, ma rivelatasi a posteriori ingiusta perché l'imputato, alla luce delle risultanze acquisite con l'attività processuale, è risultato innocente. Dunque, un ristoro per una forma di ingiusta sostanziale, ma non formale. Detto diversamente, non siamo di fronte ad un risarcimento per un atto illecito, ma ad un indennizzo per un'attività lecita. Altri sono, infatti, gli strumenti per riparare i danni da attività processuale illecita in attuazione delle direttive costituzionali e convenzionali: si pensi all'ingiusta detenzione (artt. 314-315 c.p.p.), all'errore giudiziario (artt. 643-647 c.p.p.), alla responsabilità civile del magistrato (l. n. 117/1988), alla condanna del querelante “colposo” (artt. 427 e 542 c.p.p., nella lettura correttiva di cui alle sentenze della Corte costituzionale n. 180 e 423 del 1993), ma anche agli strumenti offerti dal codice civile in tema di responsabilità aquiliana. L'idea di fondo è che il processo penale, anche se necessario per accertare la sussistenza dei fatti, la loro rilevanza penale e la loro attribuzione all'imputato, e anche se condotto nel pieno rispetto delle regole, comporta inevitabilmente una perdita di denaro per l'imputato, che, salvo le ipotesi di patrocinio a spese dello Stato, dovrà farsi carico delle spese legali a prescindere dall'esito finale, e dunque anche in caso di accertamento (processualmente definitivo) che quel fatto non è avvenuto o che non ha rilevanza penale o che non lo ha commesso. Non ci convince del tutto, quindi, l'opinione di chi ritiene che la riforma sia «riconducibile al noto paradigma del “processo come pena” per cui la vicenda giudiziaria origina di per sé una sofferenza per l'accusato» (così MARANDOLA, Gli assolti con formula piena con sentenza penale irrevocabile avranno diritto al rimborso delle spese legali, in ilPenalista, 21 dicembre 2020), perché, se così fosse, non si tratterebbe di un rimborso ma di un risarcimento, essendo la “sofferenza” un danno, e il parametro di commisurazione non sarebbero le spese legali, ma il pretium doloris, da accertare secondo precisi criteri legati alla durata complessiva del processo, all'attenzione mediatica suscitata dalla vicenda giudiziaria, alle ricadute sul piano lavorativo, ecc., con conseguente onere dell'assolto di provare i danni allegati. Riteniamo più convincente che il legislatore abbia inteso attribuire all'imputato il diritto ad un indennizzo che non ha natura risarcitoria per riparare un torto collegato ad una qualche ipotesi di responsabilità (oggettiva o soggettiva) in capo all'amministrazione della giustizia, bensì carattere assistenziale in senso lato, essendo riconducibile all'art. 2 Cost., ossia alle prestazioni poste a carico dello Stato in ragione del dovere di solidarietà sociale, configurandosi come misura economica di sostegno collegata ad una situazione obiettiva di menomazione patrimoniale derivante da una processo svolto regolarmente e volto all'accertamento della responsabilità dell'imputato nell'interesse della collettività. Mutuando le teorizzazioni della Suprema Corte in tema di ingiusta detenzione (cfr. ex plurimis Cass. pen., sez. II, 19 aprile 1991, n. 2823, in Arch. nuova proc. pen., 1991, p. 410 e in Giur. it., 1991, p. 456; Cass. pen., sez. un., 6 marzo 1992, n. 2, in Giust. pen., 1992, p. 1 e in Cass. pen., 1993, p. 2581; Cass. pen., sez. VI, 18 dicembre 1991, n. 4189, Rv. 189194), possiamo affermare che la sottoposizione a processo, ancorché rivelatasi ingiusta, non è, nè comunque diviene, un fatto illecito generatore di responsabilità aquiliana; l'ingiustizia del processo, infatti, costituisce il necessario presupposto per l'insorgere del diritto al rimborso, la cui fonte va identificata non nelle norme civili in materia di fatto illecito, ma nelle norme che prevedono una responsabilità derivante da un atto legittimo di carattere autoritativo. La posizione del cittadino, ingiustamente processato, costituisce un vero e proprio diritto soggettivo, cui corrisponde l'obbligo dello Stato, correlato ad una prestazione corrispondente al pagamento di una somma di denaro. Trattasi di un rapporto di tipo obbligatorio definibile come "obbligazione pubblica" o di "diritto pubblico", perché la sua fonte non è una di quelle previste dal diritto privato, la cui fattispecie costitutiva non può essere ricondotta ad un'ipotesi di fatto illecito; l'esercizio di un pubblico potere, quale quello che ha determinato la sottoposizione dell'imputato ad un processo penale, non può, infatti, essere qualificato come illecito, ne' sotto il profilo della clausola generale di cui all'art. 2043 c.c., nè sub specie di illecito tipico, stante il suo carattere autoritativo, il quale non viene eliminato a seguito della sentenza di proscioglimento. Si potrebbe, forse, “scomodare” anche l'art. 24 Cost., sostenendo che la consapevolezza di un futuro rimborso delle spese legali in caso di accertata innocenza rimuove, sia pure in modo parziale e retrospettivo, un limite al pieno esercizio del diritto di difesa. Riprova della riconducibilità dell'istituto in esame alla figura dell'indennizzo si ricava anche dall'espressa previsione che esclude la somma rimborsata fra gli introiti che concorrono a formare il reddito tassabile. Riteniamo, infine, che l'insieme di queste considerazioni, e in particolare l'estraneità della fattispecie all'ambito della responsabilità per fatto illecito, portino a individuare il termine di prescrizione del diritto in quello ordinario di dieci anni (art. 2946 c.c.). Le formule assolutorie
Assumendo come ingiusta l'idea che una persona sopporti il peso economico della propria difesa nel processo penale che ne ha accertato l'innocenza, appare corretto che il rimborso di cui si discute sia riconosciuto a chi è stato assolto perché il fatto a lui attribuito non sussiste o perché non lo ha commesso. Si tratta, infatti, di formule di proscioglimento che sanciscono la piena innocenza dell'imputato perché o escludono il verificarsi del fatto penalmente rilevante, anche a livello di tentativo, oppure accertano che il fatto penalmente rilevante non è riconducibile ad una condotta dell'imputato. Qualche dubbio lo suscitano, invece, ma per motivi diversi, le formule “il fatto non costituisce reato” e “il fatto non è previsto dalla legge come reato”. Il legislatore ha scelto di accomunare, sotto il profilo dell'accesso al rimborso, le tradizionali formule in diritto (il fatto non costituisce reato o non è previsto dalla legge come reato) a quelle in fatto (il fatto non sussiste o l'imputato non lo ha commesso), sebbene le prime non siano altrettanto liberatorie. L'affermazione che il fatto non costituisce reato è indubbiamente meno favorevole rispetto alla prova che il fatto non sussiste o che non è stato commesso dall'imputato perché si basa sul riscontro che l'elemento materiale del reato (condotta, nesso causale ed evento) sussiste, ma che ricorre una causa di giustificazione (cfr. Cass. pen., sez. un., 29 maggio 2008, n. 40049, Rv. 240814) oppure che difettano il coefficiente psicologico o altri elementi della fattispecie diversi dal fatto tipico (si pensi, ad esempio, alla qualifica di pubblico ufficiale). La diversità con le precedenti formule, a parte le conseguenze di natura “morale”, si coglie anche nei più favorevoli effetti che gli artt. 652 e 653 c.p.p. connettono al primo tipo di dispositivi nei giudizi civili o amministrativi di risarcimento del danno e nel giudizio disciplinare. Non a caso la giurisprudenza riconosce all'imputato l'interesse all'impugnazione della sentenza di assoluzione, pronunciata con la formula “perché il fatto non costituisce reato”, al fine di ottenere quella più ampia "perché il fatto non sussiste" (cfr. ex multis Cass. pen., sez. V, 29 maggio 2019-4 luglio 2019. n. 29377, Rv. 276524). Venendo all'assoluzione perché il fatto non è previsto dalla legge come reato, la previsione non dovrebbe suscitare perplessità perché si tratta di un'assoluzione che prevale su tutte le altre in quanto accerta che il fatto attribuito all'imputato non trova collocazione sotto nessuna norma penale, o perché mai esistita o perché eliminata dall'ordinamento ad opera del legislatore o della Corte costituzionale. Il sistema sembra perdere coerenza, però, se consideriamo che l'accesso al rimborso è interdetto a coloro che siano stati assolti perché il fatto non è (più) previsto dalla legge come reato a seguito di una depenalizzazione sopravvenuta (rispetto al momento di esercizio dell'azione penale, verrebbe da aggiungere, perché la norma non lo specifica). Ci si potrebbe chiedere perché mai tale eccezione debba operare in caso di ripensamento del legislatore sulla necessità od opportunità di criminalizzare un determinato comportamento e non anche quando sia la Corte costituzionale a eliminare la norma dall'ordinamento dichiarandola illegittima. Si tratta pur sempre di fatti che perdono la loro rilevanza penale durante il processo, in un caso per scelta politica, nel secondo per contrarietà alla Costituzione. La differenza fra le due ipotesi di rimozione della norma incriminatrice, che giustifica un differente trattamento sotto il profilo preso qui in esame, potrebbe essere colta nel fatto che il contrasto ab origine fra norma costituzionale e norma incriminatrice rende illegittimo l'intero processo, mentre il cambio di traiettoria del legislatore ne rende illegittima la prosecuzione. Stante l'equiparazione all'abolitio criminis, il rimborso dovrebbe escludersi anche per chi sia stato assolto a seguito di una sentenza della Corte di Giustizia dell'Unione Europea che abbia accertato l'incompatibilità della norma interna con quella eurounitaria, con conseguente disapplicazione della prima e applicazione diretta della seconda. In questa peculiare ipotesi, però, si potrebbe anche sostenere che l'inapplicabilità della norma incriminatrice risale al momento dell'introduzione della norma sovranazionale incompatibile, con conseguente illegittimità dei processi avviati successivamente. Che se ne pensi della coerenza del sistema, l'assoluzione con la formula in esame consente il rimborso quando il fatto contestato è estraneo al novero dei reati (perché mai previsto come tale o perché la norma incriminatrice è stata depenalizzata prima dell'esercizio dell'azione penale o è stata, prima o dopo, dichiarata costituzionalmente illegittima) oppure è stato qualificato come reato sulla base di una norma incriminatrice entrata in vigore dopo la sua commissione. Poiché l'assoluzione deve essere l'esito di una pronuncia che abbia la forma della sentenza, il rimborso in esame sembra da escludere quando la norma incriminatrice viene dichiarata costituzionalmente illegittima dopo il passaggio in giudicato. In questo caso, infatti, il giudice dell'esecuzione emette un'ordinanza con la quale revoca la sentenza di condanna dichiarando che il fatto non è previsto dalla legge come reato. Va tuttavia osservato che la differenza rispetto allo scenario preso in considerazione dal legislatore per riconoscere il rimborso, ossia la sentenza definitiva di assoluzione, dipende unicamente dai tempi di intervento della Corte costituzionale, che sono del tutto casuali e indipendenti dalle scelte dell'imputato. Inoltre, gli effetti della dichiarazione di illegittimità costituzionale, contrariamente alla funzione svolta dall'abrogazione normativa, colpiscono la norma sin dall'origine, vale a dire ex tunc. È vero che la giurisprudenza individua un limite a tale retroattività nell'esaurimento del rapporto disciplinato dalla norma rimossa, e che in ragione di tale limite la Suprema Corte nega la riparazione per la detenzione qualora la pena sia stata interamente espiata prima della pronuncia della sentenza della Consulta e del conseguente provvedimento del giudice dell'esecuzione (cfr. ex multis Cass. pen., sez. IV, 1° febbraio 2018, n. 12261, Rv. 272346), tuttavia, nella prospettiva indennitaria in cui si colloca la disciplina in commento la condizione dell'imputato “ingiustamente” processato sembra comune ad entrambe le ipotesi e una disomogeneità di disciplina del rimborso potrebbe apparire irragionevole. La disposizione in esame non chiarisce se le formule terminative che aprono la strada al rimborso debbano essere pronunciate all'esito di un accertamento pieno oppure anche in ragione di un dubbio probatorio sulla colpevolezza, ossia quando la prova è insufficiente o contraddittoria, secondo la regola di giudizio consacrata dal capoverso dell'art. 530 c.p. Riteniamo che il ristoro debba essere riconosciuto anche a chi viene assolto con “formula dubitativa”, perché tale regola di giudizio, sorta sulle ceneri della “vecchia” assoluzione per insufficienza di prove, è un precipitato della presunzione di innocenza consacrata nell'art. 27, comma 2, Cost. Ne è riprova il fatto che, nonostante sia ormai invalsa nella prassi l'erronea abitudine di inserire nel dispositivo di assoluzione il riferimento al secondo comma dell'art. 530 c.p., la giurisprudenza di legittimità esclude che l'imputato abbia interesse a proporre impugnazione avverso la sentenza di assoluzione pronunciata per mancanza, insufficienza o contraddittorietà della prova, in quanto tale formulazione non comporta una minore pregnanza della pronuncia assolutoria ai sensi dell'art. 530, comma 1, c.p.p., anche in ordine agli effetti extrapenali (cfr. ex multis Cass. pen., sez. VI, 11 settembre 2018, n. 49554, Rv. 274433). Va rilevato che l'equivalenza processuale della prova positiva dell'innocenza alla prova insufficiente o contraddittoria della colpevolezza si registra anche nell'ingiusta detenzione, in quanto la Suprema Corte riconosce il diritto all'equa riparazione per la custodia cautelare subita a chi è stato prosciolto con sentenza irrevocabile di assoluzione con una delle formule indicate nella prima parte dell'art. 314 c.p.p., senza che assuma rilievo il fatto che l'assoluzione sia stata pronunziata ai sensi del primo o del secondo comma dell'art. 530 c.p.p. (cfr. ex multis Cass. pen., sez. IV, 30 marzo 2004-14 maggio 2004, n. 22924, Rv. 228791). Stante il carattere tassativo delle ipotesi elencate, risultano esclusi dal rimborso delle spese legali gli imputati assolti perché non punibili o non imputabili; tale esclusione vale a maggior ragione nei casi in cui si tratti di pronuncia che non esamina il merito della pretesa accusatoria ma ha natura puramente di rito, in particolare, ad esempio, allorché l'azione penale non sia procedibile per mancanza della querela o per la rilevazione di un bis in idem processuale (fattispecie, queste, che potrebbero semmai rilevare in un contesto risarcitorio o disciplinare a causa dell'esercizio ab origine ingiusto dell'azione penale). Qualche dubbio suscita, invece, l'esclusione del proscioglimento per errore sull'identità fisica dell'imputato (artt. 68 e 129 c.p.p.), trattandosi di decisione che rileva l'ingiustizia sostanziale del processo alla stregua del non aver commesso il fatto, di cui potrebbe considerarsi una sottospecie. Le esclusioni. Il dispositivo composito
Il comma 1018 stabilisce che il rimborso delle spese legali non è riconosciuto all'imputato che sia stato assolto da uno o più capi di imputazione e condannato per altri reati. In sostanza, nei processi con imputazioni oggettivamente complesse un dispositivo composito impedisce l'accesso al rimborso. La ratio della previsione risiede nell'idea che la condanna, anche per uno solo dei reati oggetto di imputazione, rivela che la pretesa punitiva dello Stato è stata esercitata giustamente e che il processo era dovuto, con la conseguenza che l'imputato deve sopportare in proprio le spese sostenute per la sua difesa. A prima lettura, la previsione, apparentemente cristallina e comprensibile, si espone ad una considerazione critica e suscita un dubbio interpretativo. La critica riguarda l'automatismo dell'esclusione, che impedisce il rimborso nei casi in cui l'imputato sopporta i costi economici della propria difesa a fronte di una “sostanziale” innocenza. Ci riferiamo ai soggetti condannati per un reato bagatellare e assolti per delitti ben più gravi oggetto di un'unica imputazione. Si pensi, ad esempio, ad un soggetto accusato di associazione per delinquere, di numerosi reati-fine (sfruttamento e favoreggiamento della prostituzione, vendita di sostanze stupefacenti, ecc.) e di porto ingiustificato di un coltello, casualmente ritrovato sulla sua persona all'esito di una perquisizione eseguita nell'ambito delle indagini svolte sui delitti principali. In questo caso, l'accertata estraneità totale ai delitti non varrà all'imputato il rimborso delle spese legali sostenute nel processo qualora fosse condannato per la contravvenzione in materia di armi, nonostante che, come spesso accade nella prassi, l'inserimento di tale contestazione nell'imputazione complessiva non derivi da alcuna connessione con le fattispecie che sostanziano l'oggetto dell'indagine ma sia frutto di una pura casualità. L'irragionevolezza della soluzione emerge ancora più forte se si pensa che un diverso ufficio di Procura potrebbe scegliere, forse più correttamente, di procedere separatamente per la contravvenzione, magari chiedendo l'emissione di un decreto penale di condanna. Si tratta di una stortura difficilmente evitabile attraverso una rimodulazione dell'istituto in esame, ma che dovrebbe far ripensare la prassi delle “imputazioni calderone” seguita da certi uffici di Procura. Il dubbio interpretativo, invece, riguarda le ipotesi di assoluzione totale ma con formule terminative miste, alcune delle quali non consentono il rimborso: si pensi, ad esempio, ad un imputato definitivamente assolto dall'imputazione di più reati, alcuni perché il fatto non sussiste, altri per non aver commesso il fatto e altri ancora perché non punibile in ragione della particolare tenuità del fatto. Dalla disposizione in commento ci sembra di poter desumere che il legislatore non abbia voluto accordare rimborsi pro-quota, di talché, come una sola condanna, anche per un fatto di scarsa rilevanza, a fronte di plurime, contestuali assoluzioni, impedisce il rimborso, così dovrebbe avvenire in caso di plurime assoluzioni, di cui anche una soltanto con una formula che esula da quelle tassativamente indicate. Se questa fosse la lettura corretta, dovrebbe essere riconosciuto all'imputato l'interesse ad impugnare la sentenza che lo abbia assolto (anche) con formula preclusiva per ottenere una diversa formula che gli consenta il rimborso delle spese legali. Altra ipotesi esclusa dal rimborso è l'estinzione del reato per avvenuta amnistia o prescrizione. Apparentemente questa previsione non suscita perplessità. In assenza di una accertamento di innocenza, consacrato in una sentenza di assoluzione pronunciata con una delle formule terminative di cui si è già detto, è coerente con la ratio dell'istituto che il rimborso non sia accordato a chi viene prosciolto per improcedibilità dovuta all'estinzione del reato. Del resto, come chiarito a più riprese dalla Suprema Corte, in presenza di una causa di estinzione del reato il giudice è legittimato a pronunciare sentenza di assoluzione a norma dell'art. 129, comma 2, c.p.p. soltanto nei casi in cui le circostanze idonee ad escludere l'esistenza del fatto, la commissione del medesimo da parte dell'imputato e la sua rilevanza penale emergano dagli atti in modo assolutamente non contestabile, così che la valutazione che il giudice deve compiere al riguardo appartenga più al concetto di "constatazione", ossia di percezione ictu oculi, che a quello di "apprezzamento" e sia quindi incompatibile con qualsiasi necessità di accertamento o di approfondimento (cfr. ex multis Cass. pen., sez. un., 28 maggio 2009, n. 35490, in Guida dir., 2009, 39, p. 67, con nota di Natalini, Due i casi in cui il proscioglimento nel merito prevale sulla causa estintiva del reato. Il richiamo al canone dell'economia processuale tiene conto del bilanciamento tra opposte esigenze, in Corr. merito, 2009, p. 1247, con nota di Piccialli, La declaratoria delle cause di non punibilità ed il proscioglimento nel merito, in Cass. pen., 2010, p. 4091, con nota di Beltrani, Estinzione del reato e assoluzione nel giudizio di impugnazione; cfr. da ultimo Cass. pen., sez. VI, 22 marzo 2018, n. 27725, Rv. 273679). I dubbi interpretativi nascono dalla constatazione che il legislatore aveva già indicato al comma 1015 le formule di proscioglimento che consentono il rimborso, di talché la previsione in esame dovrebbe essere superflua. Tuttavia, il riferimento espresso a due specifiche cause estintive (il decorso del tempo e il provvedimento di clemenza) lascia il dubbio che per le altre cause estintive (l'oblazione nelle contravvenzioni, la remissione della querela accettata dall'imputato, l'esito positivo della messa alla prova, il pagamento dell'obbligazione nell'insolvenza fraudolenta, le condotte riparatorie, lo svolgimento positivo dei lavori sostitutivi di pubblica utilità nelle contravvenzioni stradali, ecc.) si sia voluta aprire la strada al rimborso, introducendo un'ulteriore classe di sentenze-presupposto. La soluzione ci pare da scartare perché le sentenze di non doversi precedere sono pronunce che accertano l'impossibilità del processo di andare avanti col conseguente divieto del giudice di statuire sul merito dell'imputazione. Proprio la mancanza di una decisione sulla responsabilità dell'imputato non consente di considerare ingiusto il processo nell'ottica di una ristorazione economica del suo protagonista. Del resto, la limitazione del diritto al rimborso ai soli casi di assoluzione è sancita in termini talmente inequivoci da non permettere dubbi di sorta in proposito. Piuttosto, deve osservarsi che, nell'ambito della categoria delle sentenze di improcedibilità, quelle adottate ai sensi dell'art. 531 c.p.p., fra le quali rientrano la prescrizione del reato e l'amnistia, non discendono dall'impossibilità del processo di andare avanti, ma da ragioni di economia processuale (sull'assenza di ragioni apprezzabili, se non l'ossequio alla tradizione, per collocare le sentenze di non doversi procedere per intervenuta estinzione del reato fra quelle di non doversi procedere anziché fra quelle di assoluzione, si veda Marzaduri, Art. 531, in Chiavario (a cura di), Commentario al nuovo codice di procedura penale, vol. V, Torino, 1991, p. 535). Ne è riprova il fatto che l'imputato potrebbe rinunciare alla prescrizione o all'amnistia puntando all'assoluzione con formula pienamente liberatoria, scelta che invece gli è preclusa, ad esempio, in caso di mancanza della querela. Dunque, pur non essendovi ragioni per tracciare una distinzione all'interno della categoria delle sentenze di non doversi procedere, si è scelto di farlo esplicando la preclusione al rimborso con riferimento alle ipotesi di improcedibilità più assimilabili alle pronunce assolutorie. Forse il legislatore ha voluto evitare sul nascere letture creative basate sulla peculiare natura delle pronunce adottate in caso di estinzione del reato; ma solo nei casi di prescrizione o amnistia, per non infierire troppo sulla libertà degli interpreti. Resta unicamente da precisare, a completamento dell'esame di tali categorie di pronunce, che non è assimilabile al caso appena analizzato quello in cui l'azione penale abbia preso forma per un reato già ab origine caduto in prescrizione. In tale ipotesi, infatti, contrariamente all'altra fattispecie, è ravvisabile un vizio originario nell'instaurazione del processo tale da rendere quest'ultimo a priori ingiusto. Se dunque entrambi i casi sono accomunati dall'inidoneità a generare il diritto al rimborso previsto dalla legge 178/2020, è anche evidente che ciò accade per ragioni opposte: nel caso del reato che si prescrive nel corso del processo, infatti, appare evidente che quest'ultimo non presenta alcun carattere di ingiustizia originaria né sopravvenuta; nell'altro caso, invece, tale profilo di intrinseca ed originaria ingiustizia sussiste e può dunque generare, ricorrendone i presupposti, una fattispecie di responsabilità aquiliana e disciplinare. In assenza di una previsione espressa, deve ritenersi che il rimborso in esame, a differenza dell'equa riparazione per l'ingiusta detenzione, non possa essere riconosciuto in caso di archiviazione del procedimento o di udienza preliminare conclusasi con sentenza di non luogo a procedere, nonostante non si possa negare che meriti il rimborso delle spese legali anche chi sia stato ingiustamente sottoposto ad indagine o a udienza preliminare. Sul piano giuridico, l'esclusione del decreto e dell'ordinanza di archiviazione non pone particolari problemi, perché si tratta di provvedimenti sempre revocabili sulla base dell'evanescente presupposto della sopravvenuta esigenza di compiere nuove investigazioni (art. 414 c.p.p.). La seconda ipotesi è, invece, più delicata, sia perché le formule terminative della sentenza di non luogo a procedere possono coincidere con quelle della sentenza assolutoria, sia perché anche la sentenza in esame può raggiungere una certa stabilità quando non più soggetta ad impugnazione. In tali casi residua la possibilità di revoca (artt. 434 ss. c.p.p.), ma forse si sarebbe potuto pensare ad un meccanismo per evitare che l'interessato conseguisse una indebita locupletazione, ad esempio recuperando la soluzione elaborata dalla Suprema Corte in tema di ingiusta detenzione (cfr. Cass. pen., sez. un., 10 luglio 2008-, n. 31416, Rv. 240113, secondo la quale, al fine di evitare un indebito arricchimento, il giudice investito della richiesta di riparazione può sospendere il relativo procedimento oppure, ove la somma liquidata a titolo di riparazione sia stata già corrisposta, lo Stato può agire per il suo recupero esperendo l'azione di ingiustificato arricchimento di cui all'art. 2041 c.c.). Altro tratto distintivo rispetto alla riparazione dell'ingiusta detenzione si coglie nell'irrilevanza che il nuovo meccanismo accorda al contributo soggettivo. Invero, stando alla formulazione nelle nuove disposizioni, il rimborso è dovuto a prescindere che l'imputato, con il suo comportamento, abbia contribuito alla celebrazione di un processo ingiusto, anche quando tale contegno è stato tenuto con dolo o colpa grave. Si pensi, per fare un esempio, ad un soggetto che riceva un avviso di conclusione delle indagini preliminari dal quale apprende di essere indagato per il reato di cui all'art. 570 c.p. per non aver mai corrisposto ai figli minorenni la somma stabilita dal Tribunale a titolo di mantenimento. Se tale soggetto fosse assolto perché il fatto non sussiste a seguito della produzione in giudizio della documentazione comprovante gli avvenuti pagamenti, il rimborso delle spese legali gli sarebbe dovuto anche se il processo si sarebbe potuto evitare fornendo la predetta documentazione al Pubblico Ministero per indurlo a richiedere l'archiviazione del procedimento. Pur nella consapevolezza dei delicati ed incerti confini con l'esercizio del diritto di difesa, la scelta del legislatore ci sembra quantomeno discutibile. Il principio solidaristico che informa l'istituto in analisi dovrebbe trovare il suo naturale contemperamento nel dovere di responsabilità che incombe in capo a tutti i consociati, i quali non dovrebbero poter invocare benefici per essere ristorati di perdite economiche da essi stessi cagionate, quantomeno quando si tratta di comportamenti dolosi o gravemente colposi. I rapporti con la soccombenza del querelante
La disciplina che stiamo commentando non regola espressamente i rapporti fra il rimborso delle spese legali a carico dello Stato e quello addebitato al querelante soccombente. L'art. 542 c.p.p., richiamando l'art. 427 c.p.p., prevede che il giudice, in caso di assoluzione perché il fatto non sussiste o perché l'imputato non lo ha commesso, quando si tratta di reato procedibile a querela, possa condannare il querelante alla rifusione delle spese in favore dell'imputato. Quando ciò avvenga, l'imputato non può rivolgersi allo Stato per ottenere il rimborso in esame perché altrimenti un istituto che si fonda su istanze solidaristiche si risolverebbe in uno strumento di indebito arricchimento. Del resto, essendo il rimborso subordinato alla presentazione della fattura del difensore, con espressa indicazione della causale e dell'avvenuto pagamento, il rischio di una duplicazione di pagamenti dovrebbe essere scongiurato. Piuttosto, occorre rilevare che la condanna del querelante al rimborso delle spese presuppone necessariamente la domanda dell'imputato, la cui mancanza non può essere sostituita neppure dalla richiesta del Pubblico Ministero (cfr. ex multis Cass. pen., sez. V, 21 giugno 2011, n. 42102, Rv. 251702). Quid iuris se l'imputato non si avvale di tale facoltà e si rivolge allo Stato per ottenere il rimborso? Forse sarebbe stato più razionale un meccanismo che, con specifico riferimento ai processi aventi ad oggetto reati procedibili a querela, subordinasse l'intervento dello Stato nel rimborso delle spese legali al rigetto della richiesta di condanna del querelante. Il legislatore ha fissato un tetto massimo al rimborso delle spese legali pari a 10.500 euro. La constatazione che l'istituto non ha una finalità risarcitoria ma restitutoria spiega le ragioni di una limitazione della somma erogabile. Scopo del rimborso, infatti, non è quello di riparare, attraverso il pagamento di una somma di denaro, tutte le conseguenze immediatamente e direttamente causate al soggetto dal processo penale, ma compensare quest'ultimo delle spese legali ingiustamente sostenute. Ciò detto, non può tacersi che si tratta di una somma esigua, che in alcuni casi rischia di non essere un serio ristoro. Si pensi, ad esempio, ad un soggetto che sia stato definitivamente assolto con proscioglimento pieno in sede di giudizio di rinvio o di revisione, dopo aver affrontato più gradi di merito e un giudizio di legittimità, magari nell'ambito di un giudizio ordinario dinanzi alla Corte di assise, affrontato in stato di detenzione cautelare rispetto al quale sono stati attivati plurimi giudizi incidentali. In tali ipotesi, tutt'altro che peregrine nella prassi, è sufficiente spulciare i criteri tabellari per la liquidazione degli onorari degli avvocati per comprendere che la cifra massima rimborsabile avrebbe il sapore di un ristoro simbolico. Ci pare che il contemperamento fra le innegabili esigenze di carattere finanziario che condizionano l'agire del legislatore e le altrettanto rilevanti esigenze di tutela dell'imputato ingiustamente processato sia stato risolto con eccessivo sbilanciamento in favore delle prime. Si aggiunga che non è stato chiarito se nel concetto di “spese legali” rientrino anche quelle sostenute per retribuire gli ausiliari del difensore (consulenti tecnici, investigatori privati, ecc.) e non è stato previsto un meccanismo di rivalutazione che metta la somma fissata al riparo dagli effetti della svalutazione monetaria. Nel caso, assai frequente nella prassi, di avvicendamento di più difensori, riteniamo che, ricorrendone tutte le condizioni, l'imputato possa chiedere il rimborso delle spese legali sostenute per ciascun professionista, fermo rimanendo, però, il tetto massimo complessivo di 10.500 euro. La disciplina in esame prevede che la fattura del difensore con l'attestazione di pagamento sia corredata da un parere di congruità del competente Consiglio dell'ordine degli avvocati. Sul punto va detto che il parere di congruità è un istituto legato al vecchio sistema tariffario abrogato con la l. 247/2012. Nell'attuale sistema il compenso spettante all'avvocato è di regola determinato preventivamente mediante accordo scritto con il cliente; in mancanza di tale accordo, il compenso deve essere quantificato in base ai parametri definiti dal decreto ministeriale di cui all'art. 13 della l. 247/2012. A prima lettura si potrebbe sostenere che il parere di congruità mantenga la sua utilità solo quando il compenso deve essere determinato in base all'attuale sistema tariffario; ed infatti il comma 9 dell'art. 13 l. 247/2012 prevede che, in mancanza di un accordo tra avvocato e cliente, il Consiglio possa rilasciare un parere sulla congruità della pretesa del difensore in relazione all'opera prestata. Tuttavia, poiché la normativa in tema di rimborso non specifica al riguardo, potrebbe sostenersi che il Consiglio dell'ordine possa valutare la congruità del compenso anche quando è stato liberamente pattuito dalle parti. In tali casi si pone il problema di individuare i parametri di riferimento di quello che, altrimenti, sarebbe un giudizio arbitrario. Al di là di concetti evanescenti come l'importanza e la complessità dell'opera defensionale, vi è il concreto rischio che entrino dalla finestra del parere di congruità quei parametri ministeriali che l'autonomia negoziale delle parti aveva escluso in sede di pattuizione del contratto di assistenza difensiva. La disciplina in esame è piuttosto laconica e lacunosa sul punto. Ad esempio, non indica quale sia l'autorità competente all'erogazione del contributo, quali siano i tempi e le modalità di presentazione della richiesta, quali siano gli oneri probatori delle parti e i poteri istruttori dell'autorità decidente, quali siano i criteri di quantificazione della somma erogata e non precisa se fra i soggetti legittimati vi siano anche gli eredi dell'imputato deceduto dopo il passaggio in giudicato della sentenza assolutoria. Particolarmente grave ci sembra la prima delle lacune appena segnalate, essendo indeterminato il potere stesso dello Stato (esecutivo o giudiziario) cui sia riconducibile il compito di accertare il diritto ed erogare il rimborso. Ma anche l'inesistenza di disposizioni che disciplinino sia pure sommariamente il procedimento è, all'evidenza, destinata a creare gravissime difficoltà applicative. Va detto che il legislatore fa espresso rinvio ad un emanando decreto interministeriale, ma solo per definire “i criteri e le modalità di erogazione dei rimborsi”, nonché le ulteriori disposizioni necessarie a contenere la spesa nei limiti della dotazione massima del fondo appositamente istituto nello stato di previsione del Ministero della giustizia, “attribuendo rilievo al numero di gradi di giudizio cui l'assolto è stato sottoposto e alla durata del giudizio”. Nonostante l'involuzione linguistica, pare di comprendere che il decreto dovrà stabile i criteri di quantificazione delle spese rimborsabili che tengano conto della durata complessiva del processo e dei gradi di giudizio in cui si è articolato. È auspicabile che attraverso la definizione delle “modalità di erogazione” siano chiariti anche gli aspetti evidenziati in apertura, pur apparendo arduo ritenere che l'ambito di applicazione del decreto interministeriale, per come delineato dal legislatore, possa investire anche il tema dell'individuazione dell'autorità competente (profilo questo per il quale potrebbe dunque sorgere la necessità di un ulteriore intervento legislativo). Detto questo, ci preme comunque sottolineare che i due criteri individuati dal legislatore – numero dei gradi e durata del giudizio – non sono gli unici rilevanti per stabilire l'entità delle spese legali, che, a prescindere dalla durata e dall'articolazione in più gradi del processo, può dipendere anche, e soprattutto, dalla complessità dell'istruzione probatoria (numero di testimoni e documenti da esaminare, necessità di svolgere complesse consulenze, ecc.) e dell'imputazione (numero e tipologia di reati contestati). In conclusione
Al termine di questa disamina ci pare dunque di poter ribadire quanto detto in apertura, ossia che, norme alla mano, è ravvisabile una sorta di frattura fra la portata profondamente innovativa del principio introdotto dal legislatore e certi gravi “imbarazzi” interpretativi e applicativi con i quali si è costretti a confrontarsi. Da un lato, infatti, ci sentiamo di riconoscere che l'intervento del legislatore sia mosso da un intento di giustizia sostanziale senza dubbio meritevole di tutela, apparendo fondamentalmente iniquo addossare all'imputato l'onere delle spese legali quando la pretesa punitiva dello Stato nei suoi confronti si sia, per quanto a posteriori, rivelata infondata. Certo è che i dubbi interpretativi non mancano e che, sopra ogni altra cosa, lascia perplessi l'approssimazione del legislatore nel disciplinare gli aspetti procedurali e dunque i meccanismi per rendere effettivo il diritto al rimborso: sancire infatti un diritto omettendo di determinare non solo e non tanto il modo per esercitarlo (per il quale è pur sempre previsto l'intervento di un atto di normazione secondaria) ma la stessa autorità competente rischia di svuotare del tutto la tutela apprestata dall'ordinamento. |