Assegno di mantenimento del coniuge nei procedimenti di separazione e divorzio. Quali differenze?

26 Febbraio 2021

L'attribuzione dell'assegno di mantenimento va ancorata alla mancanza di “redditi propri” adeguati al mantenimento di un tenore di vita tendenzialmente analogo a quello goduto in costanza di convivenza matrimoniale da parte del consorte richiedente l'assegno, a cui ovviamente non sia stata addebitata la responsabilità della separazione.
Massima

In considerazione della permanenza del vincolo coniugale e dei doveri di solidarietà e di assistenza reciproca sussistenti in capo ai coniugi, l'attribuzione dell'assegno di mantenimento va ancorata alla mancanza di “redditi propri” adeguati al mantenimento di un tenore di vita tendenzialmente analogo a quello goduto in costanza di convivenza matrimoniale da parte del consorte richiedente l'assegno, a cui ovviamente non sia stata addebitata la responsabilità della separazione.

Il caso

La pronuncia giudiziale in oggetto riguarda la separazione giudiziale di coniugi nella quale la ricorrente aveva chiesto l'addebito della separazione nei confronti del marito, nonché un assegno di mantenimento in suo favore. La coppia non aveva avuto figli ed ha convissuto per circa 13 anni.

La questione

Fermo restando la diversità dei criteri sussistenti nella determinazione tanto nell'an che nel quantum circa l'assegno di mantenimento nei procedimenti in materia di separazione e divorzio, occorre interrogarsi se nel concreto caso sia stato fatto buon uso dell'interpretazione nomofilattica della Suprema Corte, la tenuta nella prassi interpretativa dei criteri enunciati in astratto dal giudice di legittimità e, fino a quando la distinzione e la discrepanza dei valori e dei criteri richiamati nell'ambito di tali distinti procedimenti possa essere giustificata in una prospettiva evolutiva e de iure condendo.

Le soluzioni giuridiche

Il Tribunale ha sicuramente enunciato in maniera chiara e precisa i distinguo tra i criteri che devono essere adottati nella valutazione circa la sussistenza e la determinazione dell'assegno di mantenimento in favore del coniuge, rispetto all'assegno divorzile per come enunciati dalla Suprema Corte nelle ultime recenti sentenze che, peraltro, hanno ancor più divaricato i parametri entro cui configurare i due diversi ristori patrimoniali a causa del disfacimento della vita coniugale.

Osservazioni

Nel procedimento di separazione personale il riferimento normativo è l'art.156 c.c.: «il giudice pronunziando la separazione, stabilisce a vantaggio del coniuge cui non sia addebitabile la separazione il diritto di ricevere dall'altro coniuge quanto è necessario al suo mantenimento, qualora egli non abbia adeguati redditi propri. L'entità di tale somministrazione è determinata in relazione alle circostanze e ai redditi dell'obbligato».

Da un lato, quindi, i presupposti fondanti l'assegno di mantenimento sono sostanzialmente due: la mancanza di responsabilità nella cessazione della convivenza coniugale e la mancanza di adeguati redditi propri. Dall'altro, una volta verificatisi detti presupposti, il quantum è determinato in relazione alle circostanze ed in proporzione ai redditi dell'obbligato.

Nel procedimento divorzile, a sua volta, l'art.5 comma 6 della l.898/1970 prevede che: «con la sentenza che pronuncia lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, il tribunale, tenuto conto delle condizioni dei coniugi, delle ragioni della decisione, del contributo personale ed economico dato da ciascuno alla conduzione familiare ed alla formazione del patrimonio di ciascuno o di quello comune, del reddito di entrambi, e valutati tutti i suddetti elementi anche in rapporto alla durata del matrimonio, dispone l'obbligo per un coniuge di somministrare periodicamente a favore dell'altro un assegno quando quest'ultimo non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive».

Sotto tale profilo la Suprema Corte ha evidenziato i criteri discretivi posti alla base dei due diversi istituti partendo da una interpretazione storica e dalla ratio del legislatore che vede nella separazione personale una fase necessariamente transitoria, destinata comunque a chiudersi nella conciliazione, in caso di riappacificazione dei coniugi, ovvero ad essere superata ed assorbita nel divorzio in presenza dei presupposti normativamente previsti. Ed è ovvio che tale istituto risente di una concezione storica ormai non più al passo con i tempi ove il fine conciliativo era perseguito più della definitiva rottura del consorzio coniugale. E ciò all'evidenza in un progressivo distacco con la realtà sociale ove vieppiù minori sono i casi in cui una volta intrapresa la strada della separazione personale i coniugi decidono di riprendere la convivenza.

La Suprema Corte ha, infatti, esaltato le diverse funzioni svolte dai due istituti e la ratio perseguita dal legislatore: «La determinazione dell'assegno di divorzio, alla stregua dell'art. 5 della legge 1 dicembre 1970 n. 898, modificato dall'art. 10 della legge 6 marzo 1987 n. 74, è indipendente dalle statuizioni patrimoniali operanti, per accordo tra le parti e in virtù di decisione giudiziale, in vigenza di separazione dei coniugi, poiché, data la diversità delle discipline sostanziali, della natura, struttura e finalità dei relativi trattamenti, correlate e diversificate situazioni, e delle rispettive decisioni giudiziali, l'assegno divorzile, presupponendo lo scioglimento del matrimonio, prescinde dagli obblighi di mantenimento e di alimenti, operanti nel regime di convivenza e di separazione, e costituisce effetto diretto della pronuncia di divorzio, con la conseguenza che l'assetto economico relativo alla separazione può rappresentare mero indice di riferimento nella misura in cui appaia idoneo a fornire utili elementi di valutazione»(cfr., Cass. Civ. n.25010/2007; Cass. Civ., 11575/2001).

Invero, la separazione personale, a differenza dello scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio, presuppone la permanenza del vincolo coniugale, sicché i redditi adeguati cui va rapportato, ai sensi dell'art. 156 c.c., l'assegno di mantenimento a favore del coniuge, in assenza della condizione ostativa dell'addebito, sono quelli necessari a mantenere il tenore di vita goduto in costanza di matrimonio, essendo ancora attuale il dovere di assistenza materiale, che non presenta alcuna incompatibilità con tale situazione temporanea, dalla quale deriva solo la sospensione degli obblighi di natura personale di fedeltà, convivenza e collaborazione, e che ha una consistenza ben diversa dalla solidarietà post-coniugale, presupposto dell'assegno di divorzio (cfr., Cass. civ., n.12196/2017).

Tranciante, peraltro, diventa la distinzione operata a seguito della famosa sentenza a Sezioni Unite (Cass. n. 18287/2018), che nel tentativo di comporre la frattura operata dalle precedenti pronunce (cfr. Cass. civ., 09 ottobre 2017, n. 23602; Cass. civ., 22 giugno 2017, n. 15481; Cass. civ., 10 maggio 2017, n. 11504) che hanno introdotto il principio di autoresponsabilità, alla luce di una lettura costituzionalmente orientata, ha dato rilevanza al contributo fornito alla conduzione della vita familiare da parte di ambo i coniugi che costituisce il frutto di decisioni comuni di entrambi, libere e responsabili, che possono incidere anche profondamente sul profilo economico patrimoniale di ciascuno di essi dopo la fine dell'unione matrimoniale. Sicchè, al fine del calcolo dell'assegno di divorzio di cui all'art.5 della l.1 dicembre 1970, n.898, occorre tenere in considerazione non il tenore di vita, ma diversi fattori, attraverso un criterio c.d. composito che, alla luce della valutazione comparative delle rispettive condizioni economico-patrimoniali, dia particolare rilievo al contributo fornito dall'ex coniuge richiedente alla formazione del patrimonio comune e personale, in relazione alla durata del matrimonio, alle potenzialità reddituali future ed all'età dell'avente diritto.

In particolare, la Suprema Corte, superando il precedente orientamento fondato sul principio di autoresponsabilità e autodeterminazione in ragione della scissione definitiva del rapporto coniugale, afferma che, «il riconoscimento dell'assegno di divorzio in favore dell'ex coniuge, cui deve attribuirsi una funzione assistenziale ed in pari misura compensativa e perequativa, ai sensi dell'art. 5, comma 6, della l. n. 898 del 1970, richiede l'accertamento dell'inadeguatezza dei mezzi dell'ex coniuge istante, e dell'impossibilità di procurarseli per ragioni oggettive, applicandosi i criteri equiordinati di cui alla prima parte della norma, i quali costituiscono il parametro cui occorre attenersi per decidere sia sulla attribuzione sia sulla quantificazione dell'assegno. Il giudizio dovrà essere espresso, in particolare, alla luce di una valutazione comparativa delle condizioni economico-patrimoniali delle parti, in considerazione del contributo fornito dal richiedente alla conduzione della vita familiare ed alla formazione del patrimonio comune, nonché di quello personale di ciascuno degli ex coniugi, in relazione alla durata del matrimonio ed all'età dell'avente diritto»(Cass. civ., n.18287/2018). Pertanto, all'assegno divorzile in favore dell'ex coniuge deve attribuirsi, oltre alla natura assistenziale, anche natura perequativo-compensativa, che discende direttamente dalla declinazione del principio costituzionale di solidarietà, e conduce al riconoscimento di un contributo volto a consentire al coniuge richiedente non il conseguimento dell'autosufficienza economica sulla base di un parametro astratto, bensì il raggiungimento in concreto di un livello reddituale adeguato al contributo fornito nella realizzazione della vita familiare, in particolare tenendo conto delle aspettative professionali sacrificate (Cass. civ., n.18287/2018).

Alla luce del quadro interpretativo sopra evidenziato, il Tribunale di Bergamo ha fatto buon uso delle differenze sussistenti tra i due istituti evidenziando le inadeguate condizioni economiche della coniuge richiedente, la quale non ha mai lavorato durante il periodo di convivenza coniugale se non per un breve periodo e la indiretta volontà dell'altro coniuge di provvedere interamente alle spese del nucleo familiare e al sostentamento della moglie, in considerazione della durata del matrimonio. E tuttavia, preso atto della evidente sproporzione delle capacità lavorative e reddituale di entrambi i coniugi, in relazione alle condizioni reddituali del marito, il Tribunale, a mio avviso, ha omesso di considerare, da un lato, le specifiche capacità lavorative della ricorrente e le sue attitudini e le opportunità concrete di entrare nel mondo del lavoro, in relazione all'età, alla formazione professionale e alle esperienze lavorative pregresse, nonché, ha omesso di valutare l'entità ed il tipo di contributo apportato alla formazione del patrimonio dell'altro coniuge quale elemento valutabile al fine di stabilire l'importo dell'assegno di mantenimento (si veda, Cass. civ., n. 25618/2007).

Ed infatti, in una prospettiva evolutiva, è necessario esaltare quest'ultimo criterio evidenziato dal recente orientamento della Cassazione in materia di assegno divorzile, fondato sul principio di autoresponsabilità e di autodeterminazione, quale scelta consapevole dei coniugi nell'ambito dei ruoli ricoperti nel rapporto coniugale che incide sulle rispettive capacità lavorative e reddituali nella prospettiva di un programma comune di vita che, tuttavia, nel tempo si è disciolto e non è stato realizzato, o è stato realizzato solo parzialmente. Sicchè, la diversità di ruoli in funzione dell'educazione dei figli, nel caso di specie, peraltro, non presenti, e l'apporto conseguente che ciò determina nella formazione del patrimonio familiare o dell'altro coniuge sono fattori che vanno valutati sia in sede di separazione personale che in sede divorzile, in quanto, nel primo caso, è espressione di un rapporto coniugale non ancora del tutto disgregatosi, in cui risultano sospesi solo gli obblighi di natura personale di fedeltà, convivenza e collaborazione, ma non il dovere di assistenza materiale, nel secondo, esalta quella funzione perequativo-compensativa svolta dall'assegno divorzile in chiave solidaristica alla luce di una lettura costituzionalmente orientata dei parametri normativi previsti.

In una prospettiva futura e che tiene conto del tessuto sociale e dell'evoluzione della società civile, a mio avviso, se, da un lato, appare ancora evidente la differenza normativa e di ratio tra i due istituti, dall'altro, l'operatore, l'interprete ed il giudice di legittimità non può che constatare la progressiva necessaria osmosi nei criteri e nella valutazione circa la sussistenza dei relativi presupposti, non foss'altro perché la l. n. 55/2015 ha accorciato le distanze tra i due procedimenti (dodici mesi dall'avvenuta comparizione dei coniugi innanzi al presidente del tribunale nella procedura di separazione personale e sei mesi nel caso di separazione consensuale), incidendo in maniera rilevante sia sotto il profilo sostanziale che organizzativo sulla gestione dei predetti procedimenti e sulle relative valutazioni decisionali del giudice di merito.

Sicché, viene sommessamente da chiedersi l'utilità di tenere distinti i due procedimenti de iure condendo, ovvero fino a quanto il sistema normativo sarà in grado di mantenere questa distinzione sotto i colpi incessanti dell'evoluzione sociale.

Riferimenti

I. Grimaldi, P. Corder, (a cura di), Trattato Operativo di Diritto di Famiglia, Rimini, 2017

B. De Filippis, La separazione personale dei coniugi ed il divorzio, Milano, 2012.

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