Il segreto professionale dell'avvocato: sulla "ragionevole prevedibilità"

Ferdinando Brizzi
01 Marzo 2021

Mentre la Corte Edu ritiene inviolabile il rapporto avvocato-cliente, e ciò sulla base di una valutazione effettuata ex ante, in Italia si possono intercettare le conversazioni tra legale ed assistito e ciò sulla base di valutazioni effettuate ex post…
Massima

Viola l'art. 8 CEDU l'assenza di una legge sufficientemente chiara volta a disciplinare con precisione la procedura con cui deve procedersi al sequestro e alla perquisizione dei dati presenti all'interno di un cellulare allorquando taluni di questi siano coperti da segreto professionale. Tali sono le conversazioni fra cliente e avvocato il cui contenuto deve rimanere strettamente confidenziale.

Il caso

Il ricorrente, un cittadino norvegese parte lesa in un procedimento penale, lamentava che il sequestro e la perquisizione del suo cellulare da parte della polizia avesse consentito l'accesso anche alla corrispondenza intercorsa con il suo avvocato e riferita ad un altro procedimento penale pendente in cui egli, invece, era un “sospettato”.

In particolare, il ricorrente si doleva del fatto che, in accordo con una sopravvenuta pronuncia della Suprema Corte norvegese, il filtraggio e la selezione dei dati da perquisire e sequestrare, escludendo quelli coperti da segreto professionale, fosse stata affidata alla polizia, in assenza di qualunque controllo o giudizio da parte di una Corte, così violando l'art. 8 CEDU e, quindi, il suo diritto al rispetto della vita privata e familiare, della sua casa e della sua corrispondenza.

La questione

La questione centrale del ricorso riguardava il c.d. privilegio avvocato-cliente, originato da una controversia legale sullo smartphone del ricorrente, che era stato perquisito, e che aveva portato al sequestro dell'apparato da parte della polizia.

Lo smartphone del ricorrente era stato sequestrato dalla polizia il 23 novembre 2015 nel contesto di un'indagine penale contro due persone sospettate di aver ideato un piano per ucciderlo. La polizia voleva svolgere alcuni accertamenti sul telefono al fine di far luce su possibili contrasti tra i “sospettati” ed il ricorrente.

Il ricorrente aveva però precisato che il suo telefono conteneva corrispondenza e-mail e SMS con due avvocati che lo stavano difendendo in un altro procedimento penale, in cui era “sospettato”, procedimento che per altro si era concluso con la sua assoluzione nel 2019.

La polizia ed il ricorrente avevano quindi concordato che, prima che i dati fossero copiati dal suo telefono, avrebbero dovuto essere controllati dall'autorità giudiziaria e che tutti i dati protetti dal “privilegio professionale legale” dovevano essere rimossi prima che la polizia potesse accedere al telefono per eseguire gli accertamenti.

Il tribunale di Oslo, previa individuazione delle “parole chiave” da utilizzare per l'estrazione dei dati destinati a confluire nella copia forense salvaguardando quelli sottoposti a privilegio professionale legale, aveva quindi provveduto a far eseguire la cernita dei dati contenuti nel telefono.

Permaneva però disaccordo sulle modalità esecutive, segnatamente per quanto concerne la questione se l'autorità giudiziaria potesse, o meno, chiedere assistenza alla polizia per l'esecuzione di tali operazioni.

Nelle more, però, il tribunale aveva abbandonato la procedura di cernita e selezione dal momento che la Corte suprema norvegese aveva, nel frattempo, pronunciato una decisione – estranea al caso che vedeva coinvolto il ricorrente – nella quale aveva stabilito che, in effetti, avrebbe dovuto essere incaricata la polizia.

Tutti i suoi successivi appelli, fino all'ultimo grado di giudizio tenutosi davanti alla Corte Suprema nel giugno 2017, si erano rivelati infruttuosi.

La copia dei dati del telefono del ricorrente era stata restituita alla polizia per gli accertamenti e la polizia aveva pubblicato, in tale contesto, una relazione il 9 novembre 2017.

Le soluzioni giuridiche

La Corte EDU, dopo aver precisato che la suddetta questione coinvolge senz'altro i diritti garantiti nell'art. 8 § 1 CEDU, ha ritenuto di dover verificare se la legge nazionale, in ottemperanza a quanto prescritto nell'art. 8 § 2 CEDU, prevedesse garanzie sufficienti ad assicurare che l'ingerenza dell'autorità pubblica nell'esercizio di tali diritti costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa dell'ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui.

In particolare, nel contesto di specie, si tratta di comprendere se la legge processuale nazionale in base alla quale tale perquisizione è stata effettuata offrisse garanzie sufficienti alla tutela del segreto professionale.

Così, i giudici della Corte europea, dopo aver ribadito che l'art. 8 § 2 CEDU richiede che la legge in base alla quale perquisizioni e sequestri vengono effettuati sia compatibile con lo Stato di diritto, hanno precisato che, affinché i diritti ivi tutelati siano protetti da interferenze arbitrarie, occorre che l'ordinamento interno sia sufficientemente chiaro, in modo da dare ai cittadini indicazioni adeguate in merito alle circostanze e alle condizioni subordinatamente alle quali le autorità possono procedere a sequestri e perquisizioni, che rappresentano misure che possono creare serie compressioni dei diritti in questione. È fondamentale, pertanto, disporre in materia di norme chiare, precise e dettagliate.

Inoltre, allorquando vengano in rilievo la riservatezza dei rapporti fra cliente e avvocato e, quindi, il segreto professionale, occorre che vengano assicurate determinate garanzie procedurali. Il segreto professionale, infatti, è alla base del rapporto di fiducia fra cliente e avvocato: ogni soggetto deve essere libero di poter consultare un avvocato potendo fare ragionevolmente affidamento sul fatto che il contenuto dei loro colloqui resti strettamente confidenziale.

Riportando tali principi al caso di specie, la Corte ha notato, anzitutto, come il codice di procedura penale nazionale norvegese nulla disponesse in merito al caso specifico in cui la perquisizione avesse riguardato dati coperti dal segreto professionale. Tale lacuna, oltre a rendere difficilmente prevedibile per il ricorrente la forma dei procedimenti, implicava l'assenza di chiare indicazioni in merito alla procedura attraverso cui la polizia avrebbe dovuto procedere alla selezione dei dati contenuti nel cellulare. Nemmeno la decisione della Suprema Corte norvegese, infatti, conteneva istruzioni precise né schemi procedurali pratici per la polizia, limitandosi semplicemente a stabilire che i dati coperti da segreto professionale avrebbero dovuto essere stati eliminati.

Ciò significa che non esistevano chiare e specifiche garanzie procedurali volte ad evitare che il segreto professionale venisse compromesso dalla ricerca dei dati da parte della polizia e che mancava, come affermato dalla stessa Suprema Corte, una disciplina che regolamentasse in modo specifico casi come quello di specie.

Ciò premesso, i giudici europei, pur non potendo pronunciarsi sull'avvenuta violazione del segreto professionale da parte delle autorità norvegesi, hanno ritenuto di poter affermare che la mancanza di chiarezza del quadro giuridico e di specifiche garanzie procedurali volte a tutelare concretamente il rispetto del segreto professionale fossero già sufficienti a non soddisfare i requisiti richiesti nell'art. 8 § 2 CEDU, secondo cui l'ingerenza dell'autorità pubblica deve essere prevista nella legge secondo le indicazioni riportate.

Ad avviso del giudice di Strasburgo vi è stata, in conclusione, violazione dell'art. 8 CEDU.

Osservazioni

La prevedibilità torna dunque ad ergersi quale primario canone esegetico che guida la giurisprudenza della Corte Edu, enunciato, questa volta, in ambito processualpenalistico.

Come noto il leading case in materia è Sunday Times c. Regno Unito, (Corte Edu, Sunday Times c. Regno Unito, 26 aprile 1979, §§ 49 ss.) in cui sono stati abbozzati i criteri generali attraverso cui valutare l'accessibilità e prevedibilità della norma.

Il “caso” riguardava l'art. 10: è proprio nel “prisma” degli artt. 10 e 9 Cedu che il criterio è stato fissato e che, a tutt'oggi, trova suoi sviluppi.

Sin da qui si afferma come il test di prevedibilità dipenda da vari fattori, tra cui l'esistenza di una base legale e la costanza e coerenza nell'applicazione. Con la consueta logica floue che caratterizza la giurisprudenza della Corte Edu, i due fattori lavorano, in certa misura, in rapporto di proporzionalità inversa: se la base legale è vaga, la seconda indagine si fa più pregnante e risulterà determinante, finendo per sanare i vizi di imprecisione della disposizione, come la Corte ha affermato a più riprese dagli anni Ottanta (Corte Edu, Muller e altri c. Svizzera, 24 maggio 1988, §§ 29 ss., in cui è il concetto di “osceno” a ritenersi prevedibile in virtù della codefinizione effettuata dalla giurisprudenza) e, in modo stabile, dal caso Kokkinakis c. Grecia, del 1993 (Corte Edu, Kokkinakis c. Grecia, 25 maggio 1993, § 40) – in cui si è ritenuto non imprevedibile il reato di proselitismo, definito dalla legge come «ogni tentativo diretto o indiretto di penetrare nella coscienza religiosa di una persona di confessione differente», in virtù della definizione offerta da una giurisprudenza costante.

Nelle sentenze in tema della Corte Edu si ritrova, infatti, sistematicamente affermato che la precisione assoluta del testo non solo è impossibile, ma nemmeno auspicabile poiché impedirebbe alla norma di potersi adattare ai mutamenti sociali. Pertanto, la Corte attribuisce al giudice il potere di codefinizione del precetto e alla giurisprudenza il rango di fonte. In questo modo, la norma incriminatrice diviene una fattispecie a formazione progressiva, in cui al testo di legge si chiede fondamentalmente di esprimere delle linee di indirizzo in grado di orientare l'interprete in modo chiaro e coerente, e a quest'ultimo di applicarle in modo ragionevole. Non solo testo, quindi, ma nemmeno solo interpretazione.

Si tratta, per altro, di un tema ben noto anche rispetto ad importanti “casi italiani”, in riferimento a vicende di diritto penale sostanziale: per la Corte Edu non è irrilevante la verifica del testo volta ad accertare che vi sia un atto generale e astratto e l'idoneità di tale atto a governare l'attività dell'interprete. In un noto “caso” recente, il giudice di Strasburgo si è mostrato addirittura alquanto attento alla qualità della legge scritta: si tratta della sentenza De Tomaso c. Italia(Corte Edu, De Tomaso c. Italia [GC], 23 febbraio 2017), dove è proprio la rilevante carenza di precisione dell'atto, cioè la legge n. 1423/1956 sulle misure di prevenzione, che all'art. 5 prescrive (anche) di «vivere onestamente», formula paradigmatica, della più insanabile imprecisione penalistica. In questo caso, alla vacuità della disposizione si affiancava un'interpretazione specificatrice effettuata ai massimi livelli, cioè da parte della Corte costituzionale nelle sue varie sentenze, in cui ha sempre “salvato” la disposizione. La Corte Edu ha condannato comunque l'Italia, ritenendo che la norma non fosse comunque ragionevolmente prevedibile, stante la disparità nelle applicazioni e nelle prescrizioni imposte dai vari tribunali. Ora, è ben vero che la Corte Edu ritiene il precetto imprevedibile, anche perché la sentenza della Corte Cost., 23 luglio 2010, n. 282, che ha integrato in modo più incisivo il «vivere onestamente», è successiva ai fatti in causa, risalenti al 2008. Tuttavia, la ratio decidendi della condanna della Corte Edu si fonda sulla radicale e – quindi – insanabile indeterminatezza del testo di legge.

Quando la giurisprudenza non è coerente, o quando non vi sia ombra di precedente, vengono in soccorso altri criteri. In questi casi, il test di prevedibilità si modella in relazione alla cerchia dei destinatari e alla sedimentazione sociale del suo disvalore. Più il precetto è rivolto a una cerchia ristretta, più si fanno stringenti i doveri di conoscenza da parte dei destinatari; più il reato è iscrivibile alla categoria dei mala in se, più la prevedibilità si ritiene soddisfatta per sedimentazione socio-culturale.

Altra vicenda italiana pare sottrarsi, quanto meno in parte, a tale logica interpretativa, Corte Edu, Contrada c. Italia, 14 aprile 2015. Bruno Contrada viene condannato per cd. “concorso esterno” in associazione di tipo mafioso dal Tribunale di Palermo nel 1996, per fatti commessi tra il 1979 e il 1988: un arco di tempo in cui sussisteva un contrasto giurisprudenziale sulla punibilità di quei fatti a titolo del reato di concorso esterno in associazione di tipo mafioso. Ancor prima, sussisteva un contrasto sulla stessa ipotizzabilità del suddetto reato: ammesso in alcune sentenze, negato in altre. Solo dal 1994, cioè dalla prima pronuncia a Sezioni unite della Cassazione (Cass. pen., Sez. Un., 5 ottobre 1994, n. 16), si può affermare con una relativa certezza che quel reato “esiste”. In questo quadro, come noto a tutti, la Corte Edu condanna l'Italia non perché quel reato sia di origine giurisprudenziale, bensì perché la sua origine deve essere fissata al 1994, cioè alla Sentenza Demitry, successiva ai fatti. Leggendo e rileggendo la sentenza, si evince come il problema di prevedibilità qui non riguardi la rilevanza penale dei fatti commessi, ma – più alla radice – la stessa “base legale” (legislativa o giurisprudenziale, questo non importa per la Corte), cioè la qualificazione giuridica del fatto. Lo si evince chiaramente leggendo il par. 32 della sentenza Corte Edu Contrada: «Perciò, tenuto conto delle divergenze giurisprudenziali sull'esistenza di detto reato, il ricorrente non avrebbe potuto prevedere con precisione la qualificazione giuridica dei fatti che gli erano ascritti e, di conseguenza, la pena che sanzionava le sue condotte». In questo caso, la Corte Edu non valuta la prevedibilità chiedendosi se Bruno Contrada, alto servitore dello Stato a tutela dell'ordine pubblico, laureato e professionista, avrebbe dovuto prevedere (cioè porre in dubbio) la punibilità di quei fatti come concorso esterno, perché qui non si tratta di muovere un rimprovero personale all'imputato (non è un problema di colpevolezza), ma si tratta di valutare un problema di certezza del diritto penale, da valutarsi quindi oggettivamente.

Nella sentenza in commento,Saber c. Norvegia, la Corte Edu torna sulla nozione di “prevedibilità”, questa volta applicandola ad un aspetto di chiara matrice processuale: tuttavia le conclusioni rassegnate non appaiono dissimili da quelle già raggiunte nei “casi italiani” in sede sostanziale, in particolare nella vicenda Contrada, e per di più in un contesto particolarmente delicato quale quello del “privilegio professionale” legale.

Il punto cruciale consiste nel verificare se la normativain questione abbia una qualità sufficiente e offra garanzie sufficienti per garantire che il privilegio legale professionale non sia stato compromesso durante la procedura di perquisizione e sequestro.

Orbene, in tale contesto, la Corte EDU è solita affermare che l'articolo 8 § 2 della Convenzione richiede che la legge in questione sia "compatibile con lo stato di diritto". Nel contesto delle perquisizioni e dei sequestri, il diritto interno deve fornire una certa protezione all'individuo contro interferenze arbitrarie rispetto ai diritti dell'articolo 8. Pertanto, il diritto interno deve essere sufficientemente chiaro nei suoi termini per fornire ai cittadini un'indicazione adeguata delle circostanze e delle condizioni ricorrendo le quali le autorità pubbliche sono autorizzate a valersi di tali misure. Inoltre, perquisizione e sequestro rappresentano una seria interferenza con la vita privata, la casa e la corrispondenza, e devono pertanto essere basati su una “legge” particolarmente precisa. È essenziale disporre di regole chiare e dettagliate sull'argomento (Corte EDU, Sallinen e altri c. Finlandia, 27 settembre 2005, n. 50882/99, §§ 82 e 90).

Inoltre, la Corte di Strasburgo ha riconosciuto l'importanza di specifiche garanzie procedurali quando si tratta di proteggere la riservatezza degli scambi tra avvocati e clienti (si veda, inter alia, Corte EDU, Sommer c. Germania, 27 aprile 2017, n. 73607/13, § 56, e Corte EDU, Michaud c. Francia, 6 dicembre 2012, n. 12323/11, § 130). La Corte EDU ha sottolineato che il segreto professionale è alla base del rapporto di fiducia esistente tra un avvocato ed il suo cliente e che la tutela del segreto professionale è in particolare il corollario del diritto del cliente di un avvocato di non autoincriminarsi, il che presuppone che le autorità devono cercare di dimostrarne la responsabilità senza ricorrere a prove ottenute attraverso metodi di coercizione, a dispetto della volontà della “persona accusata” (così Corte EDU, André ed altri c. Francia, 24 luglio 2008, n. 18603/03, § 41). Tuttavia, nella sua giurisprudenza, la Corte ha distinto tra la questione se l'articolo 8 sia stato violato in relazione alle misure investigative e la questione delle possibili ramificazioni di una conclusione in tal senso sui diritti garantiti dall'articolo 6 (si veda, ad esempio, tra le altre, Corte EDU, Dragoș Ioan Rusu c. Romania, 31 ottobre 2017, n. 22767/08, § 52; e Corte EDU, Dumitru Popescu c. Romania (n. 2), 26 aprile 2007, n. 71525/01, § 106, con ulteriori riferimenti). Inoltre, la Corte ha sottolineato che è chiaramente interesse generale che chiunque desideri consultare un avvocato sia libero di farlo a condizioni che favoriscano una discussione piena e disinibita e che è per questo motivo che il rapporto avvocato-cliente è, in linea di principio, privilegiato. Non ha limitato tale considerazione alle sole questioni relative a controversie pendenti ed ha sottolineato che, sia nel contesto dell'assistenza per contenzioso civile o penale o nel contesto della ricerca di una consulenza legale generale, le persone che si rivolgono ad un avvocato possono ragionevolmente attendersi che la loro comunicazione sia privata e confidenziale (così Corte EDU, Altay c. Turchia (n. 2), 9 aprile 2019, n. 11236/06, §§ 49-51, e i riferimenti ivi contenuti).

Nel nostro ordinamento l'art. 103 c.p.p.,prevede espressamente che “6. Sono vietati il sequestro e ogni forma di controllo della corrispondenza tra l'imputato e il proprio difensore in quanto riconoscibile dalle prescritte indicazioni, salvo che l'autorità giudiziaria abbia fondato motivo di ritenere che si tratti di corpo del reato. 7. Salvo quanto previsto dal comma 3 e dall'articolo 271, i risultati delle ispezioni, perquisizioni, sequestri, intercettazioni di conversazioni o comunicazioni, eseguiti in violazione delle disposizioni precedenti, non possono essere utilizzati. Fermo il divieto di utilizzazione di cui al primo periodo, quando le comunicazioni e conversazioni sono comunque intercettate, il loro contenuto non può essere trascritto, neanche sommariamente, e nel verbale delle operazioni sono indicate soltanto la data, l'ora e il dispositivo su cui la registrazione è intervenuta”.

La “riforma Bonafede” ha dunque lasciato inalterate le modifiche apportate dal d.lgs. n. 216/2017 al comma 7 dell'art. 103 c.p.p., dove è stato introdotto il divieto di trascrizione, anche sommaria, delle intercettazioni, vietate e inutilizzabili, relative «a comunicazioni dei difensori, degli investigatori privati autorizzati e incaricati in relazione al procedimento, dei consulenti tecnici e loro ausiliari», nonché «a quelle tra i medesimi e le persone loro assistite».

A fronte di uno strumento preventivo, il divieto assoluto, previsto dal quinto comma dell'art. 103 c.p.p., per lo svolgimento delle intercettazioni ivi elencate e sopra ricordate, a prescindere dal loro contenuto o dal possibile risultato delle intercettazioni stesse, il nuovo codice di rito aveva predisposto anche un rimedio postumo, nel caso di un'eventuale patologia (il fatto che le comunicazioni o conversazioni del difensore fossero comunque intercettate): l'inutilizzabilità.

Il legislatore del 2017 ha, apparentemente, rafforzato la tutela, attraverso il divieto, ancora assoluto, di trascrizione delle menzionate comunicazioni e conversazioni «comunque intercettate», con riferimento, quindi, anche alle captazioni indirette e casuali. Nel verbale debbono essere indicate solo la data, l'ora e il dispositivo sul quale la registrazione è intervenuta.

Tale divieto è stato previsto in parallelo con quello incluso nel testo dell'art. 268, comma 2-bis, c.p.p., sciogliendolo, però (in claris non fit interpretatio), dalla valutazione della rilevanza, dalla doppia verbalizzazione e dal controllo necessario del pubblico ministero. Non debbono, pertanto, comparire, in alcuna forma “collaterale” di verbalizzazione, il nome dell'interlocutore e la ragione degli omissis.

Verrebbe dunque da sostenere che la normativa italiana sia del tutto in linea con la sentenza Saber. Eppure, ci si deve però domandare se questa innovazione normativa, apparentemente di rafforzamento delle garanzie, sia in grado di sovvertire quello che, sin qui, è stato il consolidato orientamento giurisprudenziale: da ultimo si veda Cass. pen., sez. V, Sent., 28 agosto 2020 (dep. 25 novembre 2020), n. 33141, che ha ribadito come l'operatività della sanzione di inutilizzabilità di cui all'art. 103 c.p.p., commi 5 e 7, e di cui al combinato disposto degli artt. 200 e 271 c.p.p., può emergere solo successivamente allo svolgimento del monitoraggio: “tale valutazione, infatti, può essere effettuata solo a valle delle operazioni di intercettazione, anche perché occorre discernere, nell'ambito delle conversazioni registrate con i professionisti suddetti, quelle che attengono all'esercizio della funzione svolta, alle quali - sole - si riferisce il limite di utilizzabilità. Ebbene, una valutazione di tal genere, che concerne non solo l'identità degli interlocutori, ma anche il contenuto delle conversazioni, non può che avvenire con una verifica postuma, come costantemente affermato dalla giurisprudenza di questa Corte: l'art. 103 c.p.p., comma 5, nel vietare le intercettazioni delle conversazioni o comunicazioni dei difensori, riguarda l'attività captativa in danno del difensore in quanto tale ed ha dunque ad oggetto le sole conversazioni o comunicazioni - individuabili, ai fini della loro inutilizzabilità, a seguito di una verifica postuma - inerenti all'esercizio delle funzioni del suo ufficio e non si estende ad ogni altra conversazione che si svolga nel suo ufficio o domicilio (Cass. pen., sez. IV, 5 ottobre 2016, n. 55253; Cass. pen., sez. VI, 3 giugno 2008, n. 38578); il divieto di intercettazioni relative a conversazioni o comunicazioni dei difensori non riguarda indiscriminatamente tutte le conversazioni di chi riveste tale qualifica, e per il solo fatto di possederla, ma solo le conversazioni che attengono alla funzione esercitata, in quanto la "ratio" della regola posta dall'art. 103 c.p.p., va rinvenuta nella tutela del diritto di difesa” (Cass. pen., Sez. V, 25 settembre 2014, n. 42854, in relazione a colloqui estranei al rapporto professionale tra il legale e gli assistiti).

La prescrizione di cui all'art. 103 c.p.p., dunque, per i supremi giudici italiani non si traduce in un divieto assoluto di conoscenza ex ante, ma implica una verifica postuma del rispetto dei relativi limiti, e non si estende ad ogni altra conversazione che si svolga nell'ufficio o domicilio del legale. Mentre la Corte Edu è granitica nell'affermare la “sacralità” del privilegio avvocato-clientela secondo un giudizio ex ante di prevedibilità, la Cassazione la esclude: “la prescrizione anzidetta non si traduce, in definitiva, in un divieto assoluto di conoscenza ex ante, come se il legale godesse di un ambito di immunità assoluta o di un privilegio di categoria, ma implica una verifica postuma del rispetto dei relativi limiti, la cui violazione comporta l'inutilizzabilità delle risultanze dell'ascolto non consentito, ai sensi dell'art. 103 c.p.p., comma 7 e la distruzione della relativa documentazione, a norma dell'art. 271 c.p.p., richiamato dallo stesso art. 103 c.p.p., comma 7”(Cass. pen.,sez. II, 4 dicembre 2014, n. 52728).

Pertanto, in Italia, almeno fino ad ora, l'unica ragionevole “prevedibilità” che pare sussistere per il difensore è quella che le sue conversazioni con il cliente possano essere “ascoltate” e trascritte: solo in base ad una valutazione postuma si potrà poi procedere alla distruzione.

Le principali Procure italiane hanno, formalmente, recepito le nuove indicazioni normative, alcune con un maggior grado di dettaglio, altre rimanendo piuttosto “nel vago”. Così ad esempio nella circolare della Procura di Milano 6 luglio 2020 si legge a pag. 2 che “il pubblico ministero, nel quadro della sua potestà di vigilanza e direzione delle indagini, dovrà assicurare che la polizia giudiziaria effettui una rigorosa selezione delle intercettazioni rilevanti ed utilizzabili a fini processuali. A tal fine avvierà un'interlocuzione costante, anche informale, con gli organi di polizia giudiziaria delegati alle operazioni al fine di non documentare intercettazioni manifestamente irrilevanti o inutilizzabili”. I casi dubbi dovranno essere tempestivamente sottoposti alla valutazione del pubblico ministero, opportunamente interpellato, anche per le vie brevi, al fine di vagliarne il contenuto e decidere se inserirle o meno nei verbali e/o nelle annotazioni in quanto effettivamente rilevanti. Negli stessi termini la coeva circolare della Procura di Torino 31 luglio 2020, pag. 3, che però ha cura di precisare che dell'interlocuzione tra pubblico ministero e polizia giudiziaria, anche se avvenuta per le vie brevi, deve restare traccia venendone dato atto, anche in maniera sommaria, nel verbale dell'intercettazione. Se in queste due circolari nulla si dice in merito alla posizione del difensore, assai più specifica pare la circolare della Procura di Tivoli 27 agosto 2020, pag. 12: “resta invariata, allo stato, la regolamentazione di carattere generale sulle intercettazioni attinenti al mandato difensivo emesse da questa Procura il 16 marzo 2020, con specifico riferimento alla operatività della inutilizzabilità, alla delimitazione del divieto, al necessario raccordo col pubblico ministero, con i necessari adattamenti alla nuova disciplina (evitare la trascrizione se non emergono fatti di reato come specificato nella direttiva)”. Nella circolare 6 marzo 2020, dove viene affermato in modo per nulla scontato che “ovviamente non potrà in alcun modo essere elusa la trascrizione di conversazioni il cui contenuto sia favorevole all'indagato”, la Procura di Bologna, pagg. 4 e 5, ascrive espressamente le intercettazioni dei colloqui tutelati dall'art. 103 c.p.p. al novero di quelle inutilizzabili. Anche secondo la Procura di Perugia, circolare 29 settembre 2020, pag. 5, “il potere di interlocuzione preventiva del pubblico ministero con la p.g. e la conseguente vigilanza del primo sull'attività della seconda deve ovviamente ritenersi esteso ben oltre il caso indicato dalla norma ed essere comunque funzionale ad evitare che siano riportate negli atti contenenti le intercettazioni – ed in particolare nei brogliacci – colloqui inutilizzabili ai sensi dell'art. 103 c.p.p.. È tuttavia la Procura di Modena, pag. 36, a ricordare qual è il “nocciolo” della questione”: “si ricorda che l'art. 103 c.p.p. nel vietare le intercettazioni delle conversazioni o comunicazioni dei difensori, mirando a garantire l'esercizio del diritto di difesa, ha ad oggetto le sole conversazioni o comunicazioni relative agli affari nei quali i legali esercitano la loro attività difensiva, e non si estende, quindi, alle conversazioni che integrano esse stesse reato o che siano comunque estranee al mandato professionale tra il legale e gli assistiti. Ove necessario l'attenta verifica dei presupposti che determinano l'inutilizzabilità potrà essere sottoposta a verifica successiva”.

Alla Procura di Modena va dato atto di aver reso manifesto come la riforma sia del tutto inidonea a tutelare il cd. privilegio legale per come inteso dalla Corte Edu, dal momento che questo non sussiste in via preventiva e dunque prevedibile, ma è rimesso alla discrezionalità, successiva, del pubblico ministero.

Non a caso il Consiglio nazionale Forense (CNF), in sede di audizione parlamentare (Audizione del 4 febbraio 2020, Consigliera Giovanna Ollà), aveva sottolineato come “solo l'immediata interruzione dell'intercettazione (attraverso lo spegnimento dei sistemi informatici utilizzati) o della captazione (attraverso il c.d. trojan)” possono garantire una reale ed effettiva tutela del diritto di difesa mettendolo al riparo dall'ascolto da parte di ausiliari dell'accusa.

Effettivamente il rimedio indicato dal CNF appare l'unico in grado di assicurare che chiunque desideri consultare un avvocato sia libero di farlo a condizioni che favoriscano una discussione piena e disinibita, senza che ciò sia limitato alle sole questioni relative a controversie pendenti in quanto le persone che consultano un avvocato devono ragionevolmente attendersi che la loro comunicazione sia privata e confidenziale.

Il quadro sopra delineato, emergente dalla giurisprudenza di legittimità e dalle circolari delle Procure, pare denotare una totale divaricazione tratesto, apparentemente assai chiaro e garantista, ed interpretazione fornitane dalla giurisprudenza, che degrada il privilegio avvocato-cliente a mero simulacro facilmente aggirabile in via del tutto discrezionale.

Potrebbe essere opportuno sollecitare l'intervento del Giudice di Strasburgo per comprendere se tale interpretazione sia conforme all'articolo 8 § 2 della Convenzione?

Guida all'approfondimento

Alessio Scarcella, Diritto al rispetto della corrispondenza, in www.quotidianogiuridico.it, 08/01/2021;

Carlo Sotis, “Ragionevoli prevedibilità” e giurisprudenza della Corte Edu, in QQuestione giustizia, 4/2018;

Cesare Parodi, La nuova disciplina delle intercettazioni: le indicazioni operative della Procura della Repubblica di Torino, Il Penalista, 01 Settembre 2020.

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