L'eccezione di convivenza ultratriennale dei coniugi sotto il profilo dell'anomala convivenza

Vincenzo Fasano
11 Marzo 2021

La convivenza tra coniugi non richiede necessariamente la loro materiale coabitazione. Una seppur anomala convivenza ultratriennale “come coniugi” costituisce anch'essa una situazione giuridica di ordine pubblico ostativa alla delibazione della sentenza canonica di nullità del matrimonio.
Massima

La convivenza tra coniugi non richiede necessariamente la loro materiale coabitazione. Una seppur anomala convivenza ultratriennale “come coniugi” costituisce anch'essa una situazione giuridica di ordine pubblico ostativa alla delibazione della sentenza canonica di nullità del matrimonio, essendo caratterizzata da una complessità fattuale strettamente connessa all'esercizio di diritti, adempimento di doveri e assunzione di responsabilità di natura personalissima.

Il caso

Dopo aver ottenuto la dichiarazione di nullità del proprio matrimonio concordatario celebrato il 25 aprile 1998 a Chiavenna (SO), la donna adì la Corte d'Appello di Milano, al fine di vedere riconosciuti gli effetti del procedimento canonico anche nell'ordinamento italiano. La nullità del matrimonio canonico fu sancita con sentenza del 31 maggio 2012 dal Tribunale Ecclesiastico Regionale Lombardo, ratificata dal Tribunale Ecclesiastico Regionale Ligure con decreto del 22 febbraio 2013 ai sensi dell'abrogato can. 1682, § 2, del Codice di diritto canonico, e resa esecutiva con decreto del Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica del 17 settembre 2013.

Perfezionatosi presumibilmente il contraddittorio con la costituzione dell'uomo, la cui posizione è intuitivamente ostativa all'accoglimento della domanda, la Corte di Appello di Milano respinse la domanda della donna, richiamando espressamente la giurisprudenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (Cass. civ. sez. un. 17 luglio 2014, n 16379), sul presupposto di una convivenza dei coniugi durata oltre tre anni dalla data del matrimonio.

La ricorrente propose ricorso per cassazione contro la sentenza della Corte di Appello di Milano, precisando la propria posizione attraverso due motivi: 1) violazione e falsa applicazione dell'art.2697 c.c. perché la Corte d'Appello violò il principio dell'onere della prova che gravava sul convenuto ovvero considerò la durata del matrimonio superiore a tre anni nonostante l'uomo non lo avesse provato; 2) violazione e falsa applicazione degli artt.2727 e 2729 c.c. in quanto la Corte d'Appello ritenne che la convivenza coniugale fosse durata più di tre anni sulla base di fatti che non integravano in alcun modo presunzioni gravi, precise o concordanti.

La questione

In tema di delibazione di pronunciamenti ecclesiastici di nullità matrimoniali, l'eccezione ostativa di convivenza ultratriennale può essere provata anche in presenza di “una seppur anomala convivenza ultratriennale” come coniugi?

Le soluzioni giuridiche

Coi Patti lateranensi dell'11 febbraio 1929 lo Stato italiano e la Chiesa cattolica, attraverso la previsione della possibile attribuzione di effetti civili ai matrimoni contratti in forma canonica, evitarono agli sposi cattolici l'onere di una doppia celebrazione nuziale. Il sistema delineato dall'art. 34 del Concordato lateranense, secondo cui il riconoscimento del matrimonio canonico era subordinato all'effettuazione delle pubblicazioni civili e alla trascrizione dell'atto di matrimonio nei registri di stato civile, prevedeva anche l'accettazione della giurisdizione ecclesiastica da parte dello Stato, il quale si dichiarava privo di competenza in ordine ai giudizi sulla validità originaria dei matrimoni canonici trascritti, impegnandosi nel contempo ad attribuire efficacia civile alle pronunce di nullità del vincolo emanate dai Tribunali ecclesiastici. La disposizione prevedeva, infatti, che tali pronunce, munite del Decreto del Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica attestante il rispetto della normativa processuale canonica e l'esecutorietà della sentenza canonica, fossero trasmesse d'ufficio, pertanto senza necessità di un impulso di parte, alla Corte d'Appello competente per territorio, la quale con ordinanza emessa in camera di consiglio ne attribuiva efficacia civile. Il giudice statale non era né tenuto né legittimato a compiere valutazioni di merito, dovendo limitarsi a prendere atto dell'esistenza della dichiarazione ecclesiastica di nullità relativa ad un matrimonio trascritto, con l'obbligo di attribuirne rilevanza civile. Il sistema, così come inizialmente delineato, comportava il riconoscimento nello Stato di tutte le pronunce ecclesiastiche di nullità matrimoniale, e tale disciplina, unitamente alla possibilità di richiedere la trascrizione tardiva del matrimonio da parte di chiunque vi avesse interesse, serviva ad assicurare l'uniformità di status del fedele/cittadino nei due ordinamenti, in quanto ad ogni dichiarazione di nullità del vincolo pronunciata dalla Chiesa corrispondeva necessariamente il venir meno dello stato coniugale anche nell'ordinamento civile.

L'entrata in vigore della Costituzione italiana determina il sorgere di discussioni, in dottrina ed in giurisprudenza, in relazione a diversi punti di paventato contrasto fra le disposizioni del Concordato lateranense ed i principi alla base del nuovo ordinamento repubblicano. L'operazione posta in atto per ridurre l'applicazione dell'istituto della delibazione delle decisioni ecclesiastiche ebbe inizio con l'introduzione del criterio secondo cui la tutela della buona fede e dell'affidamento incolpevole costituisce esigenza imprescindibile e inderogabile in materia matrimoniale. Attraverso la cosiddetta simulazione unilaterale, ovvero l'esclusione da parte di uno dei nubendi del matrimonio stesso o di sue proprietà o elementi essenziali, la Corte di Cassazione, a partire dalla sentenza del 1° ottobre 1982, n. 5026, pronunciata a Sezioni Unite, con orientamento ormai consolidato, introdusse la buona fede nel novero dei principi di ordine pubblico. La Corte di Cassazione, però, in quell'occasione, introdusse delle limitazioni all'operatività di tale criterio, precisando che, anche in presenza di un'esclusione posta unilateralmente da uno solo dei coniugi, si poteva comunque pervenire alla delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità matrimoniale nelle ipotesi in cui il coniuge non simulante, all'epoca delle nozze, fosse stato a conoscenza dell'altrui intenzione escludente, avesse potuto conoscerla usando l'ordinaria diligenza, o avesse egli stesso invocato la delibazione della sentenza.

La Corte di Cassazione successivamente ridusse ulteriormente la possibilità di delibazione facendo leva sulla cosiddetta rilevanza attribuita all'elemento della convivenza coniugale. Col pretesto di assicurare la certezza dei rapporti giuridici, i giudici di legittimità imposero che, nella legislazione civile, l'invalidità del matrimonio fosse soggetta a termini di decadenza della relativa azione, al contrario della nullità canonica, ove è rilevabile senza limiti di tempo perché assoluta ed insanabile. Rilevante fu la sentenza Cass. 20 gennaio 2011, n. 1343, che ritenne «ostativa alla delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio, pronunciata a motivo del rifiuto della procreazione, sottaciuto da un coniuge all'altro, la loro particolarmente prolungata convivenza oltre il matrimonio».

La questione della rilevanza della convivenza coniugale, in quanto ostativa al riconoscimento delle nullità canoniche, fu sottoposta al vaglio delle Sezioni Unite che si pronunciarono con la sentenza del 17 luglio 2014, n. 16379, attraverso la quale stabilirono la preminenza nell'ordinamento statale del matrimonio-rapporto a discapito del matrimonio-atto volitivo. La valenza generale che le Sezioni Unite pretesero di attribuire alla convivenza coniugale, quale elemento idoneo a precludere la delibazione della declaratoria canonica di nullità da qualsiasi causa essa derivi, si rivelò abnorme in quanto finì per intervenire in maniera indiscriminata, anche in situazioni nelle quali la lunga durata della vita matrimoniale non avrebbe potuto essere assunta a dimostrazione della volontà degli interessati di permanere nel vincolo, non avendo senso parlare di rinuncia a un diritto da parte di chi, ad esempio, non poteva concretamente esercitarlo, come ad esempio in casi di nullità di matrimonio per incapacità a contrarre le nozze. Ad ulteriore conferma che la prolungata convivenza fra i coniugi non poteva essere ritenuta principio di ordine pubblico, depone la constatazione che il verificarsi di una situazione di lunga convivenza non preclude la pronuncia di cessazione degli effetti civili del matrimonio concordatario, anche dopo decenni di vita matrimoniale. Se si fosse realmente trattato di un principio di ordine pubblico, una ultra triennale comunione coniugale avrebbe potuto ostacolare anche la cessazione degli effetti civili, quanto meno nella fattispecie di una richiesta unilaterale di un coniuge, con relativa e consequenziale opposizione dell'altro coniuge contrario all'interruzione del legame.

L'ordinanza in commento rientra fra quei pronunciamenti che chiariscono la portata delle decisioni Cass. sez.un. 17 luglio 2014, n. 16379, e Cass. civ. sez. un., 17 luglio 2014, n. 16380. In quelle occasioni, infatti, le Sezioni Unite enunciarono il principio secondo cui la convivenza come coniugi, protrattasi per almeno tre anni dalla data di celebrazione del matrimonio concordatario regolarmente trascritto, connotando nell'essenziale l'istituto del matrimonio nell'ordinamento italiano, è costitutiva di una situazione giuridica disciplinata da norme costituzionali, convenzionali ed ordinarie, di ordine pubblico italiano e, pertanto, anche in applicazione dell'art. 7, comma 1, Cost. e del principio supremo di laicità dello Stato, è ostativa alla dichiarazione di efficacia nella Repubblica italiana delle sentenze definitive di nullità di matrimonio pronunciate dai tribunali ecclesiastici, per qualsiasi vizio del matrimonio accertato e dichiarato dal giudice ecclesiastico.

L'ordinanza in esame se, da un lato, ribadisce che la convivenza coniugale, elemento essenziale del “matrimonio-rapporto”, ove protrattasi per almeno tre anni dalla celebrazione del matrimonio concordatario, integra una situazione giuridica di ordine pubblico italiano ostativa alla delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio; dall'altro chiarisce che anche una «anomala convivenza ultratriennale “come coniugi”» è una situazione giuridica di «ordine pubblico ostativa alla delibazione della sentenza canonica di nullità del matrimonio, essendo caratterizzata da una complessità fattuale strettamente connessa all'esercizio di diritti, adempimento di doveri e assunzione di responsabilità di natura personalissima».

L'ordinanza ritiene che l'eccezione di convivenza triennale diventi operativa anche in assenza di una materiale coabitazione dei coniugi. Nel caso specifico, si riconosce efficacia anche ad un'anomala convivenza ultratriennale, priva del requisito della materiale coabitazione dei coniugi e della comune residenza, sul presupposto che la ridotta presenza del marito presso il domicilio coniugale si giustifica come reazione alla volontà della moglie di voler eleggere a domicilio coniugale la casa della propria madre, alla quale era legata da un eccessivo attaccamento. Nel caso della fattispecie esaminata, la Corte di cassazione rigettò il ricorso proposto dalla ricorrente perché le allegazioni della donna non permisero di superare l'eccezione di convivenza ultratriennale, nonostante l'assenza della stabilità e della continuità nella convivenza coniugale.

Osservazioni

La tesi proposta dall'ordinanza suscita perplessità perché omette di spiegare se la convivenza come coniugi, protrattasi per almeno tre anni, possa realmente considerarsi un principio di ordine pubblico italiano e, pertanto, se essa sia realmente ostativa al riconoscimento di una sentenza ecclesiastica di nullità matrimoniale. Sarebbe stato opportuno chiarire, stante anche la delicatezza della questione, quali siano i principi di ordine pubblico che impediscano la delibazione delle sentenze ecclesiastiche. Bisogna realmente fare riferimento al concetto di ordine pubblico interno italiano, come vorrebbe la giurisprudenza della Cassazione, o non sarebbe piuttosto preferibile il ricorso al concetto di ordine pubblico internazionale?

L'indirizzo metodologicamente più appropriato sarebbe stato infatti quello di riferirsi ai principi di ordine pubblico richiamati dall'art. 64 della Legge n. 218 del 1995 che precisa i limiti all'efficacia in Italia di sentenze promananti da un ordinamento diverso da quello italiano. Non si può infatti dimenticare che i Patti Lateranensi sottoscritti tra il Regno d'Italia e la Santa Sede l'11 febbraio 1929 (compreso l'Accordo di revisione del 18 febbraio 1984) siano a tutti gli effetti un trattato internazionale. Non si comprende perché, in assenza di una ragione plausibile, il meccanismo di riconoscimento delle sentenze ecclesiastiche di nullità matrimoniale debba essere diverso da quello del riconoscimento delle sentenze straniere di cui all'art. 64 della Legge n. 218 del 1995. Motivazioni giuridiche e storiche propenderebbero in senso contrario.

Riferimenti

O. Fumagalli Carulli, Matrimonio ed enti tra libertà religiosa e intervento dello Stato, Vita&Pensiero, Milano, 2012, pp. 75-103.

M. Canonico, Delibazione di sentenze ecclesiastiche, ovvero il cammello per la cruna dell'ago, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, Rivista telematica (www.statoechiese.it), n. 25/2015 (13 luglio 2015).

A. Sammassimo, Il nuovo ordine pubblico concordatario, in Stato, Chiese e pluralismo confessionale, Rivista telematica (www.statoechiese.it), n. 31/2015 (19 ottobre 2015).