Giorgio Spangher
22 Marzo 2021

Nato sulle ceneri dell'art. 90 ord. penit., l'attuale formulazione dell'art. 41-bis ord. penit., frutto delle successive modificazioni introdotte da l. n. 663 del 1986; d.l. n. 306 del 1992 conv. in l. n. 356 del 1992; l. n. 11 del 1998; l. n. 279 del 2002; l. n. 94 del 2009, presenta non poche criticità. Invero, uno strumento emergenziale...

È verosimile che a breve si riaccenderà il confronto di opinioni sull'art. 41-bis ord. penit.

È verosimile perché appare necessario affrontare le questioni che vi sono sottese.

Nato sulle ceneri dell'art. 90 ord. penit., l'attuale formulazione dell'art. 41-bis ord. penit., frutto delle successive modificazioni introdotte da l. n. 663 del 1986; d.l. n. 306 del 1992 conv. in l. n. 356 del 1992; l. n. 11 del 1998; l. n. 279 del 2002; l. n. 94 del 2009, presenta non poche criticità. Invero, uno strumento emergenziale, di cui alla rubrica Situazioni di emergenza, per quanto contenuto nel comma 1, relativamente ai casi di rivolta o di altre grave situazioni emergenziali, destinate a durare fino al ripristino dell'ordine e la sicurezza, per il tempo strettamente necessario a conseguire il predetto fine, ma che ha assunto - sia per le stratificazioni normative, sia per il tempo della possibile durata della misura - per i diversi detenuti il ruolo di strumento ordinario di detenzione nelle ipotesi di cui al comma 2.

La previsione, ricollegandosi alle originarie situazioni che ne avevano costituito la ratio ai tempi del terrorismo e della criminalità organizzata, sembrerebbe doversi ricollegare, in relazione ai reati associativi di vario tipo, ai rapporti tra l'ambiente interno e quello esterno ed a quelli legati ai rapporti interni sui soggetti facenti parte dei gruppi organizzati.

In altri termini, al fine di evitare che, pur in presenza della condanna dei riferiti soggetti, i possibili permanenti collegamenti di gruppi organizzati possano pregiudicare l'ordine e la sicurezza, si cerca – al di là di altre indirette finalità che si intendono perseguire (leggi, la collaborazione) – di interrompere i riferiti circuiti interni ed esterni dei gruppi associativi.

Anche ritenendo l'attualità di una situazione di “gravità”, perdurante per un così lungo periodo e comunque verosimilmente destinata a protrarsi, a lungo, la disciplina dell'art. 41-bis ord. penit. evidenzia alcune riserve.

La più importante è quella per la quale la disciplina si applica anche nei confronti degli imputati, dei reati di cui all'art. 4-bis ord. penit.

Sembra entrare nel merito della categoria dei reati che il legislatore ha progressivamente inserito in questa previsione, cioè, dando per superato (ai soli fini argomentativi, peraltro, questo profilo).

La considerazione si articola su più piani. È vero che la misura che si applica al soggetto imputato di questi delitti è il carcere, ma va considerato che anche per le ipotesi di pericolosità presunta, comunque il carcere “ordinario” resta l'estrema ratio.

Va sottolineato che si tratta di un soggetto che, ancorché gravemente indiziato, ovvero anche se condannato non in via definitiva, è assistito della presunzione di innocenza.

Se il condannato è ristretto sulla base di una decisione di un organo giudicante a seguito di un pieno sviluppo processuale, un discorso analogo non può essere svolto in relazione ad un imputato, con la considerazione rafforzata che si potrebbe trattare di misura cautelare disposta in fase di indagini preliminari.

Il dato, quindi, risulta condizionato dalla qualificazione data durante la fase procedimentale o processuale che tuttavia potrebbe essere smentita con la sentenza definitiva di condanna ovvero, il che rende il tutto più grave, con una sentenza di proscioglimento.

Una riflessione sul punto si è evidenziata durante le vicende processuali di “Mafia Capitale” nel contesto degli sviluppi della vicenda giudiziaria che ha riguardato alcuni imputati.

Un secondo profilo di possibile criticità riguarda il riferimento – sempre contenuto al comma 2 dell'art. 41-bis ord. penit. – all'applicabilità del regime di sorveglianza particolare ai detenuti per un delitto commesso avvalendosi delle condizioni o al fine di agevolare l'associazione di tipo mafioso, in presenza di elementi che fanno ritenere sussistenti i collegamenti con le associazioni criminali, terroristica o eversiva (il riferimento corre, in via esemplificativa, alla nota testata “mafiosa” avvenuta sul litorale di Ostia).

È noto che con la sentenza n. 57 del 2013 la Corte costituzionale abbia dichiarato l'incostituzionalità dell'art. 275, comma 3, c.p.p., nella parte in cui non prevede che quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dall'art. 416-bis c.p., ovvero al fine di agevolare l'attività delle associazioni previste dallo stesso articolo, è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulta che non sussistono esigenze cautelari, non fa salva, altresì, l'ipotesi in cui non siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure.

Ora, nell'eventualità in cui sia applicata la misura della custodia in carcere, anche relativamente ad un reato non riconducibile all'art. 4-bis ord. penit., il soggetto potrebbe essere ristretto nel regime di sorveglianza speciale.

Un ulteriore profilo di criticità è costituito dalla previsione per la quale in caso di unificazione di pene concorrenti o di concorrenza di più titoli di custodia cautelare, la sospensione è disposta anche quando sia espiata la pena o la misura cautelare relativa ai delitti di cui all'art. 4-bis ord. penit. Il dato già sconcertante per il condannato appare incomprensibile per il soggetto in custodia cautelare per il quale per quel reato dovrebbe essere scarcerato ed invece rimane ristretto nel regime di particolare rigore per il tempo della custodia dell'altro reato.

Il dato evidenzia la sua patologia ove si consideri che scaduto il tempo per il quale era stata disposta la misura che quindi non verrebbe meno, al momento della sua scadenza temporale che continua ad essere eseguita per il diverso reato, dovrà essere disposto un provvedimento di proroga per il diverso reato.

Ancora. La disciplina introdotta con la l. n. 279 del 2002 ha eliminato sia la possibilità che a seguito del reclamo il tribunale di sorveglianza possa modificare – fatto salvo il riconoscimento di una possibile lesione dei diritti connessi al contenuto della restrizione - il contenuto del decreto motivato del Ministro della Giustizia, nonché che sia consentita in pendenza del provvedimento applicativo la possibilità della sua revoca, comunque condizionata da una eventuale iniziativa di reclamo nei confronti di una decisione di rigetto, considerati i termini meramente ordinatori del tribunale di sorveglianza di Roma, unico competente in materia.

Va sottolineato altresì che il meccanismo della proroga, cioè, delle proroghe, non essendo fissato alcun termine massimo, se non quello del venir meno dei presupposti, è sorretto da una logica ispirata all'automatismo considerati i suoi presupposti e le difficoltà probatorie in capo al soggetto ristretto.

Riserve si prospettano anche in relazione al contenuto del provvedimento di sospensione delle regole del trattamento, configurandosi la previsione di cui alla lett. a) del comma 2-quater al livello di una norma penale in bianco, suscettibile di essere riempita dei più ampi contenuti prevedendosi misure di elevata sicurezza interna ed esterna.

Il dato intercetta, naturalmente, anche tutte le deroghe al normale trattamento previste dal regolamento di cui al d.P.R. n. 230 del 2000, nonché quelle riportare nella Circolare del Dipartimento dell'Amministrazione penitenziaria del 2 ottobre 2017 che fissano i contenuti restrittivi della condizione del soggetto sottoposto a questo regime particolare.

Se è vero che la procedura del reclamo ex art. 35-bis ord. penit. offre al detenuto uno strumento di tutela, come è dimostrato anche dalla sentenza della Corte costituzionale in tema di diritto del detenuto di cucinare cibi precotti e come emerge dall'accoglimento di alcuni reclami da parte della Corte di Cassazione, nonché di modifica di alcuni orientamenti del DAP, innestati dalle iniziative giudiziarie dei condannati, resta complesso il percorso che realizzi il giusto equilibrio tra esigenze securitarie e diritti individuali.