La telematizzazione del deposito degli atti nel processo penale

Paolo Grillo
29 Marzo 2021

Con l'emergenza sanitaria da Covid-19, il legislatore ha dovuto dare vita ad un sistema che consentisse agli operatori del “servizio giustizia”, primi tra tutti, agli avvocati, di continuare ad operare. Per raggiungere questo obiettivo è apparso sin da subito chiaro che si sarebbe dovuto lavorare sulle tecniche di deposito degli atti da remoto.
Esattamente un anno fa: uno scossone al formalismo

Come s'è dovuto industriare per garantire la continuità dell'attività di udienza in pieno lockdown, così il legislatore ha dovuto frettolosamente mettere in piedi un sistema che consentisse agli operatori del “servizio giustizia” - e, primi tra tutti, agli avvocati – di continuare ad operare.

Per raggiungere questo obiettivo è apparso sin da subito chiaro che si sarebbe dovuto lavorare sulle tecniche di deposito degli atti da remoto.

Non era un terreno di lavoro facile da percorrere, come non è stato fu il normativo che precedette e accompagnò l'entrata a regime delle notificazioni a mezzo PEC. Quando divennero una realtà – e cioè nel 2014 – ci si iniziò a interrogare sulla possibilità di usufruirne per depositare gli atti di impugnazione.
Il deposito dell'atto in cancelleria, per chi vi procede, costituisce di fatto una notificazione al giudice a quo dell'intervenuta impugnazione di una decisione sfavorevole. L'idea di depositare il relativo gravame in allegato ad un messaggio di posta elettronica certificata venne bocciato senza appello dalla giurisprudenza di legittimità, che in quella occasione fece censure ruotanti attorno alla mancanza nel codice di rito di una norma che espressamente consentisse l'uso della PEC per quello specifico scopo (si veda, tra le tante, Cass., n. 18235/2015).

Soltanto in un caso (Cass., n. 17844/2019) si consentì l'uso della posta certificata per produrre le deduzioni difensive avverso i provvedimenti “DASPO”, ma la concessione venne ancorata al brevissimo termine di appena 48 ore per procedere a tale adempimento.

Il Portale Deposito Atti Penali

L'adozione sperimentale del Portale Deposito Atti Penali si colloca immediatamente a ridosso del lockdown di marzo 2020. Il d.l. 17 marzo 2020, n. 18 ne prevedeva l'adozione “sperimentale” da parte di quegli uffici di Procura che ne avessero fatto richiesta per il deposito degli atti difensivi successivi alla notifica dell'avviso di conclusione delle indagini preliminari.

Questa facoltà è stata elevata a obbligo con il “decreto Ristori dell'ottobre 2020 e se ne è proiettata la prospettiva di vita fino al termine del periodo di emergenza sanitaria disciplinato dal d.l. 25 marzo 2020 n. 19.

Per gli atti diversi da quelli tassativamente indicati nel provvedimento normativo (memorie, documenti e istanze post art. 415-bis c.p.p.) il sistema ideato dal legislatore è abbastanza agile; si prevede, infatti, che nell'attesa della emanazione dei successivi decreti ministeriali con i quali verranno enumerate le ulteriori categorie di atti da “caricare” obbligatoriamente sul Portale, lo strumento per procedere al deposito è quello della posta elettronica certificata.

Appositi provvedimenti della Direzione Generale dei Servizi Informativi ed Automatizzati (DGSIA) del Ministero della Giustizia, invece, individuano ed elencano tutti gli indirizzi “ufficiali” ai quali inoltrare gli atti depositati a mezzo PEC. Tutto ciò che deve essere caricato sul Portale, invece, non può essere inviato a mezzo posta certificata, pena l'inefficacia dell'atto così eventualmente depositato.

La “demateralizzazione” degli atti processuali, mossa prodromica alla futura creazione di un vero e proprio fascicolo digitale, è vera soltanto a metà, tant'è che segreterie e cancellerie dovranno – dopo aver ricevuto per via elettronica un atto di parte – stampare una copia di quest'ultimo e inserirla nel fascicolo cartaceo, appuntando data e ora del deposito informatico.

Nel frattempo, nel gennaio scorso il Ministero della Giustizia ha iscritto nel novero degli atti da “caricare” sul Portale anche quelli di opposizione alla richiesta di archiviazione, le denunce e le querele con relativa procura speciale, e gli atti che riguardano il conferimento o la cessazione del mandato difensivo (nomina, revoca o rinuncia del difensore). Anche per questi ultimi, quindi, non è più possibile procedere all'invio a mezzo PEC.

A complicare la vita dei difensori, oltre al labirinto delle specifiche tecniche relative al formato degli atti e alla loro firma digitale, ci ha pensato il DGSIA, stabilendo con un provvedimento del 24 febbraio scorso che il deposito della nomina nei procedimenti in fase d'indagine e per i quali non sia stato ancora emesso l'avviso di conclusione delle indagini preliminari o l'avviso di deposito della richiesta di archiviazione debba essere accompagnato dal deposito di un “atto abilitante”; cioè di un qualsiasi atto processuale – il certificato ex art. 335 c.p.p., ma anche un verbale di identificazione o di perquisizione e sequestro – che dimostri la conoscenza dell'esistenza del procedimento penale.

Se questo passaggio nella stragrande maggioranza dei casi non produrrà intoppi particolari, c'è da chiedersi quale atto abilitante potrà mai depositare, ad esempio, la persona non ancora identificata ma che, talvolta per le vie più trasversali, abbia comunque appreso dell'esistenza di un procedimento a proprio carico (si immagini, e il caso non è affatto raro, che la notizia sia trapelata dagli organi di stampa).

Il deposito telematico degli atti di impugnazione

Sulla base dell'art. 24 del decreto “Ristori”, che apriva alla possibilità – non all'obbligo – di deposito a mezzo PEC di tutti gli atti diversi da quelli obbligatoriamente caricabili sul Portale, s'era dedotto che gli atti di impugnazione si potessero inviare, debitamente siglati con firma digitale, in allegato ad un messaggio di PEC.
L'opinione ermeneutica, eretica se riguardata alla luce della giurisprudenza che si era sempre formata in argomento, non faceva una piega: la norma era chiara nel ritenere che, in via residuale, tutto ciò che non dovesse necessariamente caricarsi sul Portale Depositi, potesse essere veicolato con la posta elettronica certificata.

Eppure, non sono mancate decisioni di legittimità di segno contrario (si veda, ad esempio Cass. n. 32566/20), ancorate al dato formalistico della tassatività dei metodi di deposito dei mezzi di impugnazione e alla mancanza, nel sistema normativo, di una espressa “apertura” alla PEC.

Con la legge di conversione del Decreto Ristori si è fatto chiarezza, soddisfacendo la pretesa della giurisprudenza di legittimità relativa all'inserimento di una norma che consentisse il deposito telematico degli atti di impugnazione. Questi ultimi potranno essere firmati e trasmessi digitalmente, insieme ai loro eventuali allegati, esclusivamente all'indirizzo PEC del giudice a quo. Soltanto i motivi aggiunti o gli atti di impugnazioni cautelare, invece, saranno inviati al giudice che dovrà decidere.

La disciplina si completa con l'elencazione delle possibili cause di inammissibilità “specifiche”, connesse alla mancanza della firma digitale del difensore sull'atto o sugli allegati, alla trasmissione da o verso un indirizzo PEC non “ufficiale”, oppure da un indirizzo di posta non riferibile al difensore titolare del mandato difensivo.

Uno sguardo oltre la crisi pandemica

Il sistema normativo fin qui approntato è nato con un meccanismo a orologeria che dovrebbe segnarne la fine alla cessazione – si spera vicina – dell'emergenza sanitaria. È più che lecito ritenere, però, che la disciplina in fretta e furia allestita per contenere i contagi e favorire la remotizzazione del lavoro anche nel “comparto giustizia” sia una sorta di “prova generale per il futuro”.

Era scontato prevedere che la telematizzazione, prima o poi, avrebbe interessato - dopo il processo civile - anche quello penale, rimasto fino ad oggi sostanzialmente estraneo a ogni cambiamento radicale delle abitudini operative di tutti i suoi protagonisti, primi tra tutti gli avvocati.

La speranza di chi scrive è che lo svecchiamento di un sistema rigidamente ancorato alla forma anche quando la necessità di rispettarla non appare più in linea con i tempi e con le ragioni sostanziali che dimostrano possibile il suo superamento.

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