Lite temeraria ed abuso del processo: le criticabili Tabelle di Milano per la liquidazione di una somma equitativamente determinata ex art. 96, c. 3, c.p.c.
30 Marzo 2021
Le radici della lite temeraria
La disciplina della lite temeraria radica le sue radici in tempi non recenti. L'art. 370, comma 1, c.p.c. del Regno d'Italia del 1865, infatti, già disponeva che “la parte soccombente è condannata nelle spese del giudizio, e, trattandosi di lite temeraria, può inoltre essere condannata al risarcimento dei danni”. Il nostro ordinamento processualcivilistico, in tempi più recenti, ha recepito ed ampliato la disciplina della lite temeraria al fine di evitare abusi del processo costruendo una figura ad hoc nell'art. 96 c.p.c., rubricato “responsabilità aggravata”. La norma, che si inquadra nel più ampio concetto della responsabilità processuale:
Il primo comma
L'art. 96, comma 1, c.p.c., in particolare, stabilisce che il giudice, su istanza di parte, condanna la parte soccombente che abbia agito o resistito in giudizio con malafede o colpa grave, oltre che alle spese di lite, al risarcimento dei danni liquidati in sentenza anche d'ufficio. Tale disposizione, pertanto, presuppone: a) un requisito oggettivo costituito dalla soccombenza di una parte che deve essere totale con conseguente condanna alle spese di lite in quanto, in caso contrario, non può configurarsi la mala fede o la colpa grave che sono elementi necessari per la sussistenza di detta responsabilità e non può - pertanto - farsi luogo all'applicazione della norma in questione, quando si è verificata una soccombenza reciproca (Cass. 13 ottobre 2017 n. 24158; Cass. 14 aprile 2016 n.7409; Cass. 30 luglio 2010 n. 17902; Cass. 12 ottobre 2009 n.1590; Cass. 2 febbraio 2006 n. 2270; Cass. 2 marzo 2001 n. 3035; Cass. 15 settembre 2000 n. 12177; Cass. 28 luglio 2000 n. 9897) o una compensazione delle spese di lite; tale assunto trova conferma nella lettera della norma che subordina espressamente la disposizione della condanna della parte soccombente, a tale titolo, alla circostanza che vi sia stata la condanna alle spese di lite (“oltre che alle spese”); b) un requisito soggettivo costituito dalla mala fede o colpa grave del soccombente; c) il verificarsi di un conseguente danno a carico del vincitore.
La norma ha carattere generale e, pertanto, a dispetto della lettera che sembra riferirsi solo al giudizio di cognizione, si applica anche ai procedimenti esecutivi e cautelari fuori delle ipotesi di cui al successivo comma 2, nonché ai procedimenti di volontaria giurisdizione (Cass. n. 1251/1974). Il secondo comma
L'art. 96, comma 2, c.p.c., a sua volta stabilisce che il giudice, sempre su istanza di parte, condanna la parte soccombente che senza la normale prudenza - e, cioè, sulla base di un requisito soggettivo diverso e più ampio di quello considerato dal comma precedente - abbia: a) eseguito un provvedimento cautelare; b) trascritto una domanda giudiziaria; c) trascritto un'ipoteca giudiziale; d) iniziato o compiuto l'esecuzione forzata. Il terzo comma
Il tempo e l'esperienza, però, hanno evidenziato l'insufficienza dell'impianto originario soprattutto per la difficoltà applicativa dei due commi dell'art. 96 c.p.c. e la difficoltà per la parte vincitrice di provare un danno collegato al comportamento abusivo del soccombente. Il legislatore, pertanto, ha aggiunto alla norma in esame il terzo comma. L'art. 96, comma 3, c.p.c. - comma aggiunto dall'art. 45, comma 12, L. 18 giugno 2009, n. 69, con effetto a decorrere dal 4 luglio 2009 per i giudizi instaurati in primo grado dopo la data della sua entrata in vigore - stabilisce che il giudice, questa volta d'ufficio e, quindi, senza l'istanza di parte, in ogni caso, quando pronuncia sulle spese di lite, può condannare la parte soccombente anche al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata.
Tale disposizione - che ha superato varie volte il vaglio di legittimità costituzionale (Corte Cost. 6 giugno 2019 n. 139; Corte Cost. 23 giugno 2016 n. 152) ed ha allargato i margini della responsabilità aggravata già prevista e disciplinata dai primi due commi della stessa norma - si inserisce in un contesto normativo ove il legislatore riformatore: - da un lato ha stretto i margini per la compensazione delle spese di lite, che ai sensi dell'art. art. 92, comma 2, c.p.c., nel testo aggiornato con le modifiche introdotte dall'art. 13, comma 1, D.L. 12 settembre 2014 n. 132, convertito, con modificazioni, dalla L. 10 novembre 2014 n. 162 ed integrato con la sentenza additiva della Consulta (Corte Cost. 19 aprile 2018 n. 77) può essere disposta:
- dall'altro lato ha tipizzato ulteriori ipotesi di responsabilità disgiunta dalla soccombenza (senza alcuna presunzione di completezza o esaustività) nel caso di:
Tale disposizione, secondo un'interpretazione non solo letterale ma anche sistematica dei diversi commi dell'art. 96 c.p.c., ha natura non più solo risarcitoria (come i primi due commi) ma mista e, cioè, prevalentemente sanzionatoria (Sez. Un. 20 aprile 2018 n. 9915; Sez. Un. 20 aprile 2018 n. 9912; Sez. Un. 18 settembre 2017 n. 21544) e concorrentemente indennitaria (Corte Cost. 6 giugno 2019 n. 139; Corte Cost. 23 giugno 2016 n. 152) in quanto ha introdotto nell'ordinamento una sanzione processuale - atteso che prescinde del tutto dall'esistenza di danni risarcibili e dall'istanza di parte, consentendo la condanna d'ufficio - che assume la forma di un vero e proprio “danno punitivo” diretto a scoraggiare l'abuso del processo - quale esercizio improprio della parte, sia dal lato attivo che dal lato passivo, di iniziativa processuale o di scelta di strategie di difesa volte a conseguire un ingiusto vantaggio distorcendo i fini naturali del processo civile - al fine di preservare la funzionalità del sistema giustizia (Cass. 21 febbraio 2018 n. 4136; Cass. 29 settembre 2016 n. 19285).
L'art. 96, comma 3, c.p.c., quindi: - ha una funzione di deterrenza (Sez. Un. 5 luglio 2017 n. 16601); - mira a colpire le condotte abusive della parte e/o del difensore che vuole colpire la controparte al fine di danneggiarla o rendere difficoltoso il processo, contrarie ai principi di correttezza (art. 1175 c.c.), buona fede (art. 1375 c.c.) e lealtà processuale (art. 88 c.p.c.) nonché quelle suscettibili di ledere il principio di rilevanza costituzionale della ragionevole durata del giudizio e proprio in forza degli interessi pubblicistici che mira a realizzare è attivabile d'ufficio, senza la richiesta della parte e senza che quest'ultima dimostri di aver subito un danno alla propria persona o al proprio patrimonio in conseguenza del processo (com'è invece nella fattispecie di cui all'art. 96, comma 1, c.p.c.); - configura una sanzione di carattere pubblicistico, autonoma ed indipendente rispetto alle ipotesi di responsabilità aggravata ex art. 96, commi 1 e 2, c.p.c.; - richiede, per la sua applicabilità officiosa, la sussistenza:
Abuso del processo e Legge Pinto
L'abuso del processo è oggi esplicitamente riconosciuto nel ns. ordinamento anche dall'art. 2, comma 2-quinquies, L. 24 marzo 2001, n. 89 - comma aggiunto dall'art. 55, comma 1, lettera a), numero 2), D.L. 22 giugno 2012 n. 83, convertito con modificazioni dalla L. 7 agosto 2012 n. 134 e, successivamente, sostituito dall'art. 1, comma 777, lettera c), Legge 28 dicembre 2015 n. 208 - che ha previsto che non è riconosciuto alcun indennizzo per l'irragionevole durata del processo: a) in favore della parte che ha agito o resistito in giudizio consapevole dell'infondatezza originaria o sopravvenuta delle proprie domande o difese, anche fuori dai casi di cui all'art. 96 c.p.c.; b) nel caso di cui all'art. 91, primo comma, secondo alinea c.p.c. e, cioè, in caso di accoglimento della domanda in misura non superiore all'eventuale proposta conciliativa del giudice; c) nel caso di cui all'art. 13, comma 1, primo alinea D.lgs. 4 marzo 2010 n. 28 e, cioè, in caso di accoglimento della domanda in misura non superiore all'eventuale proposta conciliativa del mediatore; d) in ogni altro caso di abuso dei poteri processuali che abbia determinato una ingiustificata dilazione dei tempi del procedimento.
L'intento del legislatore, in questo caso, è chiarissimo: si ritiene immeritevole il litigante temerario che, altrimenti, verrebbe ingiustamente ed irragionevolmente premiato con l'indennizzo per l'irragionevole durata del processo invece di essere punito.
Il legislatore, in questo caso, a differenza dell'art. 96, comma 3, c.p.c., ha emanato una norma perfetta e, cioè, completa in quanto contiene: - sia la fattispecie sanzionatoria rappresentata dall'elencazione di cui alle lettere a), b) e c) che, comunque, non ha carattere tassativo ma meramente esemplificativo per la previsione della lettera d) che è aperta e lascia intendere che il legislatore, tipizzate alcune ipotesi di abuso, abbia voluto lasciare la possibilità di individuarne altre di pari livello (Cass. 26 maggio 2020 n. 9762; Cass. 12 dicembre 2019 n. 32689; Cass. 14 ottobre 2019 n. 25827; Cass. 14 gennaio 2019 n. 595; Cass. 12 ottobre 2015 n. 20465 che dovrebbe essere il leading case); - sia la sanzione rappresentata dal mancato riconoscimento dell'indennizzo. Le tabelle
L'Osservatorio sulla giustizia civile di Milano, al fine di verificare la possibilità di enucleare criteri orientativi di liquidazione di una “somma equitativamente determinata” ex art. 96, comma 3, c.p.c.: - nel corso del biennio 2015/2016 ha esaminato 38 provvedimenti tra sentenze ed ordinanze di giudici di merito in prevalenza del Tribunale di Milano ed ha estratto i dati salienti al fine di verificare i criteri di liquidazione (non in punto an debeatur, bensì esclusivamente) in punto quantum; - nel 2016, in occasione dell'Assemblea nazionale degli osservatori, ha presentato la sua proposta elaborata sulla scorta del primo campione di provvedimenti esaminati e con cui aveva previsto la liquidazione in misura pari ai compensi liquidati aumentabile fino al doppio; - successivamente, al fine di verificare la validità della proposta, ha esaminato 90 provvedimenti tra sentenze ed ordinanze di giudici di merito su base nazionale ma in prevalenza (78 su 90) del distretto milanese; - nel 2017, in occasione dell'Assemblea nazionale degli osservatori, ha confermato la sua precedente proposta anche alla luce delle disposizioni normative (art. 385, comma 4, c.p.c. abrogato) e della giurisprudenza di legittimità (Cass. 30 novembre 2012 n.21570); - nel 2018, dopo questo lungo iter durato circa quattro anni, ha pubblicato le sue tabelle “per la liquidazione ex art. 96 cpc terzo comma” con cui ha ridotto i limiti massimi della sua prima proposta del 2016.
L'Osservatorio, in particolare, con tali tabelle: - ha previsto che “l'importo ex art. 96 cpc terzo comma può essere determinato con riferimento al parametro del compenso defensionale liquidato in causa e, segnatamente, in un importo all'incirca pari al compenso defensionale, riducibile sino alla metà del compenso ed aumentabile della metà del compenso, in ragione delle circostanze specifiche dell'abuso”; - ha indicato cinque elementi presi in esame nei casi esaminati ai fini della graduazione della liquidazione:
Pars destruens
Varie sono le critiche sollevabili alle tabelle che, per chiarezza espositiva, vengono così riassunte per argomento: - la scelta; - il metodo; - gli indici di graduazione della liquidazione; - l'esempio chiarificatore. La scelta
La prima critica è la scelta di (ri)pubblicare le tabelle nel 2021 nella versione originaria del 2018 senza alcuna verifica e/o aggiornamento e/o integrazione. Gli anni trascorsi dalla loro prima pubblicazione (ben tre) sono tanti nell'attuale mondo giuridico che, tra l'altro, è stato caratterizzato da tanti cambiamenti.
Questo avrebbe dovuto indurre l'Osservatorio: - in primis a verificare la correttezza delle tabelle e/o dei criteri da esse prospettati; - in secundis averificare l'utilizzo delle tabelle e/o dei criteri da esse prospettati da parte della giurisprudenza; - in tertiis a confermare motivatamente le tabelle ovvero ad aggiornarle od integrarle.
Ma ciò, incomprensibilmente ed erroneamente per quanto di seguito si dirà, non ha fatto. Il metodo
La seconda critica è di metodo. L'Osservatorio, infatti, ha erroneamente ignorato o, quantomeno, non adeguatamente esaminato e valorizzato: - le norme di diritto espresse; - le decisioni della Suprema Corte di Cassazione.
Il nostro ordinamento è ispirato ad una struttura di civil law. I giudici, infatti, sono “soggetti soltanto alla legge” (art. 101, comma 2, Cost.) e non anche all'interpretazione che della legge forniscono gli altri giudici. Il valore giuridico delle sentenze, pertanto, nel ns. ordinamento resta quello di risolvere le controversie fra le parti, i loro eredi e aventi causa e non certo quello di fissare nuovi principi di diritto vincolanti, come avviene negli ordinamenti di common law grazie al criterio dello stare decisis. Questo comporta che l'Osservatorio avrebbe dovuto verificare l'esistenza di norme espresse che regolano casi simili. L'Osservatorio, per quello che qui rileva, ha indicato di aver tenuto conto delle indicazioni normative ed, in particolare, dell'art. “385 cpc quarto comma, norma antesignana dell'odierno terzo comma dell'art. 96 cpc, poi abrogata dalla l. n. 69/2009”. Quattro osservazioni critiche al riguardo.
Prima osservazione: la norma esaminata (art. 385, comma 4, c.p.c.) prevede, per il solo giudizio di legittimità, che la Suprema Corte di Cassazione, quando pronuncia sulle spese condanna anche d'ufficio la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma, equitativamente determinata, non superiore al doppio dei massimi tariffari dei compensi, se ritiene che essa ha proposto il ricorso o vi ha resistito anche solo con colpa grave. Tale norma, pertanto, pone un limite massimo diverso (pari al doppio dei massimi del compenso difensionale) che è ben maggiore rispetto a quello deliberato dall'Osservatorio (pari ad un volta e mezzo del compenso difensionale effettivamente liquidato). L'inchino (apparentemente) rispettoso fatto dall'Osservatorio alle indicazioni normative ed, in particolare, al su indicato art. 385, comma 4, c.p.c., pertanto, è solo formale in quanto, nei fatti, ha raggiunto conclusioni difformi.
Seconda osservazione: la norma esaminata (art. 385, comma 4, c.p.c.) - seppur è stata effettivamente abrogata dall'art. 46, comma 20, L. 18 giugno 2009 n. 69 con effetto a decorrere dal 4 luglio 2009 (come correttamente rilevato dall'Osservatorio) - è ancora vigente in quanto continua ad applicarsi nei giudizi di legittimità aventi ad oggetto sentenze pubblicate dopo tale data (4 luglio 2009) a condizione che il giudizio di primo grado sia stato instaurato anteriormente. L'art. 58, comma 1, L. 18 giugno 2009 n. 69, infatti, dispone che “le disposizioni della presente legge che modificano il codice di procedura civile...si applicano ai giudici instaurati dopo la data della sua entrata in vigore” e, cioè, dopo il 4 luglio 2009 e non alle sentenze (o alle impugnazioni avverso le sentenze) pubblicate dopo tale data, come invece previsto per singole disposizioni dal comma 4 del medesimo art. 58 (Sez. Un. 20 aprile 2018 n. 9915; conf. Cass. 3 aprile 2018 n.8064; Cass. 20 marzo 2018 n.6854; Cass. 16 marzo 2018 n.6629; Cass. 14 ottobre 2016 n.20732; Cass. 15 giugno 2016 n.12290; Cass. 16 marzo 2016 n.5264; Cass. 22 febbraio 2016 n.3377; Cass. 22 febbraio 2016 n.3376; Cass. 10 febbraio 2016 n.2684; Cass. 10 febbraio 2016 n.2683; Cass. 9 febbraio 2016 n.2584; Cass. 16 ottobre 2015 n.20946; Cass. 17 luglio 2015 n.15030; Cass. 26 giugno 2015 n.13208; Cass. 12 marzo 2015 n.4930; Cass. 20 gennaio 2015 n.817). La vigenza della norma - che assume particolare valore interpretativo anche analogico - è stata erroneamente ignorata dall'Osservatorio.
Terza osservazione: il legislatore con la stessa legge: - ha aggiunto il terzo comma all'art. 96 c.p.c. (art. 45, comma 12, L. 18 giugno 2009 n. 69); - ha abrogato l'art. 385, comma 4, c.p.c. (art. 46, comma 20, L. 18 giugno 2009 n. 69). Il legislatore, con tale scelta, ha contestualmente: - esteso la responsabilità sanzionatoria, già prevista per il solo giudizio di legittimità dall'art. 385, comma 4, c.p.c., anche ai giudizi di merito; - eliminato il limite massimo della sanzione pari al doppio dei massimi tariffari dei compensi.
Deve ritenersi, pertanto, che il legislatore con l'art. 96, comma 3, c.p.c., con l'eliminazione del limite massimo della sanzione, ha inteso ampliare la portata sanzionatoria del previgente art. 385, comma 4, c.p.c. e lasciare ampia discrezionalità ai giudici di merito e di legittimità sull'entità della sanzione che, quindi, certamente può essere comminata in misura anche maggiore rispetto al doppio dei massimi tariffari dei compensi. Se così non fosse il legislatore avrebbe certamente: - inserito anche nell'art. 96, comma 3, c.p.c. il limite massimo della sanzione; - ovvero, senza inserire il terzo comma all'art. 96 c.p.c., esteso direttamente l'applicabilità dell'art. 385, comma 4, c.p.c. anche ai giudizi di merito. La ratio della norma (art. 96, comma 3, c.p.c.) - che assume particolare valore interpretativo su quale fosse l'intenzione del legislatore - è stata erroneamente ignorata dall'Osservatorio.
Quarta osservazione: l'art. 26, comma 1, D.lgs 2 luglio 2010 n. 104 - comma modificato dall'art. 1, comma 1, lettera d), D.lgs. 14 settembre 2012 n. 160 e successivamente dall'art. 41, comma 1, lettera a), D.L. 24 giugno 2014 n. 90, convertito, con modificazioni, dalla L. 11 agosto 2014 n. 114 - rubricato “spese del giudizio” e relativo al processo amministrativo: - al primo alinea dispone che il giudice, quando emette una decisione, provvede anche sulle spese del giudizio, secondo gli artt. 91, 92, 93, 94, 96 e 97 c.p.c. tenendo anche conto del rispetto dei principi di chiarezza e sinteticità di cui all'art. 3, comma 2; - al secondo alinea dispone che il giudice, in ogni caso, anche d'ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, in favore della controparte, di una somma equitativamente determinata, comunque non superiore al doppio delle spese di lite liquidate, in presenza di motivi manifestamente infondati. La norma, pertanto: - da un lato prevede espressamente l'applicabilità anche al processo amministrativo di sette norme del (sulle otto previste dal) libro primo, titolo III, capo IV del c.p.c. rubricato “Delle responsabilità delle parti per le spese e per i danni”, tra cui anche l'art. 96 c.p.c.; - dall'altro lato formula un'analoga previsione a quella dell'art. 96, comma 3, c.p.c., ma questa volta perfetta e, cioè, completa in quanto contiene sia la fattispecie sanzionatoria (“in presenza di motivi manifestamente infondati”), sia la sanzione (in misura “non superiore al doppio delle spese liquidate”). L'esistenza della norma - che assume ancora una volta particolare valore interpretativo anche analogico - è stata erroneamente ignorata dall'Osservatorio. L'Osservatorio, per quello che qui rileva, ha indicato di aver tenuto conto delle indicazioni della giurisprudenza di legittimità ed, in particolare, di “Cass. n. 21570/2012”. Due osservazioni critiche al riguardo.
Prima osservazione: in sede civile la funzione nomofilattica è attribuita: - in generale, ai sensi dell'art. 65 R.D. 30 gennaio 1941 n. 12, alla Suprema Corte di Cassazione; - in particolare, ai sensi dell'art. 374, comma 3, c.p.c. - come sostituito dall'art. 8 D.lgs. 2 febbraio 2006 n. 40 - alle Sezioni Unite atteso che:
Questo comporta che l'Osservatorio avrebbe dovuto verificare: - in primis l'esistenza ed il contenuto delle decisioni delle Sezioni Unite sull'applicazione dell'art. 96, comma 3, c.p.c. - in secundis le decisioni ed il contenuto delle decisioni delle sezioni semplici sull'applicazione dell'art. 96, comma 3, c.p.c.
L'Osservatorio se avesse verificato anche prima della (ri)pubblicazione delle tabelle nel 2021, come avrebbe dovuto, l'esistenza ed il contenuto delle decisioni delle Sezioni Unite avrebbe potuto verificare che le stesse, in caso di accertata condotta processuale abusiva: - in un caso (che è anche il più recente) hanno condannato il soccombente al pagamento in favore della controparte, oltre che alle spese di lite, anche di un importo equitativamente determinato, ex art. 96, comma 3, c.p.c., in misura pari al doppio di quello liquidato per compensi defensionali ed in particolare hanno liquidato € 750,00 per compensi, oltre agli accessori di legge ed € 1.500,00, ai sensi dell'art. 96, comma 3, c.p.c. (Sez. Un. 20 febbraio 2020 n. 4315); - in quattro casi (di cui uno precedente alla pubblicazione delle tabelle nel 2018) hanno condannato il soccombente al pagamento in favore della controparte, oltre che alle spese di lite, anche di un importo equitativamente determinato, ex art. 96, comma 3, c.p.c., in misura pari a quello liquidato per compensi defensionali ed in particolare hanno liquidato:
Tale orientamento della Suprema Corte di Cassazione nel suo massimo consesso - che assume particolare valore per tutti gli operatori del diritto - è stato erroneamente ignorato dall'Osservatorio.
L'Osservatorio, ancora, se avesse verificato anche prima della (ri)pubblicazione delle tabelle nel 2021, come avrebbe dovuto, l'esistenza ed il contenuto delle decisioni delle sezioni semplici avrebbe potuto verificare che le stesse, in caso di accertata condotta processuale abusiva: - nella maggior parte dei casi hanno condannato il soccombente al pagamento in favore della controparte, oltre che alle spese di lite, anche di un importo equitativamente determinato, ex art. 96, comma 3, c.p.c., in misura pari o quasi a quello liquidato talvolta per compensi e talvolta per spese di lite e, cioè, comprensive di esborsi e compensi ed in particolare hanno liquidato:
- in taluni casi hanno condannato il soccombente al pagamento in favore della controparte, oltre che alle spese di lite, anche di un importo equitativamente determinato, ex art. 96, comma 3, c.p.c., in misura pari al doppio o quasi di quello liquidato per compensi ed in particolare hanno liquidato € 900,00 per spese di lite, di cui € 700,00 per compensi, oltre agli accessori di legge ed € 1.600,00 ai sensi dell'art. 96, comma 3, c.p.c. (Cass. 10 marzo 2021 n. 6655); - in taluni casi (di cui uno anche molto recente) hanno ritenuto che la condanna inflitta al giudice di merito di € 72.915,00 per responsabilità processuale aggravata, ai sensi dell'art. 96, comma 3, c.p.c., pari al 20% dell'importo ancora dovuto dal debitore al creditore, è corretta in quanto “la sentenza impugnata parametra la somma liquidata ex art. 96 c.p.c., comma 3, a quanto l'esecutato ancora deve al creditore. Sebbene usualmente si prenda a riferimento l'importo delle spese legali, l'ampia discrezionalità riservata al giudice dalla disposizione in esame impedisce che possa affermarsi l'irragionevolezza del criterio adottato, in ogni caso parametrato ad un dato oggettivo qual è il valore della causa” (Cass. 20 novembre 2020 n. 26435). Tale orientamento della Suprema Corte di Cassazione - che assume anch'esso particolare valore per tutti gli operatori del diritto - è stato erroneamente ignorato dall'Osservatorio.
Seconda osservazione: la Suprema Corte di Cassazione, con la decisione indicata come presa in esame dall'Osservatorio, ha ritenuto che la condanna inflitta al giudice di merito di € 2.250,00 per responsabilità processuale aggravata, ai sensi dell'art. 96, comma 3, c.p.c., pari al triplo dell'importo liquidato per compensi (nel caso esaminato diritti ed onorari), è corretta in quanto “il limite ancorato ai massimi tariffali era stato posto (per il giudizio di cassazione) dell'art. 385 c.p.c., espressamente abrogato dalla L. 69/2009 che ha introdotto la disposizione qui in esame che, invece, non contiene alcun limite quantitativo (né massimo, né minimo) e nessun riferimento alla liquidazione delle spese o ai massimi o minimi tariffari ma impone al giudice di osservare un criterio equitativo in applicazione del quale la responsabilità patrimoniale della parte in mala fede ben può essere (anche) calibrata sull'importo delle spese processuali o su un loro multiplo, sempre con il limite della ragionevolezza; secondo questi criteri il Tribunale, correttamente applicando la norma, ha liquidato l'importo (modesto in termini assoluti) nel triplo della somma, oggettivamente non rilevante, liquidata per diritti e onorari” (Cass. 30 novembre 2012 n. 21570). L'inchino (apparentemente) rispettoso fatto dall'Osservatorio alla giurisprudenza di legittimità ed, in particolare, alla su indicata decisione, pertanto, anche in questo caso è solo formale in quanto, nei fatti, ha raggiunto conclusioni difformi. Gli indici di graduazione della liquidazione
La terza critica è la scelta di indicare i cinque indici di graduazione della liquidazione utilizzati dalla giurisprudenza quali: - valore della causa; - durata del processo; - numero delle parti vittoriose (abusate da lite temeraria); - intensità dell'elemento soggettivo dell'abusante; - affaticamento derivato alla parte abusata dal processo temerario. Ciò per tre ordini di motivi.
In primis in quanto invece di indicare sic et sempliciter gli indici utilizzati - che così come esposti, sono ingannevoli - sarebbe stato preferibile specificare quali di tali indici sono stati utilizzati in relazione ai criteri di liquidazione adottati nei casi esaminati. Così, probabilmente, sarebbe stato chiarito, per esempio, che: - il valore della causa è il criterio utilizzato non certo per le liquidazioni parametrate alle spese di lite o ai compensi liquidati - che già tengono conto del valore della causa ex artt. 10 c.p.c., 4, comma 1 e 5, comma 1, D.M. 10 marzo 2014 n. 55 - ma per le liquidazioni parametrate ad un'aliquota del petitum; - la durata del processo è il criterio utilizzato non certo per le liquidazioni parametrate alle spese di lite o ai compensi liquidati ma per le liquidazioni parametrate ai criteri ex Legge Pinto; - l'affaticamento derivato alla parte abusata dal processo temerario è il criterio utilizzato non certo per le liquidazioni parametrate alle spese di lite o ai compensi liquidati - che già tengono conto delle caratteristiche e del pregio dell'attività prestata, dell'importanza, della natura, della difficoltà dell'affare, del numero e della complessità delle questioni giuridiche e di fatto trattate, ex art. 4, comma 1, D.M. 10 marzo 2014 n. 55 - ma per le liquidazioni effettuate secondo equità pura o parametrate alle spese per ricerca documenti.
In secundis in quanto sarebbe stato certamente preferibile specificare gli (o suggerire agli operatori l'utilizzo degli) indici da applicare per le liquidazioni ex art. 96, comma 3, c.p.c.. L'obiettivo delle tabelle, infatti, è quello di enucleare criteri orientativi, come indicato all'inizio delle stesse. Tale obiettivo, unitamente a quelli ulteriori comuni a tutte le altre tabelle quali quelli di: - superare il criterio dell'equità pura; - agevolare l'uniformità e prevedibilità delle decisioni e, conseguentemente, la soluzione conciliativa della lite; avrebbe richiesto di indicare agli operatori, anche solo come suggerimento, gli indici da applicare per le liquidazioni ex art. 96, comma 3, c.p.c..
Del resto, questo è il criterio utilizzato nella redazione delle altre tabelle come, per esempio, quelle “da perdita del rapporto parentale” che non indicano agli operatori le circostanze utilizzate dalla giurisprudenza per la liquidazione del danno non patrimoniale bensì indicano le circostanze (che ovviamente non sono tassative) che vanno prese in considerazione per la liquidazione del danno non patrimoniale nella forbice dei valori prospettati per i vari rapporti di parentela quali: - sopravvivenza o meno di altri congiunti del nucleo familiare primario (famiglia nucleare); - convivenza o meno di questi ultimi con la vittima secondaria; - qualità della relazione affettiva familiare residua; - intensità della relazione affettiva familiare residua; - qualità della relazione affettiva tra vittima primaria e vittima secondaria; - intensità della relazione affettiva tra vittima primaria e vittima secondaria; - età della vittima primaria; - età delle vittime secondarie.
In tertiis in quanto guardando senza pregiudizi all'immenso mondo giudico che ci circonda ci si sarebbe potuti accorgere che vi sono anche altre norme che disciplinano le sanzioni civili ed i criteri per la loro quantificazione. L'art. 5 D.lgs. 15 gennaio 2016 n. 7 - recante abrogazione di reati e introduzione di illeciti con sanzioni pecuniarie civili, a norma dell'art. 2, comma 3, L. 28 aprile 2014 n. 67 - rubricato “Criteri di commisurazione delle sanzioni pecuniarie”, in particolare, prevede sei criteri che il giudice deve adottare per determinare l'importo della sanzione pecuniaria civile: a) gravità della violazione; b) reiterazione dell'illecito; c) arricchimento del soggetto responsabile; d) opera svolta dall'agente per l'eliminazione o attenuazione delle conseguenze dell'illecito; e) personalità dell'agente; f) condizioni economiche dell'agente.
La maggior parte di tali criteri sono certamente utilizzabili, per identità di ratio, anche per determinare le liquidazioni ex art. 96, comma 3, c.p.c.. L'ultima critica è relativa all'esempio chiarificatore finale. L'Osservatorio, infatti, al termine delle tabelle, ha riportato il seguente esempio: “se il compenso liquidato in causa è pari ad € 4.850,00, l'importo ex art. 96 cpc terzo comma potrà essere tendenzialmente determinato in € 4.500,00, sarà riducibile sino ad € 2.500,00 ed aumentabile sino ad € 7.300,00, in ragione delle caratteristiche specifiche dell'abuso del processo”. Da un punto di vista matematico l'esempio chiarificatore su riportato e trascritto tale non è in quanto è palesemente errato e, quindi, tradisce lo scopo per il quale è stato esposto. L'esempio, infatti, da un punto di vista matematico non coincide con la regola enunciata secondo cui la “somma equitativamente determinata” ex art. 96, comma 3, c.p.c. può essere determinata con riferimento al compenso defensionale liquidato in causa, riducibile fino alla metà (50%) ed aumentabile fino alla metà (50%). Criticabile è, innanzi tutto, la scelta di non aver scelto una cifra iniziale tonda del compenso e, cioè, composta da un numero tondo senza frazioni o decimali come 100, 1.000 o 10.000 che avrebbe certamente consentito più facilmente a tutti, anche a mente, di applicare e comprendere sia la riduzione che l'aumento del 50%.
Infatti preso a parametro l'importo tondo di € 10.000,00 del compenso eventualmente liquidato in causa, l'importo minimo liquidabile ex art. 96, comma 3, c.p.c. sarebbe stato di € 5.000,00 (riduzione del 50%) e l'importo massimo di € 15.000,00 (aumento del 50%). Questo avrebbe certamente aiutato: - i redattori a non fare gli errori che subito si evidenzieranno; - i lettori a meglio comprendere le oscillazioni tabellari. Errati sono, poi, gli importi indicati a titolo di esempio dopo il primo che non corrispondono alla regola in precedenza enunciata.
Infatti: - se il compenso liquidato in causa è pari ad € 4.850,00 come indicato, l'importo ex art. 96, comma 3, c.p.c. può essere determinato in € 4.850,00 (che è l'importo del compenso in precedenza indicato) e non quello inferiore di € 4.500,00 come indicato in quanto “l'importo ex art. 96 cpc terzo comma può essere determinato con riferimento al parametro del compenso defensionale liquidato in causa”; - se l'importo ex art. 96, comma 3, c.p.c. è determinato in € 4.500,00 come indicato nell'esempio:
Insomma, un vero e proprio ingiustificabile pasticcio matematico che, incomprensibilmente, non è stato coretto dopo ben tre anni. Pars costruens
Il compito dei giuristi è quello di interpretare le norme soprattutto al cospetto di lacune normative nell'ordinamento. L'art. 96, comma 3, c.p.c. è una norma imperfetta in quanto non contiene: - né la fattispecie sanzionatoria, che è stata ricavata dalla giurisprudenza in via di interpretazione dai primi due commi della stessa norma; - né la sanzione che, pertanto, può solo essere ricavata dagli interpreti da qualsiasi norma di diritto, sia espressa sia in via di interpretazione.
Del resto l'interpretazione giuridica - che muove i suoi primi passi con Cicerone che la presenta con la nota tripartizione che consisteva nel cavere, respondere e agere (De oratore, 1.48.212) - costituisce l'onere e l'onore degli interpreti da molti secoli, come testimoniato da Pomponio che offre una sorta di storia dell'esperienza giuridica romana fin dalle origini e spiega il succedersi dei giuristi: “quod constare non potest ius, nisi sit aliquis iuris peritus, per quem possit cottidie in melius produci” (Digesta, 1.2.2.13) (“poiché il diritto non può esistere se non c'è qualcuno esperto del diritto che di giorno in giorno possa migliorarlo” nella versione di De Marini; “poiché il diritto non può sussistere se non vi sia qualche giurisperito grazie al quale esso possa quotidiamente perfezionarsi” nella versione di Crifò).
Una compiuta interpretazione storica e sistematica dell'art. 96, comma 3, c.p.c., delle varie norme dell'ordinamento e dei precedenti di legittimità e di merito avrebbe dovuto o, quantomeno potuto, indurre l'Osservatorio: - a pervenire a conclusioni difformi e più coerenti; - ad indicare differenti indici di graduazione della liquidazione; - a riportare un semplice e corretto esempio chiarificatore finale. Conclusioni ragionevoli e coerenti - epurate dal limite minimo che appare superfluo - potrebbero essere le seguenti: - l'importo ex art. 96, comma 3, c.p.c. è liquidato di regola nello stesso importo liquidato a titolo di spese di lite; - tale importo può essere liquidato:
La locuzione avverbiale “di regola” così inserita nelle conclusioni, secondo un'interpretazione sia letterale che logica, consentirebbe di liquidare l'importo ex art. 96, comma 3, c.p.c. ordinariamente nella stessa misura di quella liquidata a titolo di spese di lite (così come avviene nella maggior parte dei casi). Le ipotesi residue peculiari ed eccezionali così inserite nelle conclusioni, invece, consentirebbero di liquidare, ma con un'adeguata motivazione, l'importo ex art. 96, comma 3, c.p.c. in misura maggiore tenendo conto delle particolarità del caso esaminato onde consentire - analogamente a ciò che avviene per la liquidazione dei danni presi in esame dalle altre tabelle milanesi quali quelle del danno non patrimoniale da lesione alla integrità psico-fisica, da perdita del rapporto parentale, da grave lesione del rapporto parentale, da lesione del bene salute da premorienza, da mancato/carente consenso informato in ambito sanitario, c.d. terminale e da diffamazione a mezzo stampa e con altri mezzi di comunicazione di massa - un'adeguata personalizzazione complessiva della liquidazione. Indici di graduazione della liquidazione
Gli indici di graduazione della liquidazione - epurati da quelli relativi a criteri diversi e non più attuali (valore della causa, durata del processo e affaticamento derivato alla parte abusata dal processo) e da quello superfluo (numero delle parti vittoriose abusate da lite temeraria) - potrebbero essere i seguenti: - intensità dell'elemento soggettivo dell'abusante; - gravità dell'abuso; - reiterazione dell'abuso in casi simili (come potrebbe avvenire per un professionista quali sono multinazionali, società, banche, imprese di assicurazione, strutture sanitarie, Ministeri, ecc.); - personalità dell'abusante; - condizioni economiche dell'abusante; - auspicato arricchimento dell'abusante. Esempio chiarificatore
L'esempio chiarificatore finale - inserito un numero iniziale tondo - potrebbe essere il seguente: se le spese di lite liquidate in causa sono pari ad € 10.000,00 oltre accessori: - l'importo ex art. 96, comma 3, c.p.c. è liquidato di regola nello stesso importo di € 10.000,00; - l'importo ex art. 96, comma 3, c.p.c. può essere liquidato:
La metafora di Bacone Utilizzando la metafora di Bacone delle formiche, dei ragni e delle api si comprende meglio ciò che l'Osservatorio ha fatto e ciò che invece avrebbe dovuto fare. L'Osservatorio, infatti: - un po' come le formiche accumulatrici, che raccolgono tutto quello trovano, ha raccolto precedenti e dati, ma non ha costruito un'interpretazione che renda coerente il tutto; - un po' come i ragni, che creano loro stessi la ragnatela ed aspettano di prendere quello che la realtà darà loro, ha costruito le tabelle prevalentemente sui suoi precedenti giurisprudenziali senza sperimentarle nella realtà per dimostrarne la sostenibilità, la fattibilità e la coerenza. L'Osservatorio, invece, avrebbe dovuto agire come le api che prima prendono il nettare che sta nei fiori, poi elaborano ciò che hanno preso e creano una sostanza nuova, frutto del loro lavoro, che è il miele. |