Minorenne si tatua con il consenso solo della madre, il padre come può tutelare il suo diritto ad essere informato?
02 Aprile 2021
Genitori divorziati con figli in affidamento condiviso e residenti presso la madre. il padre scopre tramite facebook che la figlia minorenne ha fatto un tatuaggio a sua insaputa e senza il suo consenso. Come può il padre agire contro l'ex moglie, madre della minore, per non essere stato consultato in proposito?
Occorre in primo luogo premettere che disciplina dell'affidamento condiviso dei figli minori nell'ambito delle procedure di separazione, divorzio e relative a figli di genitori non coniugati (introdotta per la prima volta nel nostro ordinamento dalla l. 8 febbraio 2006, n. 54) è oggi contenuta nell'art. 337-ter c.c., introdotto dal d.lgs. 28 dicembre 2013, n. 154. Tale norma sancisce che la responsabilità genitoriale debba essere esercitata da entrambi i genitori e che le decisioni di maggiore interesse relative alla prole concernenti l'istruzione, l'educazione, la salute e la scelta della residenza abituale del minore debbano essere assunte di comune accordo tenendo in considerazione le capacità, l'inclinazione naturale e le aspirazioni dei figli. Ciò significa, in sostanza, che per quanto attiene le scelte davvero importanti per i figli dovrà esserci necessariamente l'accordo tra i genitori. In difetto bisogna necessariamente rivolgersi al Giudice. Ritengo che la questione del tatuaggio sul minore possa certamente annoverarsi tra quelle decisioni di “maggior interesse” che debbano essere preventivamente concertate tra i genitori i quali devono esprimere entrambi un valido consenso all'operazione (specie se il minore ha una età compresa tra i 14 e i 18 anni). A tale conclusione si può del resto giungere soffermandosi sulle note responsabilità penali in cui potrebbe incorrere anche il tatuatore per aver effettuato un tatuaggio sul corpo di un minore senza il consenso di entrambi i genitori. La Corte di Cassazione ha stabilito infatti che chi pratica un tatuaggio ad un soggetto minorenne deve accertarsi che i genitori abbiano dato il proprio consenso, perché in caso contrario risponde del reato di lesioni volontarie potendo ritenersi il tatuaggio una "malattia" che produce un'alterazione delle funzioni sensoriali e protettive della cute della minore (Cfr. Cass. pen., sez. V, sent.14 dicembre 2005, n. 45345) Nel caso di specie il padre non è stato minimamente consultato avendo scoperto solo tramite Facebook che la figlia minorenne si era fatta un tatuaggio a sua insaputa (o comunque con il consenso della sola madre che non si è premurata di acquisire preventivamente anche il consenso dell'altro genitore). L'approccio materno mal si concilia con la condivisione della responsabilità genitoriale e con i modelli comportamentali che regolano l'affidamento condiviso essendo evidente come il tatuaggio comporti una deformazione artificiale permanente dei tessuti cutanei e quindi rappresenti una pratica (peraltro rischiosa tenuto conto della possibilità di eventuali infezioni) che incide sul diritto (inviolabile) e costituzionalmente garantito alla salute e all'integrità fisica della persona. Il padre ben quindi potrebbe adire l'autorità giudiziaria, avendo la madre preso unilateralmente assunta una iniziativa importante riguardante la figlia senza interpellarlo. Quanto ai rimedi esperibili, si segnala che in caso di gravi inadempienze o di atti che comunque arrechino pregiudizio al minore od ostacolino il corretto svolgimento delle modalità di affidamento, l'ordinamento prevede specifici meccanismi risarcitori o sanzionatori, la cui applicazione è modulata tenendo conto della peculiarità del caso. L'art. 709-ter c.p.c. individua ad esempio tre tipologie di misure afflittive: l'ammonizione, il risarcimento dei danni nei confronti del minore e dell'altro genitore, la condanna al pagamento di una sanzione amministrativa pecuniaria. Nel caso in esame il padre potrebbe rivolgersi al Giudice e chiedere che la madre venga ammonita per aver violato le regole dell'affido condiviso (ovvero per non averlo reso partecipe di un'iniziativa riguardante la salute della figlia e che quindi andava condivisa). Ritengo, invece, più ostico l'eventuale accoglimento della richiesta di risarcimento dei danni che dovesse essere avanzata nei confronti della madre ai sensi dell'art. 709-ter c.p.c. in mancanza di sufficienti indici per rilevare un pregiudizio effettivo patito dal padre ed il rapporto eziologico tra questo e la condotta materna. Parte della giurisprudenza ha rilevato infatti che il rimedio risarcitorio previsto dall'art. 709-ter risponde ad una logica punitiva, deterrente e sanzionatoria incompatibile con il tradizionale ruolo della responsabilità civile che è considerato quello «di restaurare la sfera patrimoniale del soggetto che ha subito la lesione, mediante il pagamento di una somma di denaro che tenda ad eliminare le conseguenze del danno arrecato». La Corte di Cassazione ha ritenuto al riguardo che l'irrogazione nell'ambito del processo civile di sanzioni con finalità afflittive e deterrenti deve ritenersi contraria all'ordine pubblico, perché estranea ai principi risarcitorio-indennitari propri del nostro ordinamento (Cfr. Cass. 19 gennaio 2007, n. 11839).
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