Illegittima la preclusione in tema di detenzione domiciliare per condannati recidivi ultrasettantenni
06 Aprile 2021
Abstract
La sentenza costituzionale n. 56/2021 espunge dalla disciplina della detenzione domiciliare per condannati recidivi ultrasettantenni (art. 47-ter, comma 01, legge 26 luglio 1975, n. 354) una preclusione assoluta introdotta dalla l. n. 251/2005, restituendo all'apprezzamento del giudice di sorveglianza la concreta valutazione dei presupposti di concessione della misura, concepita quale beneficio volto, in una prospettiva umanitaria, ad evitare la restrizione carceraria a condannati che in ragione dell'età devono ritenersi presuntivamente incompatibili con la detenzione ordinaria. Cade la preclusione alla concessione della detenzione domiciliare per i condannati recidivi ultrasettantenni
La Corte costituzionale, con la sentenza n. 56 del 9 marzo 2021, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 47-ter, comma 01, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), limitatamente alle parole «né sia stato mai condannato con l'aggravante di cui all'articolo 99 del codice penale». La Consulta, rimuovendo la preclusione assoluta alla concessione della misura domiciliare in favore dei condannati recidivi ultrasettantenni, e restituendo in tal modo alla valutazione del giudice di sorveglianza la possibilità di applicare in beneficio domiciliare nei confronti di quei soggetti di età avanzata nei cui confronti ragioni umanitarie fanno ritenere sussistente una presunzione di incompatibilità con la restrizione carceraria. Come è noto, il comma 01 dell'art.47-ter, ord. penit. è stato introdotto con l'art. 7, comma 2, della l. n. 251/2005. Tale disposizione stabilisce che la pena della reclusione, di qualunque entità, possa essere espiata dal condannato ultrasettantenne “nella propria abitazione o in altro luogo pubblico di cura, assistenza, accoglienza”. Il legislatore individua, quale destinatari della misura, i soggetti che abbiano compiuto i settanta anni d'età al momento della decisione del Tribunale di Sorveglianza. Il requisito in esame, che integra il principale presupposto per la concessione della tipologia di detenzione domiciliare in esame, sembra sottendere una presunzione legale di incompatibilità con la detenzione ordinaria, a prescindere, quindi, dalle condizioni psicofisiche del soggetto nel caso concreto. La giurisprudenza, infatti, ha in più occasioni ribadito che: “è immanente al vigente sistema normativo una sorta di incompatibilità presunta con il regime carcerario per il soggetto che abbia compiuto i settanta anni, sicché, nell'ipotesi di esecuzione della pena detentiva che lo riguardi, in presenza di un'istanza di differimento per motivi di salute o, in alternativa, di detenzione domiciliare, l'indagine del giudice in ordine alla gravità delle infermità che lo affliggono e alla loro compatibilità con lo stato detentivo non è decisiva, pur se utile, mentre è determinante l'accertamento della sussistenza di circostanze eccezionali, tali da imporre l'inderogabilità dell'esecuzione stessa ovvero da contrastare con la possibilità di renderla meno afflittiva, ricorrendone le condizioni di legge, mediante la detenzione domiciliare” (Cass., sez. I, 12.02.2001, Passafini, CED 218640). Alla base della detta presunzione sta una regola di esperienza che attribuisce una ridotta pericolosità sociale alla persona ultrasettantenne, pur dovendosi comunque escludere che la carcerazione dei soggetti in età avanzata possa di per sé contrastare con il divieto di trattamenti contrari al senso di umanità, così come riconosciuto anche dalla giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo. Si tratta di una presunzione (relativa) di incompatibilità del soggetto ultrasettantenne con il regime carcerario fondata, per un verso, su ragioni umanitarie, alla luce della particolare afflittività della vita carceraria vissuta da una persona ormai non più nel pieno delle forze e, per l'altro verso, sul riconoscimento, da parte del legislatore, dell'inadeguatezza del carcere a svolgere pienamente la funzione risocializzatrice prevista dall'art. 27, terzo comma, della Carta fondamentale nei confronti di un detenuto di età ormai avanzata. Tale lettura sarebbe confermata dalla particolare latitudine dei presupposti applicativi della misura, che – come si vedrà subito - non è soggetta a limiti di pena e dipende essenzialmente dal raggiungimento del settantesimo anno di età da parte del condannato. In effetti, la misura in esame è applicabile il rapporto a qualunque pena detentiva temporanea, incluso l'arresto (quest'ultimo, pur non espressamente menzionato dal legislatore). La mancata indicazione della pena dell'arresto deve, infatti, ritenersi imputabile ad una mera svista legislativa che nulla incide sulla possibilità di concessione della misura ai condannati a questa pena che deve, dunque, intendersi implicitamente ricompresa nella dizione normativa, restandone esclusa la sola pena dell'ergastolo. L'applicazione della misura non è, tuttavia, automatica, spettando pur sempre alla magistratura di sorveglianza una valutazione in ordine alla meritevolezza del soggetto e all'idoneità della stessa di favorirne il reinserimento sociale (Cass., Sez. I, 2.02.2007, Emilio, CED 236574; Cass., Sez. I, 13.07.2006, Pintus, CED 234434; Cass., Sez. I, 18.06.2008 n. 28555, CED 240600). La persona ultrasettantenne, per aspirare alla concessione della detenzione domiciliare, non deve aver riportato condanne per i reati previsti dal libro II, titolo XII, capo III, sezione I, c.p. e dagli articoli 609-bis, 609-quater e 609-octies del medesimo codice, dall'articolo 51, comma 3-bis, c.p.p. e dall'articolo 4-bis, ord. penit. (cfr. Cass., Sez. I, 27.01.2009, Messana, CED 243451 che ha escluso l'applicazione della misura nei confronti di un settantunenne condannato per strage; conf. Cass., Sez. I, 05.07.2006, Spallone, CED). L'ostatività in esame ha carattere assoluto con riguardo ai particolari delitti richiamati dalla disposizione in analisi, in quanto la legge non fa che disporre un rinvio recettizio alle relative fattispecie, senza che l'ostacolo possa essere superato dal ricorrere di quelle altre condizioni che legittimano invece la concessione di benefici penitenziari a norma dello stesso art. 4-bis (es. collaborazione con la giustizia, assenza di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica od eversiva, etc.: Cass., Sez. I, 10.12.2010 n. 13605, Sellitto; Cass., Sez. I, 6.05.2010 n. 20278 Lombardo, CED 247214; Cass., Sez. I, 5.07.2006 n. 24699, CED 234380). Presupposto di natura soggettiva è, altresì, l'assenza in capo all'interessato della declaratoria di delinquenza abituale, professionale o per tendenza (preclusione che non ricorre ove il competente magistrato di sorveglianza abbia provveduto alla revoca della medesima). Anche la species di detenzione domiciliare di cui al comma 01 in commento soggiace, inoltre, alla preclusione di cui all'art. 58-quater ord. penit. (divieto di concessione triennale del beneficio in caso di revoca di precedente misura: Cass., Sez. I, 17.10.2007, n. 42992, Perla, CED 238121; Cass., Sez. I, 13.07.2006 n. 27853, CED 234434). Infine, l'interessato non deve essere stato “mai condannato con l'aggravante di cui all'articolo 99 del codice penale”. La detta condizione ostativa è integrata - stante il tenore normativo - da qualunque condanna subìta in ogni tempo dall'interessato, con la quale sia stata ritenuta sussistente l'aggravante della recidiva (dunque, rileva in senso ostativo la recidiva anche semplice), sempre che quest'ultima abbia concretamente influito nella determinazione della pena (Cass., Sez. I, 22.09.2006 n. 34040, CED 235190). Da ciò emerge una evidente contraddizione della disciplina normativa che, da un lato, esclude dalla detenzione domiciliare l'ultrasettantenne al ricorrere delle condizioni ostative del comma 01 dell'art. 47-ter ord. penit.; dall'altro, consente al recidivo di accedere alla misura se sussistono le condizioni del comma 1 (si deve ritenere, infatti, che l'ultrasettantenne, benché recidivo, possa usufruire della detenzione domiciliare laddove si sia in presenza delle condizioni dell'evocato comma 1 dell'art. 47-ter). La riconosciuta natura discrezionale della applicazione del beneficio de quo ha indotto in passato la Cassazione a ritenere manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale di tale disciplina, in relazione agli artt. 3 e 27 Cost., in quanto l'assenza d'automatismo nella concessione del beneficio a seguito delle modifiche apportate dall'art. 7, l. 5 dicembre 2005, n. 251 all'art. 47-ter, l. 26 luglio 975 n. 354 non comporta alcun contrasto con i principi di ragionevolezza e di rieducazione della pena (Cass., Sez. I, 18.06.2008, n. 28555, Graziano). La questione di costituzionalità dell'art. 47-ter, comma 01, della legge 26 luglio 1975, n. 354 è stata proposta dal Magistrato di Sorveglianza di Milano in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost. Il giudice a quo dubita della legittimità costituzionale della preclusione assoluta contenuta nella disposizione penitenziaria de qua sotto articolati profili. Anzitutto, il rimettente contesta che l'applicazione della recidiva cristallizzi necessariamente un giudizio di maggiore pericolosità del condannato, poiché tale circostanza si riferisce, piuttosto, ad una valutazione di maggior disvalore del fatto commesso, la cui applicazione , oltretutto, dipende in concreto da fattori variabili (quali la contestazione da parte della pubblica accusa e la discrezionalità del giudicante nel riconoscerla e applicarla) che fuoriescono dal profilo di apprezzamento hic et nunc della pericolosità soggettiva del condannato. Tale giudizio, in ogni caso, “fotografa” la situazione esistente al momento della commissione del reato, che può essere anche molto diversa da quella sussistente nella fase dell'esecuzione, in cui il giudice di sorveglianza è chiamato a formulare il giudizio di pericolosità di propria competenza con riferimento all'attualità. Ancorare il divieto assoluto di applicazione della detenzione domiciliare alla circostanza dell'applicazione della recidiva (cioè – come si è visto – di una circostanza che incide sulla commisurazione della pena) appare contraddittorio nel momento in cui il beneficio viene espressamente esteso ad ogni condanna a pena temporanea, a prescindere dunque dal quantum di essa. Una tale configurazione viola – così osserva il rimettente – il «principio di eguaglianza, proporzionalità e ragionevolezza» di cui all'art. 3 Cost., cristallizzando una presunzione legale di immeritevolezza del condannato ai fini dell'accesso alla misura alternativa con caratteristiche di arbitrarietà e irrazionalità, in quanto non rispondenti a dati di esperienza generalizzati. Altresì violato risulta il principio di proporzionalità della pena, connesso alla funzione rieducativa che l'art. 27, comma 3, Cost. affida alla pena stessa, destinata a svilupparsi sulla base della valutazione sulla persona effettuata, nel corso dell'esecuzione della pena, dalla magistratura di sorveglianza che tiene conto sia della pericolosità soggettiva attuale del condannato, sia delle concrete possibilità di risocializzazione del medesimo mediante la fruizione di benefici e misure alternative alla detenzione (Corte cost., sent. n. 149 del 2018, n. 291, n. 189 del 2010, n. 255 del 2006 e n. 436 del 1999). Con una duplice prospettazione, il rimettente chiedeva in via principale la declaratoria di incostituzionalità “secca” della evocata disposizione ovvero, in subordinata alternativa, la censura «nella parte in cui non prevede che i condannati ultrasettantenni che abbiano riportato condanne con l'aggravante della recidiva non possono usufruire della misura della detenzione domiciliare prevista dalla norma in esame, salva l'ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti cessata o grandemente diminuita la pericolosità del soggetto». I profili di dubbio affrontati dalla Consulta
La prospettazione del giudice rimettente si fonda sulla giurisprudenza costituzionale - puntualmente richiamata nell'ordinanza di promovimento - che, nel corso del tempo, ha progressivamente eroso il sistema di automatismi applicativi in materia cautelare e di applicazione dei benefici penitenziari, la cui disciplina è contrassegnata da una rete di preclusioni – fondate essenzialmente su valutazioni di politica criminale – destinate a scattare nei confronti degli autori di determinati reati, ritenuti dal legislatore espressivi di una capacità criminale e di una connessa pericolosità soggettiva incompatibile con l'accesso a misure cautelari diverse dalla custodia in carcere o alle misure alternative alla detenzione. L'argomento fondamentale portato dalla giurisprudenza costituzionale evocata dal rimettente si incentra sul principio che le preclusioni assolute in tanto possano ritenersi costituzionalmente compatibili, in quanto riposino su regole esperienziali non facilmente confutabili; laddove, al contrario, le dette ostatività devono ritenersi illegittime laddove sia agevole formulare «ipotesi di accadimenti reali contrari alla generalizzazione posta a base della presunzione stessa, potendosi riscontrare nella pratica condannati con recidiva per nulla pericolosi e condannati senza recidiva molto pericolosi, in entrambi i casi per ragioni imponderabili». Nel campo di operatività delle misure extramurarie applicabili nella fase esecutiva, inoltre, le preclusioni assolute si pongono in contrasto con la necessità costituzionale – sottesa al disposto dell'art. 27, comma 3, Cost. – che il giudizio sulla personalità del reo e sulla sua pericolosità soggettiva sia condotto dal giudice di sorveglianza alla luce della evoluzione della personalità e di tutti gli elementi di valutazione del singolo caso, anziché muoversi nell'ambito di logiche meramente presuntive. Nel caso di specie, peraltro, l'obiezione che si pone – veicolata dall'Avvocatura dello Stato – è il rilievo che non si avrebbe, nel caso in esame, alcun automatismo, poiché la preclusione nascente dallo status di recidivo deriverebbe, in effetti, da una valutazione individualizzata, compiuta dal giudice di cognizione nel momento in cui ha ritenuto la sussistenza della recidiva nella sentenza di condanna. Salverebbe, in ogni caso, la legittimità della disciplina censurata il riferimento all' ampia discrezionalità che tradizionalmente il sistema attribuisce al potere legislativo, il quale ben potrebbe, dunque, introdurre una disciplina normativa connotata da presunzioni con l'unico limite della manifesta irragionevolezza o dell'arbitrio delle scelte operate. Da questo punto di vista, la preclusione di cui al comma 01 dell'art. 47-ter, ord. pen., non sarebbe irrazionale nella misura in cui non potrebbe ritenersi manifestamente irragionevole o arbitrario esprimere un giudizio negativo circa la futura condotta di un soggetto dichiarato recidivo. Del resto – rileva ancora l'Avvocatura - con un recente arresto (Corte cost., sent. n. 50/2020) la Corte ha “salvato” una preclusione assoluta analoga a quella qui in esame, proprio riferita alla detenzione domiciliare (in questo caso, si trattava della specie disciplinata nel comma 1-bis dell'art. 47-ter, ord. pen.), riconoscendo come non manifestamente arbitraria la presunzione di inidoneità della detenzione domiciliare ad assicurare le esigenze preventive nel caso di condannati per determinati reati, in relazione ai quali non appare irragionevole esprimere una prognosi negativa circa il grado di pericolosità sociale. Nel caso della recidiva, inoltre, deve osservarsi che il relativo riconoscimento esprime un più accentuato grado di colpevolezza, essendo maggiormente rimproverabile la commissione di un nuovo reato ad un soggetto già più volte condannato (In questo senso, è richiamata la sentenza costituzionale n. 73 del 2020), in esito a un giudizio calibrato sulla distanza temporale tra le diverse condotte criminose e sulla tipologia dei diversi illeciti commessi. Il dictum costituzionale
La Corte procede alla disamina della quaestio richiamando, in chiave comparatistica, l'affine misura della detenzione domiciliare per condannati ultrasessantenni (art. 47-ter, comma 1, lett. d), ord. penit.) e ricordando le ragioni che hanno mosso il legislatore a introdurre condizioni di maggior favore per la concessione della misura domiciliare ai condannati ultrasettantenni prevista dal comma 01 della evocata disposizione penitenziaria, riconducibili, in particolare, alla considerazione che all'avanzare dell'età corrisponda una progressiva diminuzione della pericolosità sociale e che il condannato anziano viva la carcerazione con un surplus di afflittività connesso anche alla necessità, statisticamente presente negli anziani, di maggiore bisogno di cura e assistenza personalizzate, che difficilmente possono essere assicurate nel contesto intramurario. Si tratta, in definitiva, di assicurare, mediante il ricorso all'istituto della detenzione domiciliare, l'umanità dell'esecuzione della pena piuttosto che perseguire l'obiettivo della risocializzazione del reo (finalità che, comunque, non viene del tutto obliterata). Osserva il Giudice delle leggi che la medesima ratio è sottesa alla disciplina delle misure cautelari di cui all'art. 275, comma 4, secondo periodo, c.p.p., secondo cui la custodia cautelare in carcere non può essere disposta, nei confronti di chi abbia compiuto settant'anni, salvo che sussistano «esigenze cautelari di eccezionale rilevanza»; imponendosi in ogni altro caso il ricorso alla misura meno gravosa degli arresti domiciliari. La disciplina cautelare impone, dunque, al giudice della cautela di dare prevalenza – nella ponderazione degli elementi valutativi – al valore umanitario piuttosto che alle pur presenti esigenze cautelari pur astrattamente idonee a legittimare l'applicazione della misura cautelare carceraria. Nel caso della detenzione domiciliare per ultrasettantenni – osserva ancora la Corte – questo bilanciamento viene meno in tre ipotesi specifiche (condannato per determinati delitti; condannato dichiarato delinquente abituale, professionale o per tendenza; condannato recidivo) al cui ricorrere il legislatore esprime una valutazione legale di inadeguatezza della detenzione domiciliare a contenere la pericolosità del soggetto, precludendone, pertanto, al giudice la relativa applicazione. A fronte di tale quadro normativo, la Consulta pone in rilievo l' “anomalia” della presunzione censurata, osservando – tra l'altro – che si tratta dell'unica ipotesi di divieto assoluto di concessione di un beneficio penitenziario derivante dallo status di recidivo semplice. Non solo, infatti – chiosa la Corte – le preclusioni indicate nell'art.58-quater ord.penit. si correlano alla declaratoria di recidiva qualificata (non dunque alla recidiva semplice), ma le residue ipotesi in cui la condanna a pena aggravata per la recidiva ancora rileva in ambito esecutivo penitenziario sono strutturate come casi in cui il condannato è tenuto a espiare particolari quote di pena prima di poter aspirare a fruire dei benefici, strutturandosi in un sistema estraneo al novero delle preclusioni (e soprattutto delle preclusioni assolute) alla concessione dei benefici penitenziari. Ciò premesso, la Corte non ritiene persuasiva la prospettazione dell'Avvocatura dello Stato, secondo la quale non si avrebbe, nella fattispecie, alcun automatismo preclusivo, essendosi la valutazione individualizzata sulla pericolosità sociale del condannato già realizzata in sede di merito e che, in tal modo, si sarebbe realizzata la condizione che la giurisprudenza costituzionale esige ai fini della legittimità della presunzione posta alla base della preclusione normativa alla concessione dei benefici penitenziari. Il punctum dolens del ragionamento seguito dall'Avvocatura viene individuato, precisamente, nel rilievo che il giudizio espresso dal giudice del merito non possiede la caratteristica essenziale della attualità, riferita al momento della decisione sulla concessione della misura alternativa e – necessariamente - non tiene conto degli elementi anche sopravvenuti rispetto alla condanna, che tale giudizio possono influenzare. Infatti – nota ancora la Corte- il disposto di legge in esame subordina l'attivazione del meccanismo ostativo all'esistenza di una condanna, aggravata ai sensi dell'art. 99 c.p., derivante da una sentenza pronunciata in un qualsiasi momento del passato (quindi, anche a molta distanza di tempo rispetto al momento della decisione sulla misura domiciliare). Da ciò derivano conseguenze paradossali, poiché il giudice della condanna in attuale esecuzione potrebbe avere escluso l'aggravante della recidiva proprio per la risalenza dei precedenti a carico dell'imputato (esprimendo dunque implicitamente un giudizio negativo sul maggior disvalore della condotta del soggetto), ma quest'ultimo, una volta condannato, non potrebbe comunque accedere alla detenzione domiciliare a causa di una pur remota applicazione di una pena aggravata dalla recidiva. La prospettiva non muta – rileva ancora il Giudice delle leggi - nel caso in cui la recidiva sia stata applicata proprio con la sentenza in esecuzione: qui la diagnosi di maggiore pericolosità sociale è, infatti, espressa dal giudice del merito ai fini della determinazione della pena da applicare, cioè in relazione ad un profilo affatto diverso da quello afferente alla possibilità di applicare al condannato la detenzione domiciliare. Quest'ultima forma oggetto del giudizio di competenza della magistratura di sorveglianza, chiamata a bilanciare tutti gli elementi “normalmente considerati dal giudice di sorveglianza” al quale il condannato richieda la detta misura alternativa. Tra questi, la Corte ricorda in particolare gli eventuali mutamenti nella personalità del reo e il possibile percorso di reinserimento sociale seguito dal condannato nel tempo intercorso tra la commissione del reato e la decisione del giudice di sorveglianza, oltre al vaglio degli speciali presupposti della tipologia di detenzione domiciliare in esame (l'età del condannato e l'eventuale ulteriore surplus di sofferenza in carcere). Per questi motivi, conclude la Corte, sussiste effettivamente l'intrinseca irragionevolezza della disposizione censurata, come prospettata dal giudice rimettente, al pari di tutte le altre ipotesi di preclusione assoluta all'accesso ai benefici penitenziari e alle misure alternative alla detenzione, nel solco della costante elaborazione della giurisprudenza costituzionale (Corte cost., sentenze n. 253 del 2019, n. 149 del 2018, n. 291 del 2010, n. 189 del 2010). La Consulta chiarisce che tale approdo non si pone in contrasto con quanto affermato nella ricordata sentenza n. 50 del 2020, espressasi in relazione alla detenzione domiciliare "generica" (art. 47-ter, comma 1-bis, ord. penit.), assolutamente preclusa ai condannati per taluno dei delitti di cui all'art. 4-bis ord penit., quando non ricorrano i presupposti per l'affidamento in prova al servizio sociale. In tale ipotesi, infatti, la preclusione ivi prevista si giustifica per l'attualità e concretezza del giudizio di pericolosità espresso dal giudice di sorveglianza, che non ha ritenuto il condannato meritevole dell'accesso alla misura dell'affidamento in prova al servizio sociale. In conclusione
La sterilizzazione operata dal Giudice delle leggi sulla preclusione assoluta inserita nel comma 01 dell'art. 47-ter, ord. penit., assume particolare valenza sul piano sistematico, collocandosi in quell' opera di erosione degli automatismi preclusivi da tempo avviata dalla Corte costituzionale e tuttora in corso (come è noto, la Corte ha vagliato pochi giorni or sono la questione di legittimità costituzionale della preclusione assoluta alla concessione della liberazione condizionale in favore degli ergastolani non collaboranti). Sul piano operativo, l'arresto costituzionale in analisi restituisce alla discrezionalità della magistratura di sorveglianza la verifica dei presupposti per l'applicazione della detenzione domiciliare ai condannati ultrasettantenni per i quali sia stata applicata la recidiva di cui all'art. 99 c.p. Il beneficio potrà, dunque, essere applicato – anche in via provvisoria e urgente da parte del magistrato di sorveglianza nel caso di istanza promanante da soggetto detenuto – sulla base degli ordinari parametri valutativi. Nella sede cautelare, rileveranno, pertanto, il fumus di concessione della misura da parte del Tribunale di sorveglianza e il periculum in mora (elemento che dovrebbe ritenersi implicitamente sussistente, nel caso di condannati ultrasettantenni, in tutti i casi). Nella fase di merito davanti all'organo collegiale, il vaglio riguarderà, in particolare, la valutazione della pericolosità sociale attuale e concreta dell'interessato, l'età anagrafica del soggetto e le eventuali limitazioni ad essa correlate che possano incidere sul giudizio di compatibilità “umanitaria” del condannato con la eventuale detenzione ordinaria. |