Il diritto/dovere di mantenimento dei figli maggiorenni

07 Aprile 2021

L'art. 337-septies c.c. prevede che «il giudice, valutate le circostanze, può disporre in favore dei figli maggiorenni non indipendenti economicamente il pagamento di un assegno periodico. Tale assegno, salva diversa determinazione del giudice, è versato direttamente all'avente diritto». Al di là del perimetro giuridico che si vuol dare al diritto al mantenimento dei figli dopo la maggiore età, il suo presupposto è quello della non indipendenza economica, da valutare con rigore proporzionalmente crescente, in rapporto all'età del beneficiario, onde evitare che l'obbligo in capo al genitore possa essere protratto oltre ragionevoli limiti di tempo, in ragione di una funzione educativa del mantenimento, idonea a circoscrivere la portata dell'obbligo, sia in termini di contenuto, sia di durata, avendo riguardo al tempo occorrente e mediamente necessario per l'inserimento del figlio nella società.
Fonti normative ed evoluzione giurisprudenziale

Il diritto dei figli (e il corrispondente dovere dei genitori) di essere mantenuti è sancito dall'art. 147 c.c. – con riguardo ai figli nati nel matrimonio – e più in generale dagli art. 30 Cost. e 315-bis c.c., che dispongono che il figlio ha diritto di essere mantenuto, educato, istruito e assistito moralmente dai genitori, nel rispetto delle sue capacità, delle sue inclinazioni e delle sue aspirazioni.

Ulteriore principio cardine in merito al mantenimento dei figli è che ciascun genitore vi deve provvedere in proporzione alle proprie capacità (economiche e personali), secondo quanto disposto dall'art. 147 c.c. con riguardo ai coniugi e dall'art. 337-ter c.c. per i casi di crisi della famiglia.

L'applicazione pratica dei principi sopra enunciati è lasciata alla libera gestione dei genitori in caso di famiglia unita, mentre in caso di separazione (latu sensu intesa) dei genitori la decisione spetta al giudice, il quale, fino all'introduzione nel nostro ordinamento dell'affidamento condiviso come regime legale, era chiamato a determinare la misura e le modalità con cui il genitore non affidatario doveva contribuire al mantenimento del figlio; nell'attuale sistema, che predilige l'affidamento condiviso, è stata introdotta dalla legge 54/2006 la previsione di un eventuale assegno perequativo volto a garantire il principio di proporzionalità sopra ricordato (si rimanda ad altra sede ogni considerazione circa l'effettiva applicazione da parte della giurisprudenza delle disposizioni in ordine all'assegno perequativo, esulando dal tema del contributo).

Ciò premesso, tali considerazioni sono pacifiche con riguardo ai figli minorenni, mentre riflessioni più approfondite sono necessarie con riguardo al mantenimento dei figli che abbiano superato la maggiore età, considerato che non è infrequente che questi ultimi dopo il compimento dei diciotto anni non siano ancora nelle condizioni per mantenersi autonomamente.

Prima dell'approvazione della legge 54/2006, pur in assenza di una specifica normativa in merito al mantenimento dei figli maggiorenni, la giurisprudenza consolidata riteneva che l'obbligo dei genitori di mantenere i figli non cessasse automaticamente al raggiungimento della maggiore età, ma proseguisse fino a quando essi non avessero conseguito un grado di autonomia tale da consentire loro di provvedere, senza il contributo dei genitori, al soddisfacimento delle proprie necessità.

Con la legge 54/2006 è stato introdotto l'art. 155-quinquies c.c. – oggi sostituito nella medesima formulazione dall'art. 337-septies c.c. – che prevede che «il giudice, valutate le circostanze, può disporre in favore dei figli maggiorenni non indipendenti economicamente il pagamento di un assegno periodico. Tale assegno, salva diversa determinazione del giudice, è versato direttamente all'avente diritto». La norma prevede inoltre che ai figli maggiorenni portatori di handicap grave si applicano le disposizioni previste in favore dei figli minori.

All'indomani della sua entrata in vigore, la norma ha aperto numerosi interrogativi in merito al possibile venir meno dell'assegno perequativo al momento del raggiungimento della maggiore età dei figli, nonché in merito al soggetto legittimato alla domanda di assegno e alle modalità della sua corresponsione; temi che ad oggi non paiono essere stati sufficientemente approfonditi, né tanto meno risolti, dalla giurisprudenza.

Con una recente pronuncia (la Cass. n. 17183/2020, pubblicata su Foro Italiano, agosto 2020) la Suprema Corte ha parzialmente ridefinito il perimetro giuridico del diritto di mantenimento dei figli maggiorenni, affermando che con il raggiungimento della maggiore età da parte dei figli, cessa ogni automatismo in ordine al loro diritto al mantenimento, che viene rimesso al giudice, previo accertamento della sussistenza del relativo presupposto, ossia la non indipendenza economica.

La sentenza in questione (rimasta per ora isolata) ha altresì affermato che la capacità lavorativa, intesa come adeguatezza a svolgere un lavoro remunerato, si acquista con la maggiore età, quando la legge presuppone raggiunta l'autonomia ed attribuisce piena capacità lavorativa, da spendere sul mercato del lavoro, tanto che si gode della capacità di agire (e di voto), salva la sussistenza di circostanze che giustificano il permanere di un obbligo al mantenimento.

Tale intervento del Supremo Collegio, pur avendo perso l'occasione di affrontare le conseguenze, anche processuali, in tema di legittimazione attiva e passiva dei principi ivi affermati, ha certamente il pregio di richiamare l'attenzione dell'interprete sulla natura degli assegni di mantenimento a favore dei figli, come previsti nel nostro ordinamento, cui la giurisprudenza non pare sinora avere riservato la giusta attenzione.

A parere di chi scrive infatti è corretto ritenere diverso il perimetro giuridico del diritto dei figli minori di essere mantenuti dai genitori, la cui modalità di assolvimento è di regola il diretto soddisfacimento dei loro bisogni materiali, oltre eventualmente all'assegno perequativo disposto dal giudice, da quello del diritto dei figli maggiorenni di ricevere un assegno dai genitori a norma dell'art. 337-septies c.c.

È bene ricordare che l'assegno perequativo previsto dall'art. 337-ter c.c. – norma che regola i provvedimenti che il giudice deve assumere nei procedimenti relativi alla crisi della famiglia – ha la funzione di mettere in condizione il genitore economicamente più debole di assolvere il suo obbligo di mantenimento del figlio, inteso come assunzione diretta dei bisogni primari di quest'ultimo, che essendo minorenne non può provvedervi autonomamente, ciò sulla base di tutti i parametri dettati dalla norma stessa, ossia i bisogni del figlio, le condizioni economiche di entrambi i genitori, i tempi di permanenza del figlio con ciascuno dei essi.

Dopo il compimento della maggiore età invece il figlio diventa un soggetto pienamente titolare della capacità di agire e l'art. 337-septies c.c. dispone che, laddove, per causa a sé non imputabile, non sia ancora in grado di mantenersi autonomamente con i propri redditi, il genitore (o i genitori) provvedano a versare allo stesso un assegno, onde metterlo in condizione di far fronte ai propri bisogni, ai quali, sino al compimento dei diciotto anni, dovevano provvedere i genitori stessi.

Alla base dell'eventuale assegno perequativo, disposto in sede di separazione, vi è il rapporto di proporzionalità esistente tra i genitori; diversamente, alla base dell'assegno eventualmente riconosciuto al maggiorenne a norma dell'art. 337-septies c.c., vi è la sua mancata autosufficienza economica, pur continuando a vigere il principio generale di proporzionalità, che tuttavia si estrinsecherà nello statuire un assegno di entità diversa tra i due genitori e financo nel porre detto assegno a carico di uno soltanto dei due.

Né paiono convincenti le critiche mosse alla sopra citata pronuncia da chi (v. Giuseppe De Marzo, in Foro Italiano, agosto 2020) sostiene che sarebbe insussistente la contrapposizione operata dalla sentenza n. 17183/2020 tra gli artt. 147 e 315-bis c.c., quali fonti normative del diritto al mantenimento dei figli minori, e l'art. 337-septies c.c., quale autonoma fonte normativa del diritto all'assegno di mantenimento dei figli maggiorenni, e ciò in quanto le prime farebbero riferimento ai figli, senza alcuna ulteriore specificazione.

Da una lettura sistematica del nostro codice, a sommesso parere di chi scrive, appare invece evidente che le norme sopra richiamate si riferiscano (benché non lo specifichino ad ogni loro periodo) ai figli minori. L'art. 315-bis c.c. è infatti contenuto nel Titolo IX, rubricato “Della responsabilità genitoriale e dei diritti e doveri del figlio”, contenente previsioni riguardo alla responsabilità genitoriale, ai rapporti con gli ascendenti, alla rappresentanza e all'amministrazione dei beni dei figli, al curatore speciale, all'usufrutto legale sui beni del figlio, alla decadenza dalla responsabilità genitoriale ecc…, tutte pacificamente attinenti ai minorenni, salvo voler ritenere che i figli restino soggetti alla responsabilità genitoriale dei genitori per l'intera loro vita. E sul punto non si può dimenticare che la responsabilità genitoriale ha di fatto sostituito la vecchia potestà, riprendendone sostanzialmente tutti i contenuti, che certo non si vorrà prorogare oltre il diciottesimo anno di età.

L'indipendenza economica e l'onere della prova

Come si è visto, al di là del perimetro giuridico che si vuol dare al diritto al mantenimento dei figli dopo la maggiore età, il suo presupposto è quello della non indipendenza economica.

Nel corso degli anni la giurisprudenza di legittimità ha espresso numerosi principi per chiarire meglio i confini di tale concetto.

Innanzi tutto, è stato chiarito che l'accertamento del presupposto deve ispirarsi a criteri di relatività, in considerazione del percorso scolastico, universitario e post-universitario scelto da ciascun figlio, nonché alla situazione del mercato del lavoro contemporanea alla decisione (v. Cass. 26 gennaio 2011, n. 1830).

Inoltre è stato specificato che la valutazione deve essere fatta con rigore proporzionalmente crescente, in rapporto all'età del beneficiario, onde evitare che l'obbligo in capo al genitore possa essere protratto oltre ragionevoli limiti di tempo, in ragione di una funzione educativa del mantenimento, idonea a circoscrivere la portata dell'obbligo, sia in termini di contenuto, sia di durata, avendo riguardo al tempo occorrente e mediamente necessario per l'inserimento del figlio nella società (v. Cass. 22 giugno 2016, n. 12952).

È stato affermato che l'obbligo dei genitori non possa protrarsi sine die e che, pertanto – a parte le situazioni di minorazione fisica o psichica altrimenti tutelate dall'ordinamento – esso trovi il suo limite logico e naturale: - quando i figli si siano già avviati ad una effettiva attività lavorativa tale da consentir loro una concreta prospettiva di indipendenza economica; - quando siano stati messi in condizione di reperire un lavoro idoneo a procurare loro di che sopperire alle normali esigenze di vita; - quando abbiano ricevuto la possibilità di conseguire un titolo sufficiente ad esercitare un'attività lucrativa, pur se non abbiano inteso approfittarne; - quando abbiano raggiunto un'età tale da far presumere il raggiungimento della capacità di provvedere a sé stessi (v. Cass. 7 luglio 2004, n. 12477).

Se in un primo tempo il principio dell'autonomia economica era inteso come capacità del figlio di provvedere a sé con appropriata collocazione in seno al corpo sociale (v. Cass. 10 aprile 1985, n. 2372), o come percezione di un reddito corrispondente alla professionalità acquisita (v. Cass. 26 gennaio 2011, n. 1830), successivamente, le mutate condizioni del mercato del lavoro e la non infrequente sopravvenuta mancanza di autonomia “di ritorno” in capo allo stesso genitore hanno indotto a ritenere che l'avanzare dell'età abbia notevole rilievo (v. Cass. 14 agosto 2020, n. 17183).

Chiarito meglio il principio posto alla base del riconoscimento del diritto, passiamo ad affrontare il tema del relativo onere della prova.

Per lungo tempo si è affermato che la prova che il figlio ha raggiunto l'indipendenza economica, ovvero è stato posto nelle concrete condizioni per poter essere economicamente autosufficiente, senza però averne tratto utile profitto per sua colpa, deve essere data dal genitore interessato alla declaratoria della cessazione dell'obbligo di mantenimento (v. Cass. 7 aprile 2006, n. 8221; Cass. 3 aprile 2002, n. 4765; Cass. 30 agosto 1999, n. 9109; Cass. 11 marzo 1998, n. 4616).

Tale principio pareva giustificato dall'interpretazione secondo la quale il diritto al mantenimento del figlio maggiorenne rappresenterebbe una proroga del diritto al mantenimento del minorenne.

Tuttavia, con la già citata sentenza n. 17183/2020, il predetto assunto è stato completamente stravolto, avendo affermato la Suprema Corte che «l'onere della prova delle condizioni che fondano il diritto al mantenimento è a carico del richiedente» e che, «ai fini dell'accoglimento della domanda, pertanto, è onere del richiedente provare non solo la mancanza di indipendenza economica – che è la precondizione del diritto preteso – ma di avere curato, con ogni possibile, impegno, la propria preparazione professionale o tecnica e di avere, con pari impegno, operato nella ricerca del lavoro»; aggiungendo altresì la presunzione secondo cui «raggiunta la maggiore età, si presume l'idoneità al reddito, che, per essere vinta, necessita della prova delle fattispecie che integrano il diritto al mantenimento ulteriore», ciò in considerazione del consolidato principio di prossimità della prova.

Sempre in punto di presunzione, la citata sentenza conclude nell'affermare che «la prova del diritto all'assegno di mantenimento sarà più gravosa, man mano che l'età del figlio aumenti» e che «tale onere della prova risulterà particolarmente lieve in prossimità della maggiore età, appena compiuta, ed anche per gli immediati anni a seguire, quando il soggetto abbia intrapreso, ad esempio, un serio e non pretestuoso studio universitario».

I principi qui espressi, pur apparendo rivoluzionari rispetto a un orientamento che sembrava ormai granitico della giurisprudenza sia di merito che di legittimità, risultano convincenti seconda una interpretazione sistematica non solo della normativa specifica ma dell'intero ordinamento.

Infatti, se si considera che il figlio, una volta raggiunta la maggiore età, è a tutti gli effetti un soggetto pienamente titolare della capacità di agire e anche di far valere in giudizio i propri diritti, non si capisce per quale ragione dovrebbe essere prevista una inversione dell'onere della prova rispetto al principio generale secondo cui chi intende far valere in giudizio un diritto ne deve fornire la relativa prova.

Peraltro, tali considerazioni sono destinate ad avere notevoli ripercussioni sull'ulteriore profilo processuale della legittimazione attiva.

Legittimazione attiva e avente diritto

Prima dell'introduzione, con la legge 54/2006, della disposizione relativa al mantenimento dei figli maggiorenni, dottrina e giurisprudenza si interrogavano sulla titolarità del diritto alla corresponsione dell'assegno e sulla legittimazione a proporre la relativa domanda, concludendo in via prevalente (sulla tesi contraria solo Finocchiaro) che fosse configurabile una legittimazione concorrente e alternativa a richiedere, e a ricevere, l'assegno da parte del figlio maggiorenne e del genitore con cui lo stesso conviveva.

Anche tale tesi si fondava sull'assunto che il diritto al mantenimento del figlio maggiorenne fosse una proroga dell'assegno di mantenimento per il figlio minore da parte del genitore non affidatario a favore di quello affidatario, e, conseguentemente, che la legittimazione del genitore si fondasse sulla continuità dei doveri di mantenimento che gravano su di lui in ragione della convivenza (Bianca).

La Suprema Corte ha affermato che «il genitore, separato o divorziato, cui il figlio sia stato affidato durante la minore età, continua, pur dopo che questi sia divenuto maggiorenne, ma coabiti ancora con lui e non sia economicamente autosufficiente, ad essere legittimato iure proprio, in assenza di una autonoma richiesta da parte dello stesso, a richiedere all'altro genitore tanto il rimborso, pro quota, delle spese già sostenute per il mantenimento del figlio, quanto il versamento di un assegno periodico a titolo di contributo per detto mantenimento» (Cass. 24 febbraio 2006, n. 4188).

La disciplina prevista dall'art. 337-septies c.c. – secondo il quale l'assegno periodico disposto a favore dei figli maggiorenni non indipendenti, salvo diversa determinazione del giudice, è versato direttamente all'avente diritto – ha rimesso in discussione il tema della legittimazione attiva.

La dottrina si è divisa tra chi sostiene che la previsione del versamento diretto al figlio, quale avente diritto, non comporta una legittimazione esclusiva del figlio maggiorenne e coloro che sostengono che l'attuale normativa comporta l'automatica cessazione dell'obbligo di mantenimento del genitore nei confronti del figlio al raggiungimento della maggiore età da parte di quest'ultimo, che diventa l'unico soggetto legittimato a far valere il proprio diritto al mantenimento.

La giurisprudenza di merito e di legittimità ha sinora risolto il contrasto confermando il proprio passato orientamento, e affermando che l'attuale formulazione dell'art. 337-septies c.c. non fa venire meno la legittimazione del genitore convivente con il figlio di agire iure proprio per il riconoscimento di un assegno di mantenimento, con la precisazione che si trattasi di due diritti autonomi, fondati su presupposti diversi, e non del medesimo diritto attribuito a più persone (Cass. 12 ottobre 2007, n. 21437).

Parimenti la giurisprudenza ha continuato ad affermare che anche il genitore convivente con il figlio maggiorenne non indipendente economicamente possa essere considerato “avente diritto” a percepire l'assegno, trasformando così l'eccezione prevista dall'art. 337-septies c.c. nella regola e la regola in eccezione, salvo temperare a volte la previsione con una ripartizione dell'assegno tra il figlio e il genitore convivente.

Tuttavia, è evidente che, qualora l'orientamento espresso dalla sentenza Cass. n. 17183 del 14 agosto 2020 dovesse essere confermato, necessariamente dovranno essere riviste anche le considerazioni sopra riportate.

Se infatti si ritiene che l'assegno di mantenimento per il figlio maggiorenne abbia un fondamento normativo diverso rispetto a quello del minorenne, e non rappresenti una proroga di quest'ultimo, ne deriva che l'assegno posto a carico di un genitore e a favore dell'altro a titolo di contributo al mantenimento del figlio minore cesserà automaticamente al compimento della maggiore età dello stesso e il genitore eventualmente ancora convivente non potrà avere alcuna legittimazione attiva ad agire a norma dell'art. 337-septies c.c.

L'interpretazione offerta dalla sentenza n. 17183, ad oggi ancora minoritaria, appare a chi scrive maggiormente rispettosa dei principi generali del nostro ordinamento. Infatti ciò che non ha mai convinto della tesi relativa alla legittimazione ad agire iure proprio del genitore è che essa finisce con l'introdurre una parziale limitazione della capacità giuridica e di agire di un soggetto pienamente capace (il figlio maggiorenne) a favore di colui (il genitore) che con il compimento della maggiore età del figlio cessa di averne la rappresentanza.

Peraltro, considerato il dichiarato intento nomofilattico di tale pronuncia, che ha perso l'occasione di approfondire i profili connessi della legittimazione attiva nonché della cessazione automatica dell'assegno già disposto per il minorenne, c'è da aspettarsi ulteriori riflessioni sul tema, se non persino un intervento delle Sezioni Unite.

Conclusioni

Dopo più di un decennio dall'introduzione nel nostro ordinamento della disposizione relativa al mantenimento dei figli maggiorenni si rende probabilmente necessaria una più profonda riflessione sull'istituto, che possa porre fine alle attuali incertezze interpretative, non tanto in merito alla durata dell'obbligo di mantenimento dei figli da parte dei genitori, quanto piuttosto delle corrette modalità di assolvimento di esso e ai relativi profili processuali.

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