L'irragionevole durata del giudizio dichiarato perento
22 Aprile 2021
Il caso
Un centinaio di dipendenti statali accedono ad un più vantaggioso inquadramento giuridico con decorrenza dall'8 novembre 1988 ma conseguono il nuovo trattamento economico solo in data 23 gennaio 1990. Promuovono, quindi, in data 22 gennaio 2006 un giudizio avanti al T.A.R. del Lazio per il riconoscimento della rivalutazione monetaria e degli interessi legali sulle somme capitali ricevute in ritardo; il giudizio è dichiarato perento con decreto in data 6 febbraio 2018. Adiscono, poi, il presidente della Corte di appello di Roma chiedendo la condanna del Ministero dell'Economia e delle Finanze all'equa riparazione per l'irragionevole durata del pregresso giudizio; la domanda è respinta e così pure la successiva opposizione avanti alla Corte in composizione collegiale; il decreto decisorio è, quindi, impugnato in Cassazione, la quale rigetta il ricorso. La questione
La Corte di appello applica l'art. 2, comma 2-sexies, legge n. 89/2001, introdotto dalla legge n. 208 del 2015, laddove si presume insussistente, salvo prova contraria, il pregiudizio da irragionevole durata del processo in caso di “perenzione del ricorso ai sensi degli articoli 81 e 82 del codice del processo amministrativo” (lettera d) e nel caso di “irrisorietà della pretesa o del valore della causa, valutata anche in relazione alle condizioni personali della parte” (lettera g); rileva, infatti, che tale norma è entrata in vigore (il 1° gennaio 2006) anteriormente all'introduzione del giudizio di equa riparazione e che il disinteresse conclusivamente mostrato dai ricorrenti per l'esito del processo, nonostante pregresse istanze di fissazione di udienza, è verosimilmente giustificato dalla sostanziale irrisorietà delle somme ipoteticamente conseguibili a titolo di rivalutazione monetarie ed interessi legali, tenuto anche conto della condizione di dipendenti pubblici dei ricorrenti. Avanti alla Cassazione i ricorrenti sostengono che tale norma sia stata erroneamente applicata in quanto le prodotte istanze di prelievo costituirebbero valida prova contraria alla presunzione legale di disinteresse e solo l'eccessiva durata del processo li avrebbe indotti ad abbandonare alla fine il giudizio, nonostante la richiesta da parte del TAR di confermare l'interesse alla decisione, in considerazione della modesta importanza degli interessi economici coinvolti.
L'interpretazione adottata dalla Corte di merito sarebbe, inoltre, in contrasto con gli artt. 6 e 13 della CEDU e, quindi, violativa dell'art. 117 Cost.. Le soluzioni giuridiche
La Cassazione rileva che l'art. 2, comma 2-sexies, legge n. 89/2001 è entrato in vigore il 1° gennaio 2006 ed è, pertanto, applicabile in un giudizio di equa riparazione introdotto in epoca successiva, come già chiarito da Cass. civ., sez. II, sent., 9 ottobre 2019, n. 25323; ricorda, comunque, che anche in precedenza si perveniva a conclusioni analoghe ai sensi dell'art. 12 del Protocollo n. 14 alla CEDU, esigendosi una soglia minima di gravità tale da escludere l'indennizzo in relazione anche a “giudizi presupposti di carattere bagatellare, in cui esigua è la posta in gioco e trascurabili i rischi sostanziali e processuali connessi» (Cass. civ., sez. II, sent., 17 ottobre 2019, n. 26497) Si ritiene, poi, non sindacabile in quanto adeguatamente motivato il giudizio di merito espresso dalla Corte di appello in ordine all'insussistenza del danno per irrisorietà della pretesa, in quanto fatta valere da dipendenti pubblici in relazione a somme capitali già integralmente corrisposte; al contempo si precisa, comunque, che l'istanza di fissazione dell'udienza non costituisce di per sé prova contraria alla presunzione legale di insussistenza del pregiudizio, in quanto manifesta bensì l'interesse alla decisione ma non la rilevanza della posta in gioco. La questione di legittimità costituzionale è, infine, dichiarata, ad un tempo, irrilevante e manifestamente infondata: irrilevante perché anche prima dell'entrata in vigore dell'art. 2, comma 2-sexies cit. si perveniva, come si è visto, alle stesse conclusioni in base ai parametri normativi previgenti costituiti dalla CEDU; manifestamente infondata in quanto l'interpretazione adottata risulta in linea proprio con la giurisprudenza comunitaria e, quindi, non in contrasto con l'art. 117, comma 1, Cost. e con gli interposti referenti convenzionali. Osservazioni
L'esito del giudizio presupposto – decreto di perenzione – integra una fattispecie tipica di presunzione legale, sia pure iuris tantum, di insussistenza del pregiudizio indennizzabile ai sensi della lett. d) dell'art. 2, comma 2-sexies, legge n. 89/2001. Non sarebbe, quindi, necessario nel caso di specie argomentare ulteriormente in ordine all'integrazione dell'altra fattispecie, senz'altro aperta, costituita dalla clausola generale della irrisorietà della pretesa in relazione anche alle condizioni personali della parte (lett. g, art. cit.). Del resto nel decreto decisorio della Corte di appello non sono neppure precisate le somme pretese da ciascun pubblico dipendente a titolo di rivalutazione monetaria ed interessi legali. Tuttavia la Cassazione, laddove ritiene non dirimente la pregressa presentazione di istanze di prelievo ai fini della integrazione della prova contraria alla presunzione legale, argomenta che tali istanze sarebbero sintomatiche solo dell'interesse alla decisione ma non già del pregiudizio derivante dalla rilevanza della posta in gioco, con ciò richiamando proprio la clausola generale della irrisorietà (lett. g) piuttosto che la fattispecie tipica della perenzione (lett. d). Si potrebbe, quindi, ipotizzare che la presunzione derivante dalla mera perenzione del giudizio presupposto non sia ritenuta di per sé operante, a fronte di istanze di prelievo formulate nel corso del procedimento, laddove le poste in gioco risultino di apprezzabile portata; ed invero non sembra implausibile che in taluni casi l'interesse alla decisione si possa protrarre per un tempo notevole, superiore alla durata ragionevole del giudizio – così da integrare il diritto all'indennizzo ai sensi della legge n. 89 del 2001 - e, tuttavia, venga meno solo nella fase conclusiva così da esporre le parti alla perenzione. Il sopravvenuto disinteresse delle parti esonera, infatti, il giudice dall'obbligo di pronuncia nel merito ma non esclude affatto che anteriormente sia maturato il pregiudizio derivante dal protrarsi eccessivo del processo.
La richiamata (in motivazione) Cass. civ., 9 ottobre 2019, n. 25323 argomenta che l'art. 2, comma 2-sexies cit.., nel prevedere una presunzione iuris tantum di insussistenza del pregiudizio derivante dalla irragionevole del processo, introduce una nuova disciplina dell'onere della prova nei giudizi di equa riparazione e, quindi, può trovare applicazione, nel rispetto del diritto di difesa ed in conformità all'art. 11, disp. prel c.c., solo nei giudizi promossi in epoca successiva all'entrata in vigore della novella (cioè al 1° gennaio 2006) ; in senso conforme, Cass. civ., 10 ottobre 2019 n. 25542; Cass. civ., 13 dicembre 2019, n. 32992; Cass. civ., 22 settembre 2020, n. 19741.
Quanto alla soglia minima di gravità richiesta anteriormente alla novella ex l. n. 208/2015, la richiamata (in motivazione) Cass. n. 26497/2019 è conforme a Cass. civ. sez. II, sent. 14 gennaio 2014, n. 633. Secondo Cass. civ. sez. VI, 11 dicembre 2020, n. 28378 la perenzione amministrativa rientra tra le presunzioni che, ai sensi dell'art. 2, comma 2-sexies cit., possono integrare “una prova completa da valorizzare anche in via esclusiva”, salvo l'obbligo del giudice di valutare gli eventuali elementi indiziari allegati dalla parte per superare la presunzione legale di disinteresse E' stata, inoltre, ritenuta manifestamente infondata anche la questione di legittimità costituzionale della presunzione di cui alla lett. a) dell'art. 2, comma 2-sexies cit., sollevata sul presupposto della irragionevolezza della norma in relazione ad una prescrizione del reato maturata anteriormente al 1° gennaio 2006, evidenziando il carattere relativo della causa di esclusione del pregiudizio, essendo fatta salva la prova contraria da parte del ricorrente (Cass. civ., 28 luglio 2020 n. 16076). |