Azioni esperibili nel giudizio tributario

Francesco Pistolesi
05 Maggio 2021

Quando gli è consentito affrontare il merito della lite originata dall'atto impugnato, il Giudice tributario accerta l'esistenza e il regime giuridico del rapporto formante oggetto del contendere. Tale accertamento avviene sulla base dei fatti dedotti in causa, in relazione ai quali le Commissioni Tributarie hanno piena libertà di cognizione - entro i limiti consentiti dalle allegazioni delle parti - e di decisione, tant'è che la sentenza può offrire una ricostruzione del rapporto controverso differente da quella prospettata dalle stesse parti.
La sentenza 9 febbraio 2021, n. 3080 della Corte di Cassazione

La sentenza n. 3080 del 9 febbraio 2021, resa dalla quinta sezione della Corte di Cassazione, offre l'occasione per soffermarsi sul tema delle azioni esperibili dinanzi alle Commissioni Tributarie e sul potere di cognizione attribuito a queste ultime.

La controversia che ha condotto a questa sentenza trae origine dall'impugnazione di due avvisi di accertamento sintetici, che erano stati riconosciuti come parzialmente infondati dalla Commissione Tributaria Regionale.

Il Giudice di appello aveva accertato che il reddito era stato determinato in via sintetica facendo leva su un dato erroneo, in quanto l'Agenzia delle Entrate aveva imputato al contribuente l'intera proprietà dei beni assunti quali indici di capacità contributiva anziché nella misura del cinquanta per cento, stante il regime di comunione legale con il coniuge. In particolare, la Commissione Tributaria Regionale aveva integralmente annullato gli atti impositivi, demandando all'Amministrazione finanziaria il compito di ricalcolare i redditi presunti tenendo conto dell'effettiva quota di proprietà dei beni indicati in tali atti dei quali il contribuente era titolare.

Impugnata la sentenza di appello da parte dell'Agenzia delle Entrate, la Corte di Cassazione l'ha annullata e ha rimesso la causa alla Commissione Regionale. Per la precisione, ribadendo anche orientamenti già espressi in passato, la Corte Suprema ha evidenziato quanto segue:

  • il processo tributario ha natura di “impugnazione-merito” poiché è diretto all'adozione di una “… decisione sostitutiva sia della dichiarazione resa dal contribuente sia dell'accertamento dell'Ufficio …, sicché spetta al giudice il potere (dovere) di stabilire i limiti quantitativi di fondatezza della pretesa impositiva in modo da adottare una pronuncia sostitutiva sulla sussistenza ed entità dei presupposti della pretesa fiscale”;
  • pertanto, quando il giudice “… ritenga invalido l'avviso di accertamento per motivi non formali, ma di carattere sostanziale, non può limitarsi al suo annullamento, ma deve esaminare nel merito la pretesa e ricondurla alla corretta misura, entro i limiti posti dalle domande di parte”;
  • in tale ultima evenienza, non v'è violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato “… essendo consentita al giudice tributario, in un giudizio che non è solo ‘sull'atto' da annullare, ma anche e principalmente sul rapporto sostanziale tra amministrazione finanziaria e contribuente, la riduzione della pretesa avanzata dalla prima con l'atto impositivo”.
Le azioni esperibili di fronte alle Commissioni Tributarie e il relativo potere di cognizione

La pronuncia della Suprema Corte è del tutto condivisibile ed è apprezzabile per la chiarezza e la puntualità della relativa motivazione.

Per rendersene conto, merita anzitutto ricordare che il contribuente, quando si rivolge al Giudice tributario per contraddire la pretesa avanzata nei suoi confronti con gli atti impugnabili, in via necessaria o facoltativa, può addurre profili di pretesa illegittimità di tali atti rispetto alle norme che sovrintendono la funzione di verifica degli adempimenti fiscali rimessa agli Enti impositori e quella di realizzazione delle pretese tributarie e sanzionatorie facente carico all'Agente della riscossione, deducendo come motivi della propria azione siffatti asseriti vizi. Si faccia il caso dell'adozione dell'atto da parte di un organo incompetente o alla sua tardiva notifica o ancora alla carenza di motivazione, e via dicendo.

Ossia di vizi che, se sussistenti, impediscono all'atto impugnato di esternare validamente le pretese tributaria, sanzionatoria, cautelare o esattiva.

Però, non ogni violazione delle norme che disciplinano le modalità di adozione di tale atto ne comporta la rilevata inidoneità. Essa discende dal mancato rispetto dei precetti per i quali il legislatore ha stabilito la sanzione della “nullità” (si pensi, per tutti, al difetto di motivazione dell'avviso di accertamento sancito dall'art. 42 del d.P.R. n. 600/1973) e anche di quelli che, pur in difetto di siffatta previsione, risultano indispensabili per assicurare, da un lato, la funzionalità del provvedimento e per garantire, dall'altro, il rispetto di essenziali prerogative del relativo destinatario (si facciano i casi, per un verso, dell'avviso di accertamento redatto seguendo un metodo diverso da quello consentito e, per l'altro, del medesimo atto emanato prima di sessanta giorni dalla notifica del processo verbale di constatazione e in assenza di ragioni di particolare e motivata urgenza, violando così l'art. 12, comma 7, della L. n. 212/2000).

Insieme a detti vizi o in alternativa a essi, il contribuente può difendersi adducendo argomenti relativi al merito del rapporto interessato dall'atto opposto. Costui può affermare che la pretesa censurata confligge con le norme che regolano il rapporto obbligatorio tributario o che essa fa leva su prove non condivisibili o non utilizzabili poiché assunte illegittimamente e via discorrendo.

Tuttavia, la deduzione di ragioni afferenti al merito del rapporto tributario non sempre è consentita.

L'accesso al merito del rapporto sostanziale è precluso, in primo luogo, dalla regola - sancita dall'art. 19, comma 3, del d.lgs. n. 546/1992 - secondo cui ogni atto autonomamente impugnabile può essere censurato solo per “vizi propri”.

Così, quando il contribuente ricorre avverso un atto della riscossione o cautelare che sia stato preceduto da atti autonomamente impugnabili, espressivi delle pretese frutto dei controlli svolti dall'Ente impositore, non può avanzare le censure relative a detti atti presupposti e, quindi, al merito.

Identico è il discorso per l'impugnazione dei provvedimenti di sospensione dei rimborsi e di compensazione, adottati in presenza dell'accertamento di maggiori tributi e dell'irrogazione di sanzioni. Anch'essi - impugnabili ai sensi dell'art. 23 del d.lgs. n. 472/1997 - sono contestabili solo per “vizi propri”, che non attengono al merito dei rapporti sostanziali: né del rimborso spettante al contribuente, né della pretesa impositiva o sanzionatoria che ne determina la sospensione dell'esecuzione o che ne giustifica la compensazione. Con il ricorso, quindi, può solo dedursi la carenza dei presupposti di adozione di tali misure, stante, ad esempio, l'intervenuta definizione in via stragiudiziale del credito vantato dall'Ente impositore. Ossia un “vizio proprio” di detti provvedimenti.

Ancora, l'azione promossa avverso il rigetto dell'istanza di apertura di procedura amichevole, ai sensi della Direttiva del Consiglio dell'Unione Europea n. 2017/1852 del 10 ottobre 2017 o ai sensi degli Accordi e delle Convenzioni internazionali dei quali l'Italia è parte o ai sensi della Convenzione n. 90/436/CEE,non consente di articolare questioni sul merito del rapporto. La Commissione Tributaria può solo accertare l'esistenza o meno delle condizioni, predeterminate dalla legge, di svolgimento della procedura.

Si pensi, inoltre, all'impugnazione del diniego di autotutela: di regola, è esclusa la possibilità di rimettere in discussione il merito del rapporto per cui il privato ha invocato l'intervento dell'Ente impositore.

Gli esempi potrebbero proseguire.

L'importante è rendersi conto che l'odierna dinamica di attuazione dei rapporti tributari evidenzia varie occasioni nelle quali la tutela giurisdizionale di cui fruisce il contribuente non permette di sottoporre alle Commissioni Tributarie la cognizione del rapporto interessato dall'atto impugnato. Ciò vuoi per assicurare il rispetto della regola per cui contro ciascun atto autonomamente impugnabile possono spendersi solo i relativi “vizi propri”, vuoi per la peculiare natura dell'atto opposto, come avviene per la reiezione dell'istanza di apertura di procedura amichevole.

Solo la straordinaria e patologica evenienza della mancata notificazione dell'atto autonomamente impugnabile, adottato prima di quello notificato, offre la facoltà - ai sensi dell'art. 19, comma 3, del d.lgs. n. 546/1992 - eccezionalmente, e sempre che il privato ne abbia interesse, di discutere del merito.

Insomma, alla luce delle domande enunciate dal contribuente e dei fatti e delle prove da esso addotti, il Giudice non si limita a sancire la legittimità o meno dell'atto impugnato, avendo riguardo alle norme che ne disciplinano l'adozione, ma può estendere la propria indagine al rapporto controverso, di cui individua la sussistenza e la concreta configurazione, oltre che al regime delle sanzioni applicate.

Sempre, ovviamente, che ciò gli sia stato richiesto, potendo il contribuente - come si è visto - anche solo dolersi dell'illegittimità del provvedimento opposto in rapporto alle norme disciplinanti la sua formazione.

Infatti, siccome le pretese dell'Ente impositore e dell'Agente della riscossione devono essere enunciate da un atto a tal fine idoneo, è comprensibile che il privato possa limitarsi a censurare il mancato rispetto di queste norme.

Quindi, laddove - come spesso avviene - il contribuente abbia speso motivi relativi tanto alla legittimità dell'atto quanto al merito del rapporto a esso sottostante, il Giudice esaminerà anzitutto i pretesi vizi di legittimità. E, se li riscontrerà, dovrà astenersi dall'indagine sul merito del rapporto tributario ancorché interessato dai motivi di impugnazione.

Tale indagine gli è preclusa dall'inattitudine del provvedimento a costituire valido mezzo di esternazione delle pretese afferenti detto rapporto. Di modo che all'affermazione della nullità dell'atto non può far seguito alcuna ulteriore pronuncia sul merito della controversia.

Qualora, invece, il privato non abbia avanzato censure sulla legittimità dell'atto impugnato o se formulate non siano state condivise dal Giudice, quest'ultimo deve affrontare il merito del rapporto obbligatorio dal medesimo atto interessato.

Per delineare con completezza la sfera di cognizione delle Commissioni Tributarie, occorre occuparsi anche delle azioni proponibili dal contribuente al fine di conseguire il rimborso dei tributi e dei relativi accessori che si reputano indebitamente corrisposti. Le caratteristiche dell'azione non cambiano a seconda che venga proposto ricorso avverso il diniego del rimborso o il rifiuto tacito.

In entrambe le circostanze, il privato ambisce a ottenere l'accertamento dell'indebito e la condanna dell'Ente impositore alla restituzione di quanto, appunto, da questi illegittimamente percepito.

L'unica differenza, che però non è di poco conto, consiste nella presenza o nell'assenza del provvedimento di diniego.

Quando vi è tale atto, non ci si può limitare a dedurre i vizi di pretesa illegittimità dello stesso, ma occorre comunque affrontare il merito del diritto di rimborso negato - in tutto o in parte - dall'Ente impositore.

Una sentenza che dovesse limitarsi, per esempio, ad accertare la carenza di motivazione dell'atto di diniego, non consentirebbe al privato di percepire il rimborso. La caducazione di tale atto non comporta il riconoscimento del diritto di restituzione. Nulla impedisce che - pur essendo detto diniego carente di motivazione, per restare all'esempio indicato - non sussista l'indebito versamento del tributo.

Dunque, in ogni caso, il contribuente deve agire perché sia accertato il proprio diritto al rimborso e per chiedere la condanna dell'Ente impositore al relativo pagamento, adducendo gli argomenti idonei affinché il Giudice possa statuire sul merito del rapporto.

Infine, la condanna all'esecuzione del rimborso può essere assunta pure nel contesto dell'azione contro i provvedimenti di sospensione dei rimborsi e di compensazione, in precedenza ricordati. L'interessato, oltre a censurare i presupposti di adozione di tali atti, può chiedere al Giudice, qualora ne condivida le ragioni, di condannare la controparte a dar corso al rimborso sospeso o per cui intendeva invocare la compensazione.

In conclusione

Abbiamo visto che non sempre il Giudice può affrontare il merito del rapporto interessato dall'atto dalla cui impugnazione trae origine il processo tributario. Talora gli è impedito dalla regola secondo cui contro ciascun atto possono farsi valere solo i relativi “vizi propri” oppure non gli è consentito poiché non ha ricevuto una domanda in tal senso dal soggetto che promuove il giudizio o, ancora, non ha ragione di farlo quando ravvisa la nullità dell'atto controverso.

Una precisazione è necessaria, a quest'ultimo riguardo.

Se l'atto opposto diverge dal relativo paradigma normativo, avuto riguardo ai precetti che ne disciplinano l'adozione, e il legislatore ne afferma l'invalidità qualificandola come “nullità”, quest'ultima deve intendersi quale “annullabilità”. E lo stesso è da dirsi quando, in via interpretativa e come si è visto poc'anzi, si ravvisano ipotesi di insanabile invalidità dell'atto impugnato pur nel silenzio in proposito serbato dalla legge.

Nella nostra materia (significativamente diversa, da questo punto di vista, dal diritto civile), l'atto “nullo”, oltre a essere dotato di immediata efficacia giuridica ed essere destinato a consolidarsi - divenendo a ogni effetto irretrattabile - se non impugnato tempestivamente, non può essere dichiarato tale dal Giudice se il ricorrente non ha dedotto il motivo di siffatta invalidità. Quindi, solo il privato può denunciare la “nullità” e può farlo solo con il ricorso.

Ad ogni modo, allorché si occupa del merito, il Giudice accerta l'esistenza e il regime giuridico del rapporto per cui si controverte, con la precisazione che, per le imposte che conoscono una progressione dell'azione di accertamento - si pensi, in specie, alle imposte sui redditi e sul valore aggiunto -, detto accertamento non concerne l'obbligazione nella sua interezza, ma nella frazione enucleata dai relativi fatti costitutivi che hanno formato oggetto del contendere.

Pertanto, ove ciò accada, l'oggetto del processo è - secondo l'espressione solitamente impiegata in proposito - l'an e il quantum debeatur. Tale oggetto consiste cioè nell'accertare se e quanto sia dovuto dal contribuente.

Questo accertamento avviene sulla base dei fatti dedotti in causa, in relazione ai quali il giudice ha libertà di cognizione - entro i limiti consentiti dalle allegazioni delle parti - e di decisione, com'è dimostrato dal fatto che la sentenza può offrire una ricostruzione del rapporto obbligatorio differente da quella prospettata dai contradditori. E la giurisprudenza ne offre costante conferma: fra le tante pronunce in materia, si vedano Cass., sez. V, 9 dicembre 2009, n. 9745, per il caso in cui il Giudice abbia offerto una diversa qualificazione giuridica del rapporto controverso rispetto a quella prospettata dalle parti, e Cass., sez. V, 24 gennaio 2018, n. 1728, per il caso in cui la Commissione Tributaria sia pervenuta a una diversa quantificazione della pretesa formante oggetto del contendere.

Volendo esemplificare: l'Ente impositore può rettificare in 100 il valore dichiarato in 50 ai fini dell'imposta di registro dal privato e quest'ultimo può difendersi affermando che è corretta l'individuazione della base imponibile nella suddetta misura di 50; il Giudice, dal canto suo, può accertare che il corretto valore è pari a 80, diverso sia da quello dichiarato dal contribuente che da quello rettificato dall'Amministrazione finanziaria.

L'esempio appena fatto dimostra che il Giudice decide nel merito la causa anche quando ravvisa la parziale infondatezza della pretesa impositiva.

Siccome il giudizio riguarda il rapporto sostanziale, il Giudice non deve annullare il provvedimento opposto, ma è tenuto ad accertare il corretto regime dell'obbligazione tributaria controversa.

Ciò, fra l'altro, consente di evidenziare l'assoluta erroneità della pronuncia di appello cassata dalla sentenza della Cassazione n. 3080/2021, da cui abbiamo preso spunto: è impossibile annullare integralmente gli avvisi di accertamento e, al contempo, demandare all'Agenzia delle Entrate l'incombenza di ricalcolare il reddito correttamente accertabile. Compete, invero e come segnalato, al Giudice, che ravvisi la parziale carenza di fondamento delle pretese impositive, accertare in quale misura esse meritino di essere avallate.

D'altronde, che le cose stiano in questi termini lo conferma, di nuovo, la giurisprudenza quando, significativamente, afferma che il contribuente, impugnando l'atto espressivo della pretesa dell'Ente impositore, può allegare errori, in fatto e in diritto, commessi nella redazione della propria dichiarazione e incidenti sull'esatta configurazione dell'obbligazione d'imposta (si vedano, in tal senso e per tutte, Cass., sez. VI, 12 gennaio 2016, n. 313 e Cass., sez. V, 21 luglio 2020, n. 15527). Difatti, “oggetto del contenzioso … è l'assoggettamento del contribuente ad oneri contributivi che il medesimo assume diversi e più gravosi di quelli che, sulla base della legge, devono restare a suo carico” (in questi termini, si veda Cass. n. 313/2016).

Emerge così che l'impugnazione dell'atto, lungi dall'impedire il giudizio sul merito del rapporto, ne rappresenta solo l'imprescindibile veicolo.

Questo vale pure quando il privato si limita a denunciare l'illegittimità del provvedimento opposto, senza affrontare - pur potendolo fare - il merito del rapporto.

Non muta - non può mutare - l'assetto del processo in ragione del tipo di difese svolte da uno dei contradditori e della relativa eventuale condivisione da parte dell'Organo giudicante.

Il processo tributario, quando lo consente l'atto dalla cui impugnazione trae origine, è e resta preordinato al potenziale accertamento del rapporto obbligatorio dedotto in causa.

In conclusione, è quindi pienamente condivisibile quanto si legge nella sentenza n. 3080/2021 della Corte Suprema per cui il nostro giudizio è riconducibile fra quelli di “impugnazione - merito” anziché tra quelli di “impugnazione - annullamento”.

Peraltro, questo - conviene ripeterlo - avviene quando l'accesso al merito del rapporto sostanziale sia permesso. Se detto accesso non è consentito per le ragioni che abbiamo illustrato, il Giudice non potrà che pronunciarsi sulla conformità dell'atto al relativo paradigma legale.

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