Effetti della morte del coniuge separato e del convivente di fatto sui diritti dei superstiti

Anna Pizzimenti
18 Maggio 2021

La poliedricità che le relazioni affettive hanno manifestato nel corso degli ultimi anni non è stata assecondata da una corrispondente metamorfosi della normativa, la quale appare ancora arroccata su visioni monolitiche dell'”unione”, lato sensu intesa, fra persone, che fa del matrimonio il paradigma con cui “regolare” altri rapporti. L'apporto innovativo dato dalla legge n.76/2016 (cosiddetta legge Cirinnà) ha solo parzialmente spostato l'asse, per riequilibrare il sistema, tarandolo anche sulle unioni civili. A rimanere parzialmente esclusa è stata la “convivenza di fatto”, alla quale non sono state estese le medesime garanzie e le tutele previste per i coniugi e gli uniti civilmente. Nell'articolo che segue, in particolare, è sviluppata la disamina afferente ai diritti successori del coniuge separato e del convivente nei confronti del de cuius, che, successivamente alla separazione, abbia intrapreso una convivenza di fatto. Viene, inoltre, esaminata la disciplina relativa al diritto alla pensione di reversibilità e al trattamento di fine rapporto, facendo emergere le distonie del sistema normativo, a discapito proprio della relazione di convivenza, le cui tutele sono minime e non assimilabili, sul piano dei diritti successori e in materia di previdenza, a quelle del rapporto di coniugio e dell'unione civile. Auspicabile è, indubbiamente, un riallineamento di prospettive e una rivalutazione del tipo di tutele, anche de jure condendo.
Inquadramento

Quali sono i diritti del coniuge separato e del convivente di fatto superstiti, in caso di morte dell'altro coniuge, che, dopo la separazione, abbia iniziato una nuova convivenza?

Le tutele che il nostro ordinamento giuridico predispone per i protagonisti di questa aggrovigliata babele di stakeholders non sono paritarie, come al contrario, a giudizio di chi scrive, dovrebbe essere: ciò è da attribuirsi ad un reticolato normativo non ampio (e, per certi aspetti, anche vetusto) al punto da consentire di estenderne il manto protettivo a tutti i centri d'interesse.

Luci e ombre dell'architettura normativa che sovrasta lo status quo emergono sia dalla disciplina, codicistica e non, che regola i singoli rapporti giuridici, sia dagli orientamenti giurisprudenziali più consolidati e autorevoli.

La posizione del coniuge separato e del convivente di fatto

Sarà opportuno, preliminarmente, delimitare il campo d'indagine, perimetrandolo con i seguenti dati:

1. analisi dei diritti successori del coniuge separato, del convivente di fatto e di eventuali figli, in caso di morte di uno dei due coniugi;

2. assegno di mantenimento al coniuge superstite;

3. diritto alla pensione dei superstiti;

4. diritto ad una quota dell'indennità di fine rapporto per i superstiti.

Il profilo su delineato deve essere esaminato secondo due direttive: la prima afferente ai diritti successori e all'individuazione dei titolari di uno ius successionis; la seconda attinente alle indennità patrimoniali nascenti dalla prestazione lavorativa del de cuius.

I diritti derivanti iure successionis

In caso di morte di uno dei coniugi, che siano solo legalmente separati e non divorziati, gli unici eredi legittimi sono il coniuge superstite e gli eventuali figli, conformemente a quanto disposto dall'art. 565 c.c.(«Nella successione legittima l'eredità si devolve al coniuge, ai discendenti legittimi e naturali…»), in combinato disposto con l'art. 585 c.c., che espressamente prevede che «il coniuge cui non è stata addebitata la separazione con sentenza passata in giudicato ha gli stessi diritti successori del coniuge non separato»; la medesima previsione contempla l'art. 548 c.c. nella riserva a favore del coniuge separato.

La lettera delle norme evocate è chiara ed è un riflesso dell'istituto della separazione, che non recide il vincolo di coniugio, ma sospende soltanto alcuni doveri che, ai sensi dell'art.143 c.c., nascono dal matrimonio, vale a dire, il dovere alla coabitazione e alla fedeltà; mentre gravano su entrambi i coniugi, seppur in misura attenuata rispetto al matrimonio, il dovere all'assistenza morale e materiale e alla collaborazione nell'interesse della famiglia. Nell'ipotesi in cui, invece, a uno dei due coniugi sia stata addebitata la separazione, con sentenza passata in giudicato, i diritti successori del coniuge si attenuano, avendo solo diritto ad un assegno vitalizio, se al momento dell'apertura della successione godeva degli alimenti a carico del coniuge deceduto, come recita il secondo comma dell'art. 548 c.c., richiamato dall'art. 585, comma 2.

È in questa prospettiva, dunque, che il legislatore parifica i diritti del coniuge a quelli del coniuge separato, considerando la separazione come una situazione “transitoria e anche reversibile”, tale da poter regredire allo stadio matrimoniale antecedente, allorché i coniugi riprendono a convivere.

Di conseguenza, ai sensi dell'art. 581 c.c., il (o la) coniuge della (o del) de cuius, in concorso con eventuali figli, legittimi e naturali, è erede legittimo e avrà diritto a un terzo dell'eredità, mentre i residui due terzi saranno devoluti ai figli.

Nell'asse ereditario sono compresi il complesso dei rapporti patrimoniali, attivi e passivi facenti capo al de cuius, che, in quanto suscettibili di essere trasferiti agli eredi, costituiscono l'oggetto della successione stessa, nonché i beni, mobili e immobili, di sua proprietà, fra i quali oggetto di maggiore contesa potrebbe essere la casa in cui la coppia di fatto convive, in ragione di quella disparità di trattamento delineata dal reticolo normativo applicabile nella fattispecie, soprattutto nell'ipotesi in cui l'abitazione sia stata acquistata dal de cuius successivamente alla separazione (e, quindi, non sia stata oggetto di quest'ultima) e sia di proprietà esclusiva del medesimo.

L'immobile va assegnato per un terzo al coniuge separato superstite e per i due terzi ai figli, seguendo il criterio su indicato. Ovviamente, anche eventuali oneri relativi all'immobile graverebbero sugli eredi, in ragione delle rispettive quote di partecipazione all'eredità.

Il o la convivente del de cuius non può, allo stato, rivendicare alcuna pretesa sulla casa in cui ha abitato, perché nessun diritto, né successorio né proprio, può avanzare sul bene.

Né, sotto altro profilo, si potrebbero analogicamente applicare le norme stabilite per le convivenze di fatto nella cd. legge Cirinnà (l. 76/2016), posto che l'art. 36 della citata legge, nonostante il tenore sibillino della lettera della norma, definisce «conviventi di fatto due persone maggiorenni unite stabilmente da legami affettivi di coppia e di reciproca assistenza morale e materiale, non vincolate da rapporti di parentela, affinità o adozione, da matrimonio o da un'unione civile».

Orbene, il richiamo al “vincolo”, pur in assenza di una precisazione sulla contemporaneità del legame, impedisce che nell'ipotesi prospettata (stato di separazione, senza che sia stato ancora sciolto il vincolo matrimoniale) possa configurarsi una convivenza, ai fini dell'applicabilità del regime previsto dalla l.76/2016. Al contrario, se fosse intervenuta una sentenza di divorzio, la “mera” convivenza avrebbe potuto essere elevata al rango di convivenza meritevole di tutela agli effetti della l.76/2016 e, in particolare, il convivente superstite sarebbe stato titolare, ai sensi dell'art. 42, del diritto di abitazione nella casa di comune residenza della coppia, ma di proprietà del convivente deceduto. Tale diritto, tuttavia, è (immotivatamente) “affievolito” rispetto al corrispondente diritto del coniuge superstite, essendone previsto un termine: “fino a due anni o per un periodo pari alla durata della convivenza, ma, in ogni caso non superiore ai cinque anni. Una scelta discutibile, che, si auspica, il Legislatore possa riconsiderare, ancor prima degli interventi demolitori della Corte Costituzionale per motivi di ragionevolezza (si pensi, solo per fare una esemplificazione non peregrina, all'ipotesi in cui il rapporto matrimoniale abbia avuto durata di gran lunga inferiore, in termini temporali, rispetto alla convivenza: il paradosso è che verrebbe “preferito” il coniuge, che tale è stato solo per pochi mesi, rispetto al convivente ultradecennale del de cuius).

I diritti dei superstiti nascenti dai crediti di lavoro

Il secondo nucleo su individuato, quello concernente le indennità nascenti dal rapporto di lavoro, proietta l'indagine nel campo perimetrato dalla pensione (indiretta o di reversibilità) e dal trattamento di fine rapporto che fanno capo al lavoratore, su cui occorre soffermarsi preliminarmente per la disamina di alcune questioni giuridiche di non secondaria importanza e piuttosto complesse nella loro definizione.

Occorre domandarsi se la pensione (indiretta o di reversibilità) e il TFR rientrino nel patrimonio ereditario ovvero se ne siano esclusi, posto che effetti giuridici diversi si riconducono all'uno o all'altro corno dell'alternativa: basti pensare solo alla individuazione delle categorie degli aventi diritto nell'una o nell'altra ipotesi.

Inoltre, per il TFR bisognerà distinguere fra l'ipotesi in cui detta indennità sia stata interamente già percepita dal lavoratore prima della sua morte ovvero debba ancora essere percepita, totalmente o parzialmente. Anticipando quanto sarà subito dopo più ampiamente argomentato, si può subito affermare che la pensione (indiretta e di reversibilità) e il solo TFR non ancora percepito dal lavoratore non rientrano nella massa ereditaria, e, dunque, non vanno in successione. Altro sarà il regime che regola il TFR già riscosso dal lavoratore.

La ratio della titolarità a percepire il diritto alla pensione (sia indiretta che di reversibilità) e il diritto al TFR (non ancora percepito, n.d.s.) del lavoratore defunto è un'altra: entrambi costituiscono una forma di tutela previdenziale assicurata dall'ordinamento giuridico ai superstiti (e non agli eredi, dunque) al ricorrere di determinate circostanze.

Tale qualificazione giuridica, a parere di scrive, trova già la propria copertura normativa nello stesso art. 38, comma 2 Cost., ma è ulteriormente rafforzata dalla Corte Costituzionale, la quale, con Sent. Cost. 1987/286, osservò che «la pensione di riversibilità appartenente al più ampio genus delle pensioni ai superstiti, è una forma di tutela previdenziale nella quale l'evento protetto è la morte, cioè, un fatto naturale che, secondo una presunzione legislativa, crea una situazione di bisogno per i familiari del defunto, i quali sono i soggetti protetti».

La Corte Costituzionale fu investita della questione di legittimità, sollevata contemporaneamente dalla Corte di Cassazione e dal Pretore di Genova, con riferimento (fra le altre) alla disparità di trattamento operante a sfavore del coniuge separato per colpa, rispetto al coniuge divorziato, il quale non avrebbe avuto il diritto a percepire la pensione di reversibilità del coniuge defunto. La Corte Costituzionale, con la sent. Corte cost. n.286/1987, dopo l'unificazione dei ricorsi, dichiarò fondata la questione di legittimità costituzionale e dichiarò l'illegittimità costituzionale dell'art. 1 del d.l.l. 18 gennaio 1945, n. 39 (con le successive modifiche e sostituzioni normative) e dell'art. 23, comma 4, della legge 18 agosto 1962, n.1357, “nella parte in cui escludono dalla erogazione della pensione di riversibilità il coniuge separato per colpa con sentenza passata in giudicato. Al di là della specifica censura, la sentenza citata si rivela cruciale per la definizione della natura giuridica della pensione di reversibilità; in modo particolare, gli autorevolissimi Giudici delle Leggi riferiscono che per il Legislatore, la pensione di reversibilità è da considerare «una forma di tutela previdenziale ed uno strumento necessario per il perseguimento dell'interesse della collettività alla liberazione di ogni cittadino dal bisogno ed alla garanzia di quelle minime condizioni economiche e sociali che consentono l'effettivo godimento dei diritti civili e politici (art. 3, secondo comma, della Costituzione) con una riserva, costituzionalmente riconosciuta, a favore del lavoratore, di un trattamento preferenziale (art. 38, secondo comma, della Costituzione) rispetto alla generalità dei cittadini (art. 38, primo comma, della Costituzione). Della solidarietà generale, in definitiva, fa parte quella solidarietà che si realizza quando il bisogno colpisce i lavoratori e i loro familiari per i quali, però, non può prescindersi dalla necessaria ricorrenza dei due requisiti della vivenza a carico e dello stato di bisogno, i quali si pongono come presupposti del trattamento. Per effetto della morte del lavoratore, la situazione pregressa della vivenza a carico subisce interruzione, ma il trattamento di riversibilità realizza la garanzia della continuità del sostentamento ai superstiti».

E poco oltre, gli stessi giudici, ricordando un proprio precedente (Corte cost., sent. 1985/213), estendono tale natura previdenziale anche all'indennità di buonuscita, al ricorrere delle condizioni, valide anche per la pensione, della vivenza a carico e dello stato di bisogno.

Chiarita la natura giuridica delle due tipologie d'indennità, per individuare specificamente quali siano i soggetti legittimati a percepire l'una (la pensione) e l'altra (TFR) occorrerà attingere, altresì, alla legislazione speciale, al fine di chiarire quale sia la posizione del coniuge superstite, dei figli e della/del convivente del lavoratore o della lavoratrice.

Pensione indiretta e di reversibilità. Indennità di mancato preavviso

La pensione indiretta è quella che i superstiti del defunto percepiscono, quando questi, al momento del decesso, è ancora lavoratore e non sia titolare di pensione; al contrario, i superstiti hanno diritto a ricevere la pensione di reversibilità nell'ipotesi in cui il defunto già percepisce la pensione.

Per avere diritto alla pensione indiretta, è necessario che l'assicurato abbia già maturato almeno 15 anni di assicurazione e di contribuzione.

Il diritto alla pensione, indiretta o di reversibilità, è ancora oggi disciplinato dall'art. 13 del regio decreto-legge n.636/1939, il quale recita testualmente che «spetta una pensione alla moglie e ai figli superstiti che, al momento della morte del pensionato o dell'assicurato, non abbiano superato l'età di 18 anni e di qualunque età riconosciuti inabili al lavoro e a carico del genitore al momento del decesso di questi».

Il terzo comma della norma appena richiamata eleva il limite dei 18 anni del primo comma, fino a 26, con riferimento ai figli superstiti che siano a carico del genitore al momento del decesso e non prestino lavoro retribuito.

Sullo scenario normativo appena delineato, fra i superstiti che avranno diritto a percepire la pensione, indiretta o di reversibilità, che sarebbe spettata o che avrebbe percepito l'interessato nell'uno e nell'altro caso, si erge solo il coniuge separato (l'art. 13 del regio decreto citato, datato 1939, parla solo di “moglie”, avendo come specchio sociale quello in cui il solo a lavorare fosse il marito, n.d.s.), con esclusione anche dei figli, qualora superino il limite dei ventisei anni stabilito dalla norma.

Superata la soglia dei ventisei anni, infatti, il requisito necessario per beneficiare della pensione del lavoratore è l'“inabilità al lavoro, da intendersi, secondo le prescrizioni della legge 222/1984, come assoluta e permanente impossibilità di svolgere qualsiasi attività lavorativa a causa d'infermità o difetto fisico o mentale dell'interessato.

Facendo ritorno alla posizione della moglie, rectius del coniuge superstite, quest'ultimo, ai sensi del secondo comma dell'art. 13 del regio d.l.636/1939 percepirà una pensione pari al 60% di quella già liquidata, in caso di reversibilità o che sarebbe spettata al coniuge, in caso di pensione indiretta.

Anche in questa ipotesi, essendo tassativamente prevista dalla legge la categoria dei superstiti, il/la convivente dell'interessato non può reclamare nessun diritto sulla pensione che sarebbe spettata o che percepirebbe il/la compagno/a, restandone (ingiustamente) escluso/a; né potrebbe ovviarsi con una disposizione testamentaria a suo favore, per la fondamentale ragione che la pensione non rientra nell'asse ereditario e che coloro che succedono al lavoratore nel diritto a percepirne una quota ne hanno titolo iure proprio!

Inoltre, ai sensi dell'art. 2122 c.c., spetterà al coniuge, ai figli e alle categorie di parenti e affini, secondo le limitazioni del grado di parentela e di affinità ivi stabilite ed esistendo il requisito della “vivenza a carico”, l'indennità di mancato preavviso, prevista dall'art. 2118 c.c., né l'interessato potrebbe porvi rimedio, mediante una disposizione testamentaria. Tale interpretazione è suffragata da Cost. sent. 1972/8, con la quale, dichiarando l'illegittimità costituzionale del comma 3 dell'art. 2122 c.c., il Giudice delle Leggi ha confermato che solo “in mancanza delle persone indicate nel primo comma della norma” richiamata (ossia coniuge, figli, e, se viventi a carico, parenti entro il terzo grado e affini entro il secondo), “il lavoratore subordinato possa disporre per testamento delle indennità” indicate dall'art. 2122 c.c., di conseguenza né l'indennità di preavviso, né l'indennità di fine rapporto non ancora percepita potranno formare oggetto di disposizione testamentaria nel caso di specie. E ancora una volta si conferma il paradosso, non solo sul piano formale, ma sostanziale, discendente dalla vetustà della norma, che tutela una composizione del nucleo familiare ormai non più rispondente alla facies della famiglia dell'epoca 4.0.

Il trattamento di fine rapporto o servizio

Il Trattamento di Fine Rapporto (o Servizio: tale è per i dipendenti pubblici) è una forma di retribuzione differita, che consiste nell'accantonamento annuale di una quota della retribuzione del lavoratore e che questi ha diritto a percepire in caso di cessazione del rapporto di lavoro(art. 2120 c.c.).

Occorre, a tal punto, distinguere fra due ipotesi: a) la prima, in cui a percepire il TFR sia lo stesso lavoratore, per naturale cessazione del rapporto di lavoro; b) la seconda, in cui, il diritto a ricevere il TFR sia maturato ma non sia stato ancora percepito dal lavoratore, perché la cessazione del rapporto di lavoro è avvenuta mortis causa; in questo casooccorre individuare i legittimi titolari del diritto a percepire l'indennità di fine servizio, in luogo del lavoratore.

a) Nella prima ipotesi, nulla quaestio! A parere di chi scrive, è evidente che le erogazioni in denaro nascenti dal TFR rientreranno nel patrimonio del lavoratore fondendosi con gli altri suoi beni e, come tali, saranno trasmissibili agli eredi, secondo le norme sopra evocate.

Esiste un orientamento giurisprudenziale, condiviso da parte della dottrina, che nega che il coniuge separato possa avere diritto ad una quota del trattamento di fine rapporto, quando questo maturi dopo la sentenza di separazione, per cui «a null'altro si avrà diritto, se non a chiedere la revisione dell'assegno di mantenimento che tenga conto della nuova disponibilità economica dell'obbligato» (Cass. civ., sez. I, 29 settembre 2005, n. 19046; Cass. n.14459/2004; Cass. n.12995/2001). E sul punto, chi scrive è concorde, potendosi, comunque, assegnare al coniuge divorziato una quota del TFR, successivamente alla sentenza di divorzio.

La/il convivente del lavoratore o della lavoratrice defunto/a, pertanto, potrà percepire una quota del TFR, solo o con una donazione in vita o con un legato testamentario e sempre a condizione che l'atto di trasferimento non faccia riferimento alle somme percepite a titolo di indennità di fine rapporto”, visto il divieto previsto dall'art. 2122 c.c., il quale dispone che “è nullo ogni patto anteriore alla morte del prestatore di lavoro circa l'attribuzione e la ripartizione dell'indennità” e vista la preclusione sancita dallo stesso articolo al comma 3, di cui si è detto prima.

b) Nel caso in cui si versi nella seconda ipotesi, ossia quando l'indennità sia maturata, anche parzialmente, e non sia stata percepita dal lavoratore, saranno “il coniuge e i figli” - ai sensi dell'art. 2122 c.c. – coloro ai quali deve corrispondersi la relativa indennità.

La ricognizione normativa e giurisprudenziale effettuata, in verità, conduce ad un vuoto normativo: manca, infatti, una disciplina specifica per la condizione del coniuge separato e vedovo con riferimento al suo diritto a percepire una quota del TFR. Non solo, la disamina della giurisprudenza riporta posizioni consolidate e arroccate sulla negazione di tale diritto al coniuge separato, che, comunque, sarebbe illegittimamente (a parere di chi scrive) pretermesso rispetto al coniuge divorziato.

La giurisprudenza di legittimità non è concorde con la tesi secondo cui anche al coniuge separato deve essere riconosciuto il diritto ad una quota dell'indennità di fine rapporto (Cass. 18 marzo 2003 n. 3962); al contrario la dottrina propende per una interpretazione analogica della norma di cui all'art. 12- bis della legge sul divorzio. In realtà, a parere di chi scrive, anche alla luce della ricognizione della giurisprudenza costituzionale, tale esclusione è irragionevole, soprattutto se si confrontano la condizione del coniuge effettivo con quella del coniuge separato rispetto al diritto alla pensione del de cuius, in considerazione dell'univoca matrice assistenziale riconosciuta alla pensione e all'indennità di fine rapporto. Inoltre, lo sbarramento della giurisprudenza è determinato da ragioni di carattere procedimentale connesse alla richiesta dell'assegno divorzile, nel senso che è il riconoscimento del diritto all'assegno divorzile il presupposto logico-giuridico che, nelle cause di divorzio, o successivamente alle stesse, può legittimare il riconoscimento ad una quota del trattamento di fine rapporto. Sul punto è intervenuta anche la Corte Costituzionale, che con la sent. Corte cost. 2002/463, ha rigettato la questione sollevata in merito ad una disparità di trattamento fra coniuge separato e coniuge divorziato riguardo all'attribuzione di una quota del TFR, ma solo perché «l'estensione al coniuge separato della misura patrimoniale in oggetto comporterebbe l'emissione da parte di questa Corte di una pronuncia di tipo additivo volta ad introdurre, in mancanza di una soluzione costituzionalmente obbligata, un istituto diverso da quello cui si riferiscono le attuali censure, con evidente e indebita intromissione nella sfera di attribuzioni riservata alla discrezionalità del legislatore».

L'impasse sembrerebbe inevitabile a tal punto, ma soccorre il Giudice delle Leggi, che in una sentenza poco sopra citata, ha enucleato il fondamento giuridico che sostanzia l'eventuale pretesa del TFR da parte del coniuge separato e vedovo e, pur non risolvendo con una pronuncia d'incostituzionalità la questione sottopostagli, ha valorizzato con un percorso argomentativo degno di essere riportato alla ratio delle norme sotto esame.

Afferma la Corte Costituzionale, nella Sent. n.213/1985, che già era stata messa in luce «la "funzione previdenziale" delle "indennità in caso di morte»; ed ha rilevato come, alla base della disciplina dettata dall'art. 2122 c.c., vada ravvisata l'esigenza «che persone facenti parte del nucleo familiare latamente inteso del lavoratore possano, con la riscossione delle indennità, affrontare le difficoltà immediatamente connesse al venir meno, per morte, di chi comunque provvedeva al loro sostentamento», di tal che, le indennità previste dall'art. 2122 c.c. «non fanno parte del patrimonio del lavoratore e sono pertanto sottratte al suo potere di disposizione, venendo attribuite iure proprio ai vari possibili beneficiari. Del diritto vivente formatosi in tal senso la Corte non può non tener conto… Ma, quale che sia la natura del diritto alle indennità in caso di morte del prestatore di lavoro, va escluso che il "coniuge" di cui si ragiona nel primo comma dell'art. 2122 comprenda anche il vedovo o la vedova cui sia stata addebitata la separazione (o nei cui confronti fosse stata pronunciata - prima della riforma del diritto di famiglia - la separazione per colpa), senza alcuna conseguente corresponsione di assegni alimentari». In altre parole, la Corte Costituzionale, in quella specifica situazione non censurò le norme richiamate, in quanto l'esclusione del coniuge separato e vedovo dalle indennità di fine rapporto era motivato dalla mancata attribuzione allo stesso di un assegno di mantenimento e anche degli alimenti, in ragione della dichiarazione di separazione per colpa.

Mutatis mutandis e con ragionamento a contrario, laddove, invece, non vi sia addebito e sia stato riconosciuto un assegno di mantenimento, al coniuge separato e vedovo spetterà anche una quota del TFR.

Non residuano più dubbi sulla parificazione della posizione del coniuge legalmente separato con quella del coniuge effettivo, anche alla luce della ricognizione giurisprudenziale poco sopra rappresentata, che qualifica il diritto a percepire l'indennità di fine servizio come un diritto proprio degli aventi diritto.

Conferma la ricognizione precedentemente esposta anche la normativa tributaria: l'art. 12, comma 1, lett. c) d.lgs. n. 346/1990, recante norme in materia di successioni e donazioni, esclude dall'asse ereditario (ai fini fiscali) «le indennità di cui …all'art. 2122 del codice civile e le indennità spettanti per diritto proprio agli eredi in forza di assicurazioni previdenziali obbligatorie stipulate dal defunto».

La ripartizione fra i beneficiari, in caso di mancanza di accordi, deve essere fatta in base al bisogno di ciascuno (art. 2122 c.c.).

La tassatività dell'art. 2122 c.c. non avvantaggia il/la convivente superstite per le ragioni su esposte, relative all'impossibilità di qualificarlo/a come un/una “convivente di fatto”, vista l'esistenza del vincolo coniugale dell'altra/o convivente. Per altro verso, la condizione di convivente di fatto non gioverebbe, considerato che la legge Cirinnà n. 76/2016 tace sul diritto del convivente di fatto superstite a percepire una quota del TFR del convivente defunto e tale esclusione deve concepirsi come una precisa scelta legislativa di negare tale diritto al convivente di fatto.

Bizzarra, nonché sperequativa e irragionevole nel confronto con l'art. 3 Cost., è la scelta operata dai compilatori della legge Cirinnà di collocare in una posizione deteriore il convivente di fatto rispetto al coniuge o a uno dei contraenti unione civile; quest'ultimo, in particolare, gode degli stessi diritti e delle medesime tutele assicurate al coniuge, anche in caso di scioglimento dell'unione civile stessa. Le ragioni, probabilmente, risiedono nell'immotivata recezione di quegli orientamenti “culturali” che considerano la convivenza di fatto precaria rispetto al matrimonio e ora (per scelta legislativa) anche rispetto all'unione civile. Né alla lacuna potrebbe sopperirsi con un'applicazione analogica delle norme sull'unione civile, vista l'opponibilità del canone ermeneutico “ubi voluit, dixit”!

Un'alternativa di tutela per il/la convivente, ma piuttosto affievolita a pare di chi scrive, può aversi tramite il ricorso a disposizioni testamentarie: la lavoratrice o il lavoratore potrebbe, nel rispetto dei vincoli imposti dalla quota di riserva per i legittimari e senza fare specifico riferimento alla quota del TFR, per lo sbarramento normativo del comma 3 dell'art. 2122 c.c., o nominare il/la convivente erede ovvero istituire a suo favore un legato o ancora disporre un obbligo di mantenimento a carico dei propri eredi per il/la convivente stessa.

Conclusivamente, è di chiara evidenza che sul piano giuridico-economico chi è maggiormente tutelato, a discapito proprio del convivente, è il coniuge separato del de cuius.

In conclusione

Alla luce di quanto esposto, la bilancia dei diritti del coniuge separato e del convivente di fatto superstiti, in caso di morte dell'altro coniuge, che, dopo la separazione, abbia iniziato una nuova convivenza, pende dal lato del piatto su cui è adagiato il coniuge separato, che, come erede legittimo, percepisce una quota dell'eredità del de cuius, in cui rientra anche la casa di proprietà in cui l'altro coniuge ha instaurato la convivenza di fatto, se di sua esclusiva proprietà; la pensione di reversibilità del de cuius; una quota del TFR o del TFS del de cuius, salve eccezioni da parte dell'Ente erogatore.

Inoltre, come erede necessario, il coniuge è titolare di un quarto della quota di riserva (in concorso con i figli, ai quali complessivamente spetta la metà del patrimonio), per cui una eventuale disposizione testamentaria dovrà tenere conto della vincolatività della legittima.

Al convivente, non essendo erede, non spetta nulla del patrimonio del de cuius; non spetterà la pensione di reversibilità; non spetterà una quota del TFR; non potrà automaticamente continuare ad abitare nella casa in cui ha vissuto per tutto il periodo della convivenza; potrà solo, nel rispetto della quota di riserva per i legittimari, beneficiare di una disposizione testamentaria, che istituisca a suo favore un diritto di usufrutto dell'abitazione e che conferisca la proprietà di altri beni (anche in denaro) del convivente.

Eventuali figli, come eredi, percepiranno una quota del patrimonio, come per legge; non avranno diritto ad una quota della pensione di reversibilità, se ultraventiseienni o se, in caso contrario, non inabili al lavoro; avranno diritto ad una quota del TFR.

Orbene, è di chiara evidenza che, sul piano giuridico-economico, chi è maggiormente tutelato, a discapito proprio del convivente di fatto è proprio il coniuge separato del de cuius. Certamente, alla luce di quanto emerso, un'essenziale modifica all'architettura normativa di cui è stata offerta una ricognizione appare ancora oggi opportuna, se orientata nella direzione di riallineare la posizione e la condizione del mero convivente a quella del coniuge e dell'unito civilmente.

Sul finire del 2019, il Governo aveva anche ricevuto specifica delega ad adottare uno o più decreti legislativi per la revisione del Codice civile, in materia di diritto di famiglia. Secondo quanto veniva pubblicato nelle “veline” on line, il o i più decreti che avrebbero dovuto essere emanati avrebbero consentito «la stipulazione tra i nubendi, tra i coniugi, tra le parti di una programmata o attuata unione civile, di accordi intesi a regolare tra loro, nel rispetto delle norme imperative, dei diritti fondamentali della persona umana, dell'ordine pubblico e del buoncostume, i rapporti personali e quelli patrimoniali, anche in previsione dell'eventuale crisi del rapporto, nonché a stabilire i criteri per l'indirizzo della vita familiare e l'educazione dei figli». Le regole avrebbero interessato coppie etero od omosessuali e sarebbero state sottoscritte «in forma di atto pubblico o scrittura privata autenticata» con «efficacia obbligatoria».

Si prospettava che il futuro normativo dei rapporti patrimoniali fra coniugi o ex coniugi avrebbe potuto essere regolato sulla base di accordi che consentissero alla libera autodeterminazione di ciascuno di stabilire per il futuro la sorte dei propri patrimoni, sulla scia dell'esempio dei paesi di common law.

Poteva essere un'occasione per ricomprendere nel novero dei rapporti oggetto di quegli accordi anche le quote di pensione o di TFR, sebbene, considerata la natura giuridica delle predette indennità, una totale emancipazione in tal senso sembra difficilmente praticabile.

Non è ragionevole, tuttavia, e soprattutto contraria ai principi di libertà e di autodeterminazione, la disparità di trattamento che, chi sceglie la convivenza di fatto, è costretto a mal tollerare da un ordinamento giuridico che ha sempre, al contrario, professato e praticato la tutela de “il diritto di avere diritti”.

Si auspica solo che, riconsiderata la possibilità di recuperare quei lavori e quei testi preparatori, una volta varata, l'eventuale riforma non debba essere considerata esemplificativa di una bella occasione sprecata”.

Riferimenti

AA.VV., La solidarietà postconiugale. Pensione di reversibilità e indennità di fine rapporto, II ed., Padova, 2012;

Figone, Divorzio, in La famiglia, Il diritto privato nella giurisprudenza, a cura di P. Cendon, Torino, 2000;

P. Virgadamo, Pensione di reversibilità, in Trattato di diritto di famiglia, Vol. I, Tomo II, p. 1793 ss., Giuffrè, MILANO, 2011;

P. Virgadamo, Indennità di fine rapporto, 1805 ss., op. cit.

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