Ammissione al rito abbreviato a seguito della riqualificazione giuridica del fatto: disciplina incostituzionale?
19 Maggio 2021
Il divieto di analogia in malam partem impone di chiarire se davvero la sussistenza di una relazione, caratterizzata dalla frequentazione della casa del reo da parte della persona offesa, consenta di qualificare quest'ultima come persona (già) appartenente alla medesima “famiglia” dell'imputato; o se, in alternativa, un rapporto affettivo dipanatosi nell'arco di qualche mese e caratterizzato da permanenze non continuative possa già considerarsi come una ipotesi di “convivenza”.
Lo ha affermato la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 98/21, depositata il 14 maggio.
Il caso. La questione di legittimità costituzionale che ha dato luogo alla pronuncia in commento è stata sollevata nell'ambito di un giudizio nel quale era stato contestato all'imputato il delitto di atti persecutori ex art. 612-bis c.p. (stalking). All'esito del dibattimento, il giudice ha ritenuto di dover riqualificare il fatto censurato – immutato nella sua materialità – nella diversa e più grave fattispecie di maltrattamenti in famiglia, di cui all'art. 572 c.p.. In considerazione della possibile riqualificazione e della conseguente richiesta di ammissione al rito abbreviato da parte dell'imputato, il giudice a quo ha sollevato la questione di legittimità costituzionale dell'art. 521 c.p.p. nella parte in cui non prevede la facoltà dell'imputato, allorquando sia invitato dal giudice del dibattimento ad instaurare il contraddittorio sulla riqualificazione giuridica del fatto, di richiedere il giudizio abbreviato relativamente al fatto diversamente qualificato dal giudice in esito al giudizio. La riqualificazione del reato da atti persecutori a maltrattamenti in famiglia è stata determinata dal fatto che le condotte – moleste, minacciose, ingiuriose e violente – contestate all'imputato fossero state commesse nel quadro di una relazione affettiva stabile tra l'imputato e la persona offesa, pur nella riconosciuta assenza di convivenza. Ed infatti, dall'istruttoria dibattimentale è emersa l'esistenza di un rapporto affettivo tra i due, dipanatosi in un arco temporale di circa quattro mesi, nel corso del quale la donna era solita frequentare la casa ove l'uomo viveva, nella quale lei stessa talvolta si tratteneva. Pertanto, mentre il PM aveva qualificato le condotte contestate come atti persecutori con l'aggravante prevista quando il fatto sia commesso, tra l'altro, da persona che è o è stata legata da relazione affettiva alla persona offesa, il rimettente, invece, ha ritenuto che la stabilità della relazione affettiva – desunta, in particolare, dall'assidua frequentazione da parte della persona offesa della famiglia dell'imputato – imponesse di riqualificare le condotte come maltrattamenti in famiglia ai sensi dell'art. 572, comma 1, c.p., applicabile a chiunque maltratti «una persona della famiglia o comunque convivente».
Quale è il discrimine tra atti persecutori aggravati e maltrattamenti in famiglia? Alla base del ragionamento del rimettente c'è la considerazione secondo cui l'espressione «una persona (…) comunque convivente» andrebbe letta come riferita ad un “contesto affettivo protetto», caratterizzato da «legami affettivi forti e stabili, tali da rendere particolarmente difficoltoso per colui che patisce i maltrattamenti sottrarsi ad essi e particolarmente agevole per colui che li perpetua proseguire». Secondo il giudice a quo, tale lettura troverebbe conforto in varie pronunce di legittimità, che hanno ricondotto alla fattispecie dei maltrattamenti in famiglia fatti commessi nell'ambito di relazioni caratterizzate dalla «condivisione di progetti di vita», essendo l'art. 572 c.p. è applicabile a qualunque relazione sentimentale che, per la consuetudine dei rapporti creati, implichi l'insorgenza di vincoli affettivi e aspettative di assistenza assimilabili a quelli tipici della famiglia o della convivenza abituale. Pertanto, il delitto sarebbe configurabile anche quando manchi una stabile convivenza e sussista, con la vittima degli abusi, un rapporto familiare di mero fatto, caratterizzato dalla messa in atto di un progetto di vita basato sulla reciproca solidarietà ed assistenza (Cass. Pen., n. 19922/2019 e n. 31121/2014). Tuttavia, una recente sentenza della Corte di Cassazione ha escluso il delitto di maltrattamenti in famiglia in un'ipotesi assai simile a quella oggetto del processo a quo, caratterizzata da una “coabitazione” consistita soltanto nella permanenza per due o tre giorni consecutivi nella casa dell'uomo ove la donna si recava, talvolta anche con la propria figlia (Cass. Pen., n. 2911/2021). La giurisprudenza di legittimità, pertanto, fornisce indicazioni assai meno univoche di quanto rappresentato dal rimettente.
La Consulta sul divieto di analogia. Secondo il Giudice delle leggi, nel procedere alla riqualificazione giuridica dei fatti accertati in giudizio, il rimettente ha omesso di confrontarsi con il canone ermeneutico rappresentato, in materia di diritto penale, dal divieto di analogia a sfavore del reo: canone affermato a livello di fonti primarie dall'art. 14 delle Preleggi nonché – implicitamente – dall'art. 1 c.p., e fondato a livello costituzionale sul principio di legalità di cui all'art. 25, co. 2, Cost. (nullum crimen, nulla poena sine lege stricta) (cfr. Corte Cost., n. 447/1998). Il divieto di analogia, infatti, non consente di riferire la norma incriminatrice a situazioni non ascrivibili ad alcuno dei suoi possibili significati letterali e costituisce così un limite insuperabile rispetto alle opzioni interpretative a disposizione del giudice di fronte al testo legislativo. E ciò in quanto è il testo della legge che deve fornire al consociato un chiaro avvertimento circa le conseguenze sanzionatorie delle proprie condotte; sicché non è tollerabile che la sanzione possa colpirlo per fatti che il linguaggio comune non consente di ricondurre al significato letterale delle espressioni utilizzate dal legislatore. In particolare, è evidente che la ratio della riserva assoluta di legge in materia penale – che assegna alla sola legge e agli atti aventi forza di legge il compito di stabilire quali siano le condotte costituenti reato, sul presupposto che una simile decisione, destinata potenzialmente a ripercuotersi in maniera drammatica sul diritto inviolabile alla libertà personale dei destinatari della norma penale, spetti soltanto ai rappresentanti eletti a suffragio universale dall'intera collettività nazionale – verrebbe nella sostanza svuotata ove ai giudici fosse consentito di applicare pene al di là dei casi espressamente previsti dalla legge.
Da stalking a maltrattamenti in famiglia: i presupposti della riqualificazione devono essere dimostrati. Ad avviso della Consulta, il pur comprensibile intento, sotteso all'indirizzo giurisprudenziale cui il rimettente aderisce, di assicurare una più intensa tutela penale a persone particolarmente vulnerabili, vittime di condotte abusive nell'ambito di rapporti affettivi dai quali esse hanno difficoltà a sottrarsi, deve necessariamente misurarsi con l'interrogativo se il risultato di una siffatta interpretazione teleologica sia compatibile con i significati letterali dei requisiti alternativi “persona della famiglia” e “persona comunque (…) convivente” con l'autore del reato: requisiti che circoscrivono l'ambito delle relazioni nelle quali le condotte debbono avere luogo, per poter essere considerate penalmente rilevanti ai fini del reato di “maltrattamenti in famiglia”. Il divieto di analogia in malam partem impone di chiarire se davvero possa sostenersi che la sussistenza di una relazione, come quella che risulta intercorsa tra imputato e persona offesa nel processo a quo, consenta di qualificare quest'ultima come persona (già) appartenente alla medesima “famiglia” dell'imputato; o se, in alternativa, un rapporto affettivo dipanatosi nell'arco di qualche mese e caratterizzato da permanenze non continuative di un partner nell'abitazione dell'altro possa già considerarsi, alla stregua dell'ordinario significato di questa espressione, come una ipotesi di “convivenza”. In difetto di una tale dimostrazione, l'applicazione dell'art. 572 c.p. in queste situazioni – in luogo dell'art. 612-bis, comma 2, c.p., che pure contempla espressamente l'ipotesi di condotte commesse a danno di persona “legata da relazione affettiva” all'agente – apparirebbe come il frutto di una interpretazione analogica a sfavore del reo della norma incriminatrice: una interpretazione magari sostenibile dal punto di vista teleologico e sistematico, sulla base delle ragioni ampiamente illustrate dal rimettente, ma comunque preclusa dall'art. 25, comma 2, Cost.. Il mancato confronto con le implicazioni del divieto costituzionale di applicazione analogica della legge penale in malam partem in relazione al caso di specie comporta, dunque, una lacuna motivazionale sulla rilevanza delle questioni prospettate dal giudice a quo, che ne determina l'inammissibilità (cfr., da ultimo, Corte Cost., n. 57/2021) |