Dead man walking, il “Vento d'Europa” e le sue… parole. La decisione della Consulta sull'ergastolo ostativo

31 Maggio 2021

La Corte costituzionale ha rinviato all'udienza pubblica del 10 maggio 2022 la trattazione delle Q.L.C. degli artt. 4-bis, comma 1 e 58-ter l. n. 354/1975 in uno all'art. 2 d.l. n. 152/1991, conv. con modd. nella l. n. 203/1991, nella parte in cui escludono che il condannato all'ergastolo, per delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all'art. 416-bis c.p. ovvero...
Premessa. La questione di legittimità costituzionale

La Corte costituzionale ha rinviato all'udienza pubblica del 10 maggio 2022 la trattazione delle Q.L.C. degli artt. 4-bis, comma 1 e 58-ter l. n. 354/1975 in uno all'art. 2 d.l. n. 152/1991, conv. con modd. nella l. n. 203/1991, nella parte in cui escludono che il condannato all'ergastolo, per delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all'art. 416-bis c.p. ovvero al fine di agevolare l'attività delle associazioni in esso previste, che non abbia collaborato con la giustizia, possa essere ammesso alla liberazione condizionale.

Questo è, in nuce, il percorso motivo tracciato dalla Consulta: «Non è affatto irragionevole (…) presumere che costui», i.e.: il condannato all'ergastolo per reati di natura mafiosa che non collabora con la giustizia, «mantenga vivi i legami con l'organizzazione criminale di originaria appartenenza. Ma, appunto, tale tensione si evidenzia laddove sia stabilito che la collaborazione sia l'unica strada a disposizione del condannato a pena perpetua per l'accesso alla valutazione da cui dipende, decisivamente, la sua restituzione alla libertà. Anche in tal caso, è insomma necessario che la presunzione in esame diventi relativa e possa essere vinta da prova contraria, valutabile dal tribunale di sorveglianza (…)».

Tuttavia, «un intervento meramente “demolitorio” di questa Corte potrebbe mettere a rischio il complessivo equilibrio della disciplina in esame, e, soprattutto, le esigenze di prevenzione generale e di sicurezza collettiva che essa persegue per contrastare il pervasivo e radicato fenomeno della criminalità mafiosa». Peraltro, «emerge (…) l'incerta coerenza della disciplina risultante da un'eventuale pronuncia che accolga le questioni nei termini proposti dal giudice a quo, senza modificare la condizione dei condannati all'ergastolo per reati non connessi alla criminalità organizzata».

Di conseguenza, «esigenze di collaborazione istituzionale impongono a questa Corte di disporre (…) il rinvio del giudizio in corso (…). Spetta in primo luogo al legislatore, infatti, di ricercare il punto di equilibrio tra i diversi argomenti in campo (…); mentre compito di questa Corte sarà quello di verificare ex post la conformità a Costituzione delle decisioni effettivamente assunte (…)».

Il caso (con qualche anticipata osservazione)

Con ordinanza n. 18518/2020 emessa il 3 giugno 2020, depositata il 18 giugno successivo, la Suprema Corte di Cassazione, Prima sezione penale, ha sollevato con riferimento agli artt. 3, 27 e 117 Cost. la Q.L.C. degli artt. 4-bis, comma 1 e 58-ter l. n. 354/1975 in uno all'art. 2 d.l. n. 152/1991, conv. con modd. nella l. n. 203/1991, nella parte in cui escludono che il condannato all'ergastolo, per delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all'art. 416-bis c.p. ovvero al fine di agevolare l'attività delle associazioni in esso previste, che non abbia collaborato con la giustizia, possa essere ammesso alla liberazione condizionale.

Ivi si legge al § 18: «Le evoluzioni della giurisprudenza costituzionale e la posizione della Corte Edu sull'ergastolo ostativo inducono a ritenere non manifestamente infondata la questione di costituzionalità della normativa, perché si sostanzia in una irragionevole compressione dei principi di individualizzazione e di progressività del trattamento». Ciò in quanto, prosegue il rimettente ibĭdem, «Le finalità di politica criminale e di difesa sociale, sottese alla presunzione assoluta di mantenimento dei collegamenti con il gruppo di appartenenza, collidono – in misura che non pare tollerabile – con la finalità rieducativa che, come pacificamente riconosciuto – v. Corte cost., sentenza n. 313 del 1990 –, è “una delle qualità essenziali e generali che caratterizzano la pena nel suo contenuto ontologico, e l'accompagnano da quando nasce, nell'astratta previsione normativa, fino a quando in concreto si estingue”».

Rifletta bene il Lettore sulla “grande bellezza” di quest'ultimo inciso.

V'è davvero ben poco da aggiungere, semplicemente perché si è al cospetto di qualcosa di basico, quasi banale e dunque indiscutibile. Lo è del pari la certezza che queste finalità – compresa quella retributiva – siano costantemente appaiate alla pena.

Decisa dall'uomo per l'uomo. Condannato e/O offeso che sia.

Così come trasuda oggettiva benevolenza – non già magnanimità – il concetto stesso di accompagnamento. Chi accompagna è ontologicamente presente nella dimensione dell'altro e diverso da sé; lo studia anche tramite i sensi, lo ascolta, lo annusa. Sarà per questo che un magistrato di prima nomina viene chiamato uditore. E, proprio come un amico fedele che osserva, ode e analizza, il Giudice è in grado – deve essere posto in gradodi confermare o stravolgere, nel bene o nel male, la direzione della vita del giudicato.

Chissà perché dal Palazzo della Consulta al carcere l'ingresso sia stato così tanto ritardato.

Anche se, di delitti che intorno al 416-bis c.p. gravitano, il “definitivo” si è macchiato.

Anche a fronte della «rilevantissima gravità dei reati cui è connessa la pena dell'ergastolo». Corretta – ma significativa – l'iperbole scelta dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri e riportata al punto 2 della ordinanza tanto attesa quanto inaspettata: la n. 97, depositata dalla Corte costituzionale poche settimane fa.

Quasi che in tal modo il Censore esecutivo concedesse al Legislatore – a parti invertite – una discrezionalità (troppo) vincolata. Una “non scelta” – pur a fronte della «“scelta tragica”» imposta al condannato per “reato ostativo” – considerata ragionevole nel «rigore “cieco”» (così Rosalba Normando) del “catalogo”. Ecco il senso del distinguo ed ecco il perché della enfasi grafica rafforzata: la astratta previsione normativa, basata sulla logica del “tipo d'autore” e/o del “nemico”, deve calarsi nella pena concretamente espiata dall'individuo.

Unicum nella totalità del suo essere: dal punto apicale sino all'ultimo membro associato.

Solo così la pena gli calzerà addosso alla (umana) perfezione.

Consapevoli – devono esserlo soprattutto i Sorveglianti – che la sua sagoma muta.

Può cambiare. Forse non cambierà mai, o forse sì. Nessuno lo sa, in fondo.

Nessuno sa cosa si celi nel profondo, da l'unfairness che è stata dichiarata dal Giudice più asettico e perciò fecondo.

Da qui la panacea del male peggiore: la chiamavano collaborazione – pare che non la esigesse Giovanni Falcone – la chiama(va) così chi la pretende(va), rebus sic stantĭbus, per restituire ciò che non si può sottrarre, poiché indisponibile e incomprimibile.

Il diritto di pensare come Anna Frank: «Credo nel sole anche quando piove».

Eppure (e proprio) nella possibilità risiedeva (e risiede) la chiave di lettura della illegittimità. Stimata, persino riconosciuta, ma temuta – perché di pregnanza e dirompenza per taluni sproporzionata – e dunque non proclamata.

E così drammaticamente dilazionata e delegata al Parlamento, inCappato nel solito tormento.

E infatti, nel caso che ha dato vita alla ordinanza di rimessione, il Tribunale di Sorveglianza de L'Aquila aveva dichiarato l'inammissibilità della richiesta di liberazione condizionale avanzata da Salvatore Francesco Pezzino, detenuto in espiazione della pena dell'ergastolo con isolamento diurno per anni uno dal 23 novembre 1999. Si trattava di condanna per delitto rientrante tra quelli «assolutamente ostativi» (v. § 1 del Ritenuto in fatto) ai sensi dell'art. 4-bis ord. pen., per i quali la liberazione condizionale può essere concessa solo ed esclusivamente se il soggetto collabora o se la sua collaborazione risulta impossibile o inesigibile. In assenza di tale condizione e, dunque, essendosi formato il c.d. “giudicato esecutivo”, il Tribunale aveva così deliberato stante la mancanza di nuovi elementi.

Tali elementi non sarebbero stati integrati dagli arresti della giurisprudenza nazionale e d'Oltralpe, sicché, data la preclusione derivante dalle precedenti statuizioni in punto di assenza del requisito della collaborazione, la disamina della richiesta nel merito si era palesata off limits. Preclusione censurata in Cassazione sub specie dell'art. 606, comma 1, lett. b)ed e),c.p.p., tenuto conto che, alla luce del “diritto vivente” sovranazionale, il difetto di collaborazione non può essere considerato «indice invincibile di pericolosità sociale» (v. § 2); peraltro, diversamente dalle misure alternative alla detenzione, la liberazione condizionale è causa estintiva della pena che interviene con il decorso del termine prescritto ed è strettamente correlata con la finalità rieducativa: «dalla natura sostanziale della disposizione in punto di liberazione condizionale discende la non applicabilità della disciplina in punto di collaborazione».

Si tratta di uno di quei rari casi in cui la forma/procedura stride con l'essenza/sostanza; sarà perché il vagone a orologeria che viaggia sul “doppio binario” del do ut des (rectius: quia debes dicĕre) è stato fabbricato da un deforme allarmismo.

Davvero uno strano meccanismo nella fucina oscura del “pentitismo”.

Non certo e non già perché chi collabora – a prescindere dal suo intimo ripensamento – non sia utile, talvolta fondamentale per bloccare la cancrena mafiosa che distrugge in modo sordido e lento. Tutt'altro.

Ma è la legale presunzione – come lo «strumento di intimidazione» – che stride con la risocializzazione.

A tal proposito, la Sezione Prima ha ricordato sub § 11.1: «Già con la sentenza n. 264 del 1974, infatti, la Corte costituzionale aveva osservato che era proprio l'istituto della liberazione condizionale a consentire l'effettivo reinserimento sociale anche dell'ergastolano pur premettendo, in conformità alla c.d. teoria polifunzionale della pena, che l'art. 27 cost. non aveva proscritto la pena dell'ergastolo consentendo al legislatore ordinario di valutarne l'indispensabilità come “strumento di intimidazione per individui insensibili a comminatorie molto gravi” o di isolamento di criminali spiccatamente pericolosi».

Eppure, già in Portogallo, l'ergastolo era stato abolito con la riforma penitenziaria del 1884.

Appena ventitré anni prima anche l'Italia aveva fatto notevoli progressi: era stata riunita.

Curioso pensare, poi, che nel 1884 fu istituito il meridiano di Greenwich: venne eletto meridiano “fondamentale” per sincronizzare gli orologi di tutto il mondo in base a un Tempo Universale.

Chissà se è una coincidenza che la “stessa” Corte costituzionale si sia pronunciata in tema di contro-limiti al diritto extranazionale anche in materia di esecuzione della pena restrittiva.

Più esattamente, si legge al § 3.1 della sentenza n. 73/2001, Baraldini, redattore Zagrebelsky: «L'orientamento di apertura dell'ordinamento italiano nei confronti sia delle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute, sia delle norme internazionali convenzionali incontra i limiti necessari a garantirne l'identità e quindi, innanzitutto, i limiti derivanti dalla Costituzione. Ciò vale perfino nei casi in cui la Costituzione stessa offre all'adattamento al diritto internazionale uno specifico fondamento, idoneo a conferire alle norme introdotte nell'ordinamento italiano un particolare valore giuridico. I “principi fondamentali dell'ordinamento costituzionale” e i “diritti inalienabili della persona” costituiscono infatti limite all'ingresso tanto delle norme internazionali generalmente riconosciute alle quali l'ordinamento giuridico italiano “si conforma” secondo l'art. 10, primo comma, Cost. (sent. n. 48 del 1979); quanto delle norme contenute in trattati istitutivi di organizzazioni internazionali aventi gli scopi indicati dall'art. 11 Cost. o derivanti da tali organizzazioni (sent. n. 183 del 1973; sent. n. 176 del 1981; sent. n. 170 del 1984; sent. n. 232 del 1989 e sent. n. 168 del 1991)».

Le coincidenze non finiscono qui. Sì perché, se si sbircia nel “Manifesto del diritto penale liberale e del giusto processo”, si legge all'art. 33: «I principi e le garanzie procedurali fissati a livello europeo - Convenzione Europea dei Diritti Umani, Diritto dell'Unione Europea - vanno considerati come standards minimi, perché il modello liberale punta a un livello di tutela delle libertà e dei diritti fondamentali dell'imputato che tenda sempre alla massima espansione possibile. Le fonti sovranazionali non possono perciò comportare alcuna restrizione delle più ampie garanzie riconosciute dalla Costituzione repubblicana».

Il che val quanto dire: ≥.

Il problema, però, sta nel rapporto di proporzionalità con il tempo: più esso avanza, minori (troppo spesso) sono le conquiste giuste e liberali.

Del diritto scritto come del “diritto vivente”; così come inversamente proporzionale è il rapporto tra giustizia convenzionale (anch'essa – e non solo offshore – un po' incostante) e giustizia italiana.

Soprattutto quando il tempo che quest'ultima concede – in tal caso sì e purtroppo con irragionevole magnanimità – appare ∞.

Ebbene, anche nel procedimento instaurato da Salvatore Francesco Pezzino, il Tribunale aveva trascurato che Oltralpe era già stata dichiarata l'incompatibilità dell'ergastolo ostativo con le disposizioni convenzionali, in assenza di una concreta possibilità di liberazione; inoltre, nel dichiarare la manifesta infondatezza della Q.L.C. sollevata, aveva omesso di compiere una lettura costituzionalmente orientata della normativa denunciata, considerata, pertanto, contraria agli artt. 14 e 6 C.E.D.U., in uno agli artt. 3 e 111 Cost. (ex cetĕris, per vero).

Nello specifico – si riporta sub § 2 del Considerato in diritto – l'Ufficio di sorveglianza abruzzese aveva escluso che «potesse parlarsi di un ruolo partecipativo marginale; o che potesse affermarsi che le sue conoscenze del fatto e del contesto criminale di riferimento fossero limitate. E aggiunse che il giudizio di cognizione non era approdato ad un integrale accertamento, residuando la possibilità di un'utile collaborazione».

Tale inciso riecheggia più e più volte nella eco mentale ma – lo si consenta – ha del paradossale: quasi che esistesse un quarto grado di giudizio (come se quello di legittimità potesse trasformarsi nel terzo grado del merito) per cui il Sorvegliante possa invadere il terreno squisitamente probatorio coltivato da altri e su cui ormai lampeggia l'infertile game over.

Ché, poi, d'infertilità nella pancia popolare ci si dovrebbe “preoccupare”, il germe del rinnovamento ben potendo nascere in chi pur non vuole e/o non può collaborare.

Si legge a cavallo tra i §§ 8 e 9: «Il ricorrente, come risulta agli atti, ha addotto di aver preso parte in modo proficuo all'opera di rieducazione, di cui si ha conferma dai provvedimenti di liberazione anticipata; di essersi avvalso con profitto delle possibilità di lavoro e di studio offerte dai programmi di trattamento operativi nei vari Istituti di detenzione; di aver conseguito il titolo di agronomo e di essere stato inserito, con risultati positivi, in un progetto agricolo; di aver frequentato assiduamente corsi di studio e di aver partecipato a concorsi letterari con riconoscimento di premi. Ha poi richiamato i contenuti della relazione di sintesi in cui (…) si dà atto della rivisitazione critica del suo vissuto e dell'avvenuto riconoscimento degli errori commessi, con parziale ammissione delle proprie responsabilità e con l'espressione della volontà di allontanamento dal contesto mafioso. Quanto all'adempimento delle obbligazioni civili derivanti dal reato, il Tribunale ha richiamato le deduzioni del richiedente, e cioè che è nell'impossibilità di soddisfare quegli obblighi a causa delle precarie condizioni in cui versa. Tale ultimo profilo,che sarebbe da indagare anche alla luce del principio di diritto per il quale in ogni caso rilevano quegli “atti e comportamenti di concreta apertura e disponibilità relazionale verso i parenti delle vittime di gravi delitti commessi”, pur quando il condannato sia privo di possibilità economiche (…), non è stato giocoforza esplorato dal Tribunale. E ciò al pari di quelli interessati dalle prospettazioni difensive appena prima riassunte, per la più volte menzionata preclusione all'esame del merito. Non può allora negarsi rilevanza alla questione di costituzionalità, perché la dichiarazione di inammissibilità della richiesta di liberazione condizionale è stata diretta conseguenza dell'applicazione dell'art. 2 d.l. n. 152 del 1991, conv. con modif. con la l. n. 203 del 1991, che ha precluso l'apprezzamento di quanto nel merito dedotto dal ricorrente, che ha già trascorso più di ventisei anni di detenzione carceraria».

Effetto: negazione della funzione giurisdizionale, chi ha il compito di esaminare e, dunque, decidere risultando esautorato da una presunzione assoluta.

Così come il destino del condannato inesorabilmente fagocitato.

Ragion per cui, prendendo le mosse da Corte cost. n. 306/1993, recandosi Oltralpe con Corte EDU Viola c. Italia e ritornando nei confini con Corte cost. n. 253/2019, la Sezione Prima ha sollevato la Q.L.C. in oggetto. Forte di questa ineccepibile constatazione: la Corte di Strasburgo «e non è particolare trascurabile, ha preso in esame una vicenda pienamente sovrapponibile a quella oggetto di questo procedimento. In quell'occasione il ricorrente, condannato alla pena dell'ergastolo anche per il delitto di omicidio aggravato ai sensi dell'art. 7 d.l. n. 152 del 1991, aveva chiesto più volte di fruire di permessi premio, ma le richieste erano state respinte per assenza del requisito della collaborazione; aveva anche chiesto di essere ammesso alla liberazione condizionale, adducendo numerosi e consistenti progressi trattamentali e il riconoscimento della liberazione anticipata per ben 1600 giorni al momento della domanda, ma il Tribunale di sorveglianza aveva opposto, come elemento impeditivo, l'assenza di collaborazione con la giustizia. Le perplessità sono ulteriormente rafforzate dalla considerazione della decisione n. 253 del 2019 con cui la Corte costituzionale ha fatto cadere la preclusione alla concessione dei permessi premio per difetto di collaborazione con la giustizia» (v. §§ 19 - 19.1).

Come sul piano di Giovanni Allevi, sui condannati “non collaboranti” s'era già alzato il «Vento d'Europa»: esso alleggerisce e ridà linfa vitale all'ergastolano – benché per “reato ostativo” – quale umanissimo e irrinunciabile maestrale.

La decisione (e qualche amara riflessione)

Con ordinanza n. 97, emessa il 15 aprile 2021, all'esito dell'udienza pubblica del 23 marzo 2021 e depositata l'11 maggio successivo, Presidente Coraggio, Redattore Zanon, la Corte costituzionale ha deciso di rinviare «all'udienza pubblica del 10 maggio 2022 la trattazione delle questioni di legittimità costituzionale sollevate dalla Corte di cassazione, prima sezione penale, con l'ordinanza indicata in epigrafe».

Preliminarmente, la Corte ha richiamato le memorie scritte dagli amici curiae.

Quella con cui l'associazione “Antigone” aveva evidenziato i dati statistici – i condannati per “reati ostativi” rappresentano il 70% della popolazione carceraria – e quelli di tipo giurisprudenziale/normativo – il problema già rilevato dalla Corte E.d.u. nel caso Viola è di tipo strutturale, in uno alla circostanza che la disciplina censurata implichi un ribaltamento della presunzione di innocenza, rinvigorita anche dalla direttiva 2016/343/UE del Parlamento europeo e del Consiglio.

Quella stesa dal “Centro studi giuridici europei sulla grande criminalità – Macrocrimes”, per cui (v. sub § 3.2 della stessa opinione) «la tecnica normativa fondata su generalizzazioni e assiomi inconfutabili, che riduce a formula aritmetica - applicabile sempre e in ogni tempo - la complessa questione della persistenza di legami con i sodalizi criminosi» è uno dei «tre pilastri su cui poggia la sent. n. 253/2019». Peraltro, il divieto ope legis riporta in vita (v. § 4.4) «le medesime condizioni ordinamentali già accertate come incostituzionali nella sent. n. 161/1997: precedente che s'intende qui valorizzare più di quanto già fatto dalla Cassazione nel suo atto di promovimento» (v. § 11.2). «Con quella decisione venne accertata l'incostituzionalità dell'art. 177, co. 1, ult. periodo, c.p., nella parte in cui disponeva che il condannato all'ergastolo cui fosse stata revocata la liberazione condizionale, non potesse di nuovo fruirne». Risuona l'idea del Giudice quale amicus… hominis, l'amico fedele – in quanto ne condivide la multiforme natura in carne e ossa – che osserva, ode e analizza e, dunque, è in grado di confermare o stravolgere, nel bene o nel male, la direzione del giudicato.

Inoltre – la Consulta ne dà atto in calce al punto 3.2 – «la sequenza tra permesso premio, semilibertà e liberazione condizionale renderebbe palese l'illegittimità costituzionale dell'attuale disciplina, poiché per i detenuti in questione il percorso avviato con il permesso premio resterebbe oggi privo di sbocchi ulteriori». Infine, il Centro aveva sollecitato «declaratorie analoghe, ex art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (…), sia con riguardo ai condannati all'ergastolo per reati non riconducibili al “contesto mafioso”, sia con riferimento ai condannati a pene temporanee per uno o più delitti elencati nell'art. 4-bis, comma 1, ord. pen.».

Nel dettaglio, l'art. 27 si chiude così: (La Corte costituzionale) dichiara, altresì, quali sono le altre disposizioni legislative, la cui illegittimità deriva come conseguenza della decisione adottata. Niente di più logico, coerente e tecnicamente possibile, dunque, per prevenire le disarmonie del sistema.

Trattasi, a ben guardare, della eādem ratio sottesa al rapporto tra “atto presupposto” e “atto presupponente” (nella branca del diritto amministrativo), come alla “nullità derivata” dell'atto processuale penale ex art. 185, comma 1, c.p.p.

Conseguenzialità di una “solidarietà passiva” quantomai… positiva, la quale ha però inibito la invocata illegittimità, piuttosto che stimolare un restyling normativo completo e compiutamente garantista.

Si anticipi, infatti, quanto scritto al punto 10 dell'ordinanza e, con ciò, la propria riflessione: «Il giudice rimettente, per parte sua, chiede che l'illegittimità costituzionale delle norme censurate sia dichiarata con stretta aderenza al caso di specie, e quindi con riferimento ai soli delitti di contesto mafioso (oltre che, naturalmente, per i soli ergastolani e con riguardo al solo beneficio della liberazione condizionale)».

Certo. La Difesa e, con essa, il Giudice, non aveva ragione di estendere il petītum, l'interesse dell'Assistito – ergastolano per “reato ostativo” – essendo stato (anzi, essendo ancora adesso) “solo” quello di far cessare la pena. Scontati i ventisei anni di reclusione, avendo fruito dei semestri di liberazione anticipata e tenuto una condotta ad ampio raggio pregevole, Pezzino, proprio il Sig. Salvatore Francesco Pezzino, aveva maturato tutti i requisiti di legge per tornare in libertà. Se solo al Tribunale di Sorveglianza il diktat normativo non ne avesse precluso in radice la ragionevole possibilità di giudicare. Cioè di svolgere appieno il proprio Mestiere.

Null'altro v'era da chiedere perché null'altro v'era da valutare.

È compito di un buon Giudice a quo (d'ufficio o, come in questo caso, su impulso di parte, essendo fin troppo noto che istituti come la Verfassungsbeschwerde e l'amparo siano sconosciuti al nostro ordinamento) – capire «se la questione sia stata sollevata nei confronti di una legge o atto equiparato (o di singole loro disposizioni) che egli ritiene di dovere applicare per potere definire il giudizio. Tale legge riguarderà, nella maggior parte dei casi, il merito della controversia; ma può anche attenere ad una questione meramente processuale o ad un'azione secondaria. È questo il punto di diritto che interessa al giudice a quo, e non l'astratta possibilità che una legge sia incostituzionale. Ed infatti, se la questione riguardasse una legge» o, lo permetta il Maestro, singole sue disposizioni, «che il giudice non ritiene di dovere applicare per la definizione della controversia sottoposta al suo esame, la questione stessa sarebbe, per quel giudizio, del tutto irrilevante, ed il giudice la respingerebbe, proseguendo il giudizio. Pertanto – e secondo la consolidata giurisprudenza della Corte costituzionale (v., ad esempio, la sent. n. 49 del 1983) – perché la questione sia rilevante deve esistere un rapporto di strumentalità necessaria fra la risoluzione della questione stessa e la decisione del giudizio principale».

Temistocle Martines docuit. Temistocle Martines docet.

Rilevanza i cui effetti, peraltro e paradossalmente, il Giudice delle leggi – evocando il rimettente – aveva poco prima dimostrato di tenere bene a mente: «L'accoglimento di tali questioni non implicherebbe, di per sé, una risposta positiva alla domanda di accesso al beneficio, ma modificherebbe la disciplina applicabile da parte del Tribunale di sorveglianza, che dovrebbe estendere al merito l'esame del caso. Ciò sarebbe appunto sufficiente – osserva il giudice a quo richiamando la sentenza di questa Corte n. 253 del 2019 – ad affermare la rilevanza delle questioni sollevate, non essendo a tal fine necessario l'esito di accoglimento della domanda posta nel giudizio principale» (v. § 1, quinto inciso, Considerato in diritto).

Per l'appunto, epperò!

Secondo l'associazione “Nessuno Tocchi Caino” (v. § 3.3), la Corte di Strasburgo avrebbe stabilito nel caso Viola, altresì, che «le condizioni per un ipotetico accesso alla liberazione condizionale devono essere note al condannato fin dall'inizio dell'esecuzione della pena», trattandosi – come aveva aggiunto il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale (v. § 3.4) – «del diritto di sapere ciò che deve fare perché la sua liberazione sia presa in considerazione e quali siano le condizioni applicabili». Bellissima declinazione del principio di legalità.

Curioso, poi, per tutti noi come si riesca a capire – solo in parte e solo hic et nunc – il peso specifico che possiede (anche solo) l'idea della luce in fondo al tunnel pandemico; doveroso per ognuno di noi provare a calarsi nel vuoto di chi quella luce non riesce ancora a vedere chiaramente, l'iniezione di nuova vita in fondo al tunnel della pandemia “ostativa” essendo ancora – hic et nunc – mero ologramma.

Peraltro, «sempre secondo il Garante, la più recente sentenza Viola andrebbe qualificata almeno come “quasi-pilota”, visto che definisce strutturale l'automatismo connesso alla mancanza di collaborazione, e prefigura la futura trattazione di numerosi casi analoghi (…)».

La prudenza sarà… quasi d'obbligo, ma se di struttura si ragiona, di sovrapponibilità si tratta.

E dunque si osi:

Liberazione condizionale : permessi premio = Stefano Genco : Bruno Contrada

Sezioni Unite (non) permettendo.

Essenziale porre l'accento sulla centralità del Tempo; esattamente come aveva fatto anche l'associazione di volontariato “L'altro diritto ODV – Centro di documentazione su carcere, devianza e marginalità”, la cui memoria è stata sintetizzata dalla Corte al punto 3.5 in tal modo: «sottolinea particolarmente che l'elemento cui la legge rimette in modo esclusivo la valutazione della pericolosità dell'ergastolano, cioè la collaborazione con l'autorità giudiziaria, attiene normalmente a condotte tenute prima della condanna (…), l'atteggiamento processuale rappresenta un dato storico, fisiologicamente estraneo alla dinamica evolutiva».

Estremamente interessante appare poi quanto aggiunto dalla Difesa e così riferito nella ordinanza (v. § 4.1): «Secondo la parte sarebbe significativa, sebbene non pertinente al caso di specie, anche la recente giurisprudenza sul divieto di applicazione retroattiva dei limiti ostativi posti dall'art. 4-bisord. penit.: sono citate le sentenze n. 193 e n. 32 del 2020 di questa Corte ed è prodotto un provvedimento di merito con il quale la liberazione condizionale è stata accordata a persona condannata all'ergastolo per un fatto antecedente all'introduzione dei limiti ostativi per il beneficio in questione».

Ennesima incarnazione del principio del tempus regit actum; plastica dimostrazione di come lo spazio sia sempre una questione di tempo (v. David Blanco Laserna).

La esigenza di personalizzazione deve ispirare la evoluzione anche cronologica della pena, perché da essa dipende la collocazione spaziale del detenuto.

O magari – why not? – dell'uomo nuovamente libero.

Il divieto di applicazione retroattiva dei limiti ostativi dimostra come la ostatività stessa sia nient'altro che una finzione giuridica. Disumana, perché affida al nome – e soltanto al nome – la predestinazione penitenziaria.

Al di qua e al di là del guado precettivo, c'è sempre lo stesso individuo. Anzi no.

Perché bisogna essere consapevoli – devono esserlo soprattutto i Sorveglianti – che la sua sagoma muta.

Può cambiare. Forse non cambierà mai, o forse sì. Nessuno lo sa, in fondo.

Nessuno sa cosa si celi nel profondo, da l'unfairness che è stata dichiarata dal Giudice più asettico e perciò più accorto.

Perché le sue dita, come il San Tommaso di Caravaggio, ha voluto affondare nelle piaghe di Gesù Cristo, Uomo morto ma risorto.

Sennonché, nonostante la emersione di siffatto iato, la Corte costituzionale non ha dato lo sfogo meritato e, dunque, alla richiesta difensiva la giusta soddisfazione.

Si legge al § 8: «Nelle questioni di legittimità costituzionale decise con la sentenza n. 253 del 2019 si trattava di valutare l'art. 4-bis, comma 1, ord. penit. Nella parte in cui non consentiva, al detenuto non collaborante, l'accesso al permesso premio, cioè a un beneficio penitenziario che segna l'inizio del percorso di risocializzazione. Nel presente giudizio, si tratta invece di sottoporre a scrutinio la medesima norma, unitamente alle altre censurate, nella parte in cui non consentono che un soggetto condannato all'ergastolo, il quale non collabori utilmente con la giustizia, possa chiedere, dopo un lungo tempo di carcerazione, una valutazione in concreto circa il suo sicuro ravvedimento, premessa per l'accesso alla libertà condizionale e, quindi, per la estinzione della pena (in esito, peraltro, a un ulteriore periodo di vigilanza dell'autorità)». Appunto.

Tuttavia, sottolinea la Corte, «Da un lato, rispetto al caso precedente, la posta in gioco è ancora più radicale, giacché, in termini ordinamentali, sono in questione le condizioni alle quali la pena perpetua può dirsi compatibile con la Costituzione; mentre, dal punto di vista del condannato, è in discussione la sua stessa possibilità di sperare nella fine della pena». Appunto.

Ed è a questo… punto che la Corte, Quella che pur costituisce il baluardo massimo in terra italiana, fa l'immediato passo indietro. La posta in gioco è troppo alta e quando si parla di mafia si cede alla tentazione tipica dei costrutti – probatori, così come della sintassi a più ampio spettro processuale – in negativo.

Si scandagli la scelta linguistica: «(…) la presunzione di pericolosità gravante sul condannato per il delitto di associazione mafiosa e/o per delitti di “contesto mafioso”, che non abbia collaborato con la giustizia (…) permane, giacché, come pure si è detto, non è affatto irragionevole presumere che costui conservi i propri legami con l'organizzazione criminale di originaria appartenenza. Le ragioni di una tale generalizzazione sono ben note. L'appartenenza a una associazione di stampo mafioso implica, di regola, un'adesione stabile a un sodalizio criminoso, fortemente radicato nel territorio, caratterizzato da una fitta rete di collegamenti personali, dotato di particolare forza intimidatrice e capace di protrarsi nel tempo (…)».

Associazione, generalizzazione e temporale proiezione che talvolta non fanno rima con – del dolo specifico – la indispensabile oggettivizzazione; talaltra, del pari – extra moenia – con “gemmazione”.

Ma questa è un'altra storia, che pur dicasi collegata senza esitazione.

Conferma ne sia al Presidente della Prima sezione gli atti di tale “incontrastata” questione – perché del metodo mafioso vi deve essere sempre, per chiunque, ovunque concreta e motivata manifestazione – la già decisa restituzione.

Si proceda e non si tardi oltre la conclusione.

La Corte costituzionale ha aggiunto al § 10: «È noto, tuttavia, come il “catalogo” della prima fascia di reati di cui all'art. 4-bis ord. penit. comprenda ormai anche reati diversi, relativi alla criminalità terroristica, ma anche delitti addirittura privi di riferimento al crimine organizzato, come i reati contro la pubblica amministrazione o quelli di natura sessuale (…). Ed è altresì noto che l'art. 4-bis, comma 1, ord. penit. impedisce al condannato non collaborante l'accesso a tutti i benefici penitenziari (salvo la liberazione anticipata e, dopo la sentenza n. 253 del 2019, il permesso premio)».

Appunto; si perdoni la monotonia ma tant'è. Ci si chiede che senso abbia concedere la decurtazione di una pena destinata – per legge – a essere comunque incomprimibile se il decorso del tempo – i ventisei anni previsti dalla legge – non basta a estinguerla. Liberazione anticipata ben può fare rima con liberazione condizionale, come già fa il paio con i permessi premio. Primo step di un percorso che ha uno sbocco suo logico perché naturale: la libertà.

Non certo una zona bianca, ma un terreno su cui il potenziale rinato deve dimostrare di volere e sapere crescere. O di ricadere, con tutto ciò che doverosamente ne conseguirà.

Non è affatto condivisibile, allora, la preoccupazione esternata subito dopo: «Emerge così l'incerta coerenza della disciplina risultante da un'eventuale pronuncia che accolga le questioni nei termini proposti dal giudice a quo, senza modificare la condizione dei condannati all'ergastolo per reati non connessi alla criminalità organizzata».

Ci si chiede, poi, quale collaborazione si possa ottenere da un detenuto (evidentemente) non ergastolano e definitivo per l'ipotesi più “grave” di peculato (ed è solo un esempio) così come per gli altri delitti commessi dai pubblici ufficiali contro la P.A. – superfetazione della legge (già in parte mitigata) c.d. “Spazzacorrotti”, pendant cronologico con la “Spazza-tempo” dell'imputato per sempre – che abbia agito da solo.

Il concorso di persone – assolutamente eventuale (pragmaticamente e tecnicamente) e, dunque, spesso di improbabile epifania nella dinamica processuale degli ultimi reati (mal) assorbiti dal catalogo (poco logico e molto dannoso) – è ipotesi giuridicamente ben diversa dal contesto associativo.

Si tratterebbe di casi di collaborazione intrinsecamente impossibile, sicché il timore di incoerenza sistematica verrebbe sradicato. Viceversa, eliminando la collaborazione come condizione imprescindibileladdove invece il contesto associativo è esistito ed è in re ipsa – proprio come per il delitto p. e p. dall'art. 416-bis c.p. et similia, petītum non a caso sottoposto al vaglio della Corte – ed estendendo ex art. 27, l. n. 87/1953, la invocata illegittimità all'intera prima fascia dell'art. 4-bisord. pen.[il comma 1 riguardando non solo i delitti sì puniti con l'ergastolo ma estranei al contesto mafioso epperò di (solo) ordinaria dimensione associativa, ma anche (e soprattutto) quelli puniti con pena temporanea (in quanto) fisiologicamente mono-soggettivi], sarebbe stata preservata sin da subito la coerenza dell'intero impianto normativo e, con essa, la piena compatibilità con l'art. 3 Cost.

Nella sua nuance tanto formale quanto sostanziale.

Questo è stato il senso (compiuto) dell'amicus curiae formulato dal Centro studi“Macrocrimes” (cfr. §§ 5.2 e 5.3), purtroppo, non integralmente considerato.

Si legge, infine, in calce al § 10: «(…). All'esito di una pronuncia di accoglimento delle odierne questioni – alla fine della pena e perciò del loro percorso penitenziario – i condannati (non collaboranti) potrebbero accedere (anche) al procedimento di ammissione alla liberazione condizionale: ma resterebbe loro inibito l'accesso alle altre misure alternative – lavoro all'esterno e semilibertà – cioè proprio alle misure che invece normalmente segnano, in progressione dopo i permessi premio, l'avvio verso il recupero della libertà. Un accoglimento immediato delle questioni proposte, in definitiva, comporterebbe effetti disarmonici sulla complessiva disciplina in esame».

Perché? Data la formulazione dell'art. 4-bis, comma 1,in esame, l'“effetto estensivo” sarebbe stato possibile anche in parte qua. Soprattutto in parte qua. E, pur tuttavia, eccoci qua.

E comunque, resta il fatto che “anche” la semplice declaratoria di illegittimità costituzionale nella misura invocata da/a Salvatore Francesco Pezzino sarebbe bastata, la mano legislativa postuma risultando in tal modo concretamente guidata. Solo così la risposta giudiziaria sarebbe stata effettiva e dunque convenzionalmente orientata.

Passetto dopo passetto, alla primissima formulazione del d.l. n. 152/1991 – e senza ulteriore astensione – si sarebbe potuti tornare molto più rapidamente, così davvero onorando la memoria (anche) di Giovanni Falcone.

I Pentastellati, nel giorno del suo compleanno, un messaggio forte e chiaro hanno voluto lanciare: irrigidire (molto più che rafforzare) l'onere probatorio in capo al condannato che i ponti con il losco territorio ha già tagliato.

Costui dovrà, altresì, dimostrare – il parere della Procura antimafia nazionale, così come della Direzione distrettuale, si dovrà ascoltare – che il pericolo di alcun ponte in futuro non ci sarà, in un periodo di tempo breve, medio o lungo.

Chissà se di probatio diabolica qualcuno parlerà in tutta onestà.

Fermo restando – ça va sans dire – che da questo parere il singolo Giudicante si potrà discostare, sia pure con l'obbligo di adeguatamente motivare.

E ancora, la proposta di legge contempla una delega al Governo per accentrare in capo al Tribunale di Sorveglianza Capitolino il compito di decidere tutto, a distanza ma a puntino.

Sicché, Lor Signori non lo reputino un fastidioso lamento: il mutamento del principio di territorialità della pena – nell'ottica della competenza non già (solo) della familiare penitenza – in uno a quello a esso concatenato del Giudice naturale – rischia di accendere un fuoco (della speranza) già spento.

Adesso, finalmente, si smetta di mal poetare e ci si domandi perché queste parole tornino alla mente: «Ed allora, forse, non c'è dietro a questo tipo di ragionamenti il coinvolgimento nell'idea del “fiat iustitia et pereat mundus”. È che il mancato prevalere del valore di giustizia in relazione ai casi concreti si ritorce contro la ragionevolezza di un “mondo” a misura dell'“uomo semplice”, del cittadino (…)».

Era la «stagione caratterizzata da una dose massiva di pronunce di inammissibilità della Corte» e proprio quella posizione aveva «come premessa una forse non attenta osservazione della realtà circa la ricaduta degli effetti di quel tipo di pronunce sulla situazione giuridica di quanti, singoli cittadini-parti in giudizio, pur con il riconoscimento (magari non conclamato) delle loro buone ragioni sul piano dell'incostituzionalità denunciata, vedono riverberarsi, sulla propria sfera giuridica, effetti incostituzionali di norme incostituzionali in nome di valori superiori, attraverso strumenti o ragionamenti (quelli della Corte) di natura prevalentemente formalistica» (Così Luigi Ventura).

Ché, poi, Parole in inglese – amaramente curioso sino alla fine – significa “prigioniero in libertà condizionata”.

Parole sì pronunciate anche in Italia, ma rimaste sospese al vento. Tiepido.

Sarà perché in medio stat virtus.

Non sempre.

Guida all'approfondimento

R. Normando, I limiti alla sospensione della esecuzione, in Aa.Vv., Sospensione della pena ed espiazione extra moenia, Commento alla legge 27 maggio 1998, n. 165, Milano, 1998.

G. Jakobs, Diritto penale del nemico, Un dibattito internazionale, a cura di M. Donini e M. Papa, Milano, 2007.

Sia consentito: A. Caruso, Esecuzione e ordinamento penitenziario, in Aa.Vv., Legislazione antimafia e sistema del doppio binario – Analisi della normativa penale, processuale e penitenziaria, a cura di V. N. D'Ascola e F. Mollace, Reggio Calabria, 2009.

Sia consentito: A. Caruso, Sezioni Unite: la sentenza della Corte EDU Contrada c. Italia non è una “sentenza pilota”,in questa rivista, 24 marzo 2020.

D. Blanco Laserna, Lo spazio è una questione di tempo, RBA Italia, Milano, 2019.

C. Visconti, La mafia è dappertutto - Falso!, Bari, 2016.

L. Ventura, Motivazione degli atti costituzionali e valore democratico, Torino, 1995.

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