Il «non decidere» all'udienza presidenziale: una prassi contagiosa

03 Giugno 2021

La funzione dei provvedimenti temporanei e urgenti che il Presidente del Tribunale è chiamato a prendere, anche d'ufficio, nell'interesse de coniugi e della prole, è di primaria importanza, in quanto latu sensu cautelare, nel contenzioso familiare. La non assunzione di detti provvedimenti può costituire un gravissimo diniego di giustizia.
Il contenuto dell'ordinanza presidenziale nei procedimenti di separazione

Secondo il disposto dell'art. 708 c.p.c., il Presidente del Tribunale, all'esito negativo del tentativo di conciliazione, anche d'ufficio, dà con ordinanza i provvedimenti temporanei e urgenti che reputa opportuni nell'interesse della prole e dei coniugi.

Tali provvedimenti hanno la funzione di garantire – pur nell'ambito di un accertamento ancora sommario, quale quello della fase presidenziale – la tutela dei diritti fondamentali dei coniugi e della prole nel periodo immediatamente successivo all'interruzione della convivenza, che viene autorizzata proprio in tale sede dal Presidente.

L'ordinanza presidenziale ha quindi un contenuto:

- obbligatorio, consistente nell'autorizzazione a vivere separati, nonché, in presenza di figli minorenni, nell'assunzione dei provvedimenti relativi all'esercizio della responsabilità genitoriale;

- eventuale, relativo ai provvedimenti di natura economica, con riferimento all'assegno periodico per il mantenimento del coniuge o dei figli, nonché all'assegnazione della casa familiare, laddove tali provvedimenti vengano ritenuti necessari a garantire il pieno esercizio dei diritti delle parti a seguito dell'interruzione della convivenza.

Tanto i provvedimenti obbligatori quanto quelli eventuali sono infatti funzionali a regolamentare i rapporti familiari a seguito dell'autorizzazione, rilasciata ai coniugi, a vivere separati.

Con l'interruzione della convivenza è quindi indispensabile stabilire a quale dei genitori siano affidati i figli, dettando al contempo una regolamentazione provvisoria delle frequentazioni di questi ultimi con ciascun genitore. E può essere inoltre necessario approntare delle garanzie economiche minime a tutela del coniuge più debole o anche semplicemente tenere in equilibrio i due costituendi nuovi nuclei familiari, al fine di evitare che uno dei due genitori si trovi nella condizione di non poter garantire ai figli il mantenimento ordinario.

La ratio e l'importanza di tale disciplina è facilmente comprensibile se si considera che, a norma dell'art. 189 disp. att. c.c., l'ordinanza presidenziale conserva la sua efficacia anche in caso di estinzione del giudizio, e sinché non sia sostituita con altro provvedimento emesso in un successivo procedimento di separazione.

Particolare rilievo merita, nell'ambito dei provvedimenti temporanei e urgenti emanabili dal Presidente del Tribunale, l'assegnazione della casa coniugale.

La decisione di assegnare o meno, a uno dei due genitori, la casa familiare rappresenta spesso un aspetto determinante per consentire effettivamente ai due coniugi di vivere separati.

Autorizzando i coniugi a vivere separati, il Presidente deve infatti necessariamente pronunciarsi in merito alla residenza dei figli minori e alla regolamentazione dei loro rapporti con ciascun genitore, potendo a tal fine attribuire a uno di essi il godimento della casa familiare, tenendo prioritariamente conto – come stabilito dall'art. 337 sexies c.c. - dell'interesse dei figli.

L'assegnazione della casa familiare a uno dei coniugi dovrebbe essere accompagnata dalla condanna al rilascio – entro un termine indicato – da parte dell'altro coniuge.

In tal modo, in caso di mancato spontaneo rilascio, il coniuge assegnatario potrà avviare una procedura di esecuzione forzata mediante consegna o rilascio, stante la natura esecutiva dell'ordinanza presidenziale.

Peraltro, la Suprema Corte ritiene che il provvedimento di assegnazione della casa familiare, anche in assenza di uno specifico ordine di rilascio in capo all'altro coniuge, costituisca una pronuncia di condanna implicita; ciò in quanto il diritto di abitare in via esclusiva l'immobile non può esistere senza il contestuale allontanamento dalla casa familiare dell'altro genitore.

Fermo restando che l'assegnazione della casa coniugale attiene al contenuto eventuale dell'ordinanza presidenziale, poiché, ad esempio, in assenza di figli non potrà essere attribuito un diritto di godimento dell'immobile a uno dei due coniugi, a parere di chi scrive, tra i provvedimenti temporanei e urgenti che il Presidente è chiamato ad assumere nell'interesse dei coniugi, a buon titolo potrebbe comunque rientrare un ordine di allontanamento nei confronti di una delle parti, che, in ragione del titolo di proprietà, non abbia più diritto di permanerci dopo l'autorizzazione a vivere separati.

Tale forma di tutela nei confronti del coniuge proprietario (o comunque titolare del rapporto giuridico intercorrente con l'immobile) ha il pregio, sotto il profilo dell'economia processuale, di evitare l'instaurazione di un ulteriore contenzioso per occupazione senza titolo, e, sotto il profilo della specificità della materia delle relazioni familiari, di evitare l'aggravarsi del conflitto a causa del protrarsi della convivenza per lungo tempo.

Alcuni esempi di non liquet e conseguenze in tema di giusto processo

Come si è visto, la funzione dei provvedimenti temporanei e urgenti che il Presidente del Tribunale è chiamato a prendere, anche d'ufficio, nell'interesse de coniugi e della prole, è di primaria importanza, in quanto latu sensu cautelare, nel contenzioso familiare.

Ciò fa si che la non assunzione di detti provvedimenti può costituire un gravissimo diniego di giustizia, imponendo a tutte le parti coinvolte – ed in primis ai figli minori - il protrarsi di gravi situazioni di conflitto e di compromissione dei loro diritti fondamentali.

Tuttavia, non mancano in giurisprudenza esempi di “non liquet” nelle fasi interinali dei procedimenti, con conseguente rinvio – anche di molti mesi, quando non di anni – della risposta di giustizia, con evidenti ricadute sul diritto al giusto processo ex art. 111 Cost., anche sotto il profilo dell'impugnabilità dei provvedimenti.

Si richiama, a titolo esemplificativo, un decreto provvisorio del Tribunale di Modena del 2 febbraio 2021 nell'ambito di un procedimento per la regolamentazione dell'esercizio della responsabilità genitoriale tra genitori non coniugati, che, nel disporre un accertamento psico-diagnostico mediante consulenza tecnica d'ufficio, omette qualsivoglia statuizione in tema di affidamento, residenza e regolamentazione dei rapporti tra il figlio e i genitori, nelle more dell'espletamento delle operazioni peritali, ritenendo che “Al CTU va altresì demandato il compito di disciplinare, in questa fase, tempi e modi di frequentazione padre-figlio”.

Nello stesso senso si pronuncia il Tribunale di Como con un decreto del 19 marzo 2021 che “autorizza il CTU a regolamentare nel corso delle operazioni peritali le modalità e i tempi di frequentazione tra il padre e i minori, tenuto conto delle emergenze degli accertamenti in corso e della situazione psicofisica dei genitori e della prole minore”.

I sopra richiamati provvedimenti, tutt'altro che isolati, contrastano con i più elementari principi di diritto processuale, da un lato in quanto carenti nella risposta di giustizia, laddove rinviano la decisione di alcuni mesi, e dall'altro delegando a terzi la funzione giurisdizionale.

È purtroppo il caso di ricordare che la consulenza tecnica è esclusivamente un mezzo istruttorio, finalizzato a consentire al Tribunale di acquisire dati tecnici, per cui siano necessarie competenze diverse da quelle giuridiche, i quali che devono essere posti a fondamento della decisione del giudice. Ma, in nessun caso, la decisione stessa può essere rimessa al consulente nominato, che ha solo il compito di fornire al giudice elementi utili alle proprie valutazioni.

Il quesito “quale possa essere il miglior regime di affidamento e/o collocamento dei figli, che risponda all'interesse dei minori nell'attualità e nella prospettiva di un adeguato progredire nella crescita, in considerazione dei bisogni di accudimento e di graduale acquisizione di autonomia” (v. decreto Trib. Como sopra richiamato) non è tecnicamente corretto, poiché l'affidamento è un concetto esclusivamente giuridico, sul quale il Consulente Tecnico non ha la competenza per esprimersi, e, in ogni caso, è oggetto della domanda giudiziale, la cui risposta spetta al Tribunale. Il Consulente Tecnico deve invece limitarsi a fornire le diagnosi cliniche attinenti alla personalità di ciascun genitore e dei figli e alle dinamiche relazionali interne al nucleo familiare, ovvero una valutazione prognostica su rischi evolutivi o altre situazioni potenzialmente pregiudizievoli per i minori.

Su tali diagnosi/valutazioni, se condivise, potrà basarsi la determinazione del giudice in merito ai concreti provvedimenti da assumere (affidamento condiviso o monogenitoriale, convivenza prevalente, tempi di frequentazione, interventi di supporto alla genitorialità ecc….).

Inoltre, omettere una regolamentazione, seppur provvisoria, delle frequentazioni del figlio con il genitore non convivente, delegandola a un soggetto che tuttavia non ha il potere giurisdizionale di emettere un provvedimento esecutivo, priva quel minore e il genitore di qualunque garanzia di adempimento della regolamentazione eventualmente scelta dal Consulente, e, in ultima analisi, del loro rapporto.

Con l'ordinanza n. 4080/2021 del 15 aprile 2021 il Presidente del Tribunale di Varese arriva persino ad abdicare al contenuto obbligatorio del provvedimento, omettendo di autorizzare i coniugi a vivere separati, ma limitandosi a: 1) rigettare la domanda di assegnazione della casa coniugale; 2) porre l'obbligo ai genitori di provvedere al mantenimento diretto del figlio, maggiorenne ma non autonomo economicamente, nei periodi in cui lo stesso sarà con l'uno e con l'altro; 3) porre a carico della madre l'obbligo di provvedere al 100% alle spese straordinarie del figlio; 4) rigettare le altre domande.

Non è noto se i coniugi in questione fossero in regime di comunione legale o di separazione dei beni. Nel primo caso, oltre a trovarsi costretti a subire una convivenza forzata, si porrebbe anche un rilevante problema di pubblicità ai terzi in relazione allo scioglimento della comunione legale, che, ai sensi dell'art. 191 c.c., nel caso di separazione personale si ha “nel momento in cui il presidente del tribunale autorizza i coniugi a vivere separati” e a tal fine “l'ordinanza con la quale i coniugi sono autorizzati a vivere separati è comunicata all'ufficiale dello stato civile ai fini dell'annotazione dello scioglimento della comunione”.

Al di là di quella che possiamo ritenere una svista del Presidente, ossia la mancata autorizzazione ai coniugi a vivere separati, tale provvedimento è esemplificativo del rischio sopra richiamato di imporre una coabitazione coatta, oltretutto in un caso in cui, per stessa analisi del Presidente, la conflittualità tra i coniugi appare molto elevata.

La mancata assegnazione della casa coniugale, che comporta condanna implicita di rilascio, da un lato, e l'assenza di un ordine di rilascio, in assenza di assegnazione, dall'altro, impongono al coniuge titolare del diritto di proprietà (o anche semplicemente del contratto di locazione o comodato) sull'immobile di agire in una diversa sede giudiziaria per poter effettivamente attuare il diritto riconosciuto dal Presidente di interrompere la convivenza matrimoniale. Ciò peraltro, con evidenti conseguenze sul piano dell'economica processuale e della proliferazione di processi tra le medesime parti.

La generale tendenza alla delega

Purtroppo, la propensione, sopra richiamata, a delegare a soggetti diversi dal magistrato le decisioni relative ai rapporti personali tra componenti della famiglia sembra essere diventata la regola nel diritto delle relazioni familiari.

Come abbiamo visto, frequentemente nei quesiti formulati viene chiesto ai CTU di “suggerire” il regime di affidamento e pure la regolamentazione delle frequentazioni dei figli con ciascun genitore. Tale delega sulla regolamentazione delle frequentazioni – e finanche sulla scelta del luogo di residenza stessa del minore – è spesso conferita anche al Servizio Sociale all'interno del perimetro dettato da principi delega più o meno stringenti.

Ma non mancano casi in cui al Servizio Sociale è persino chiesto un parere formale sulla pronuncia dello stato di adottabilità di un minore (v. Trib. Min. Milano 4 marzo 2021).

Tale pronuncia, estremamente complessa, in quanto si basa non solo sull'accertamento di fatti pregressi e attuali ma anche, e soprattutto, su una valutazione prognostica per il futuro, relativa alla recuperabilità o meno del ruolo genitoriale, può certamente fondarsi in parte anche su elementi fattuali portati alla conoscenza del giudice da parte del Servizio Sociale al quale sia stato affidato il compito di fornire interventi di supporto alla famiglia, rispetto ai quali è tenuto a relazionare l'autorità giudiziaria, ma ciò non significa che debba essere chiesto a esso di esprimersi su tale complessa valutazione.

Come già ricordato, il consulente tecnico è un ausiliario, con particolari competenze tecniche, dal quale il giudice può farsi assistere nell'ambito dell'istruzione probatoria, ma in nessun caso può sostituirsi al giudice nella valutazione sull'oggetto della causa.

Il Servizio Sociale è invece un soggetto estraneo al giudizio, che ha il compito di fornire interventi di sostegno alle famiglie, su loro richiesta o su incarico del giudice, ma in nessun caso può essere parte del giudizio; come noto, le parti di questi procedimenti (anche quelli ablativi della responsabilità genitoriale) sono solo i minori, i genitori (ed eventuali altri partenti) e il Pubblico Ministero.

Tale confusione di ruoli, diffusamente accettata in ragione di un sentire comune che ritiene derogabili le regole del diritto processuale nell'ambito delle relazioni familiari, in ragione della specificità della materia, mina in realtà fortemente la tutela dei diritti in gioco, che sono diritti fondamentali della persona.

Proprio la specificità della materia, che riguarda diritti di rango costituzionale, impone semmai una rigorosa applicazione delle regole poste nel nostro ordinamento a garanzia del giusto processo.

Conclusioni

A differenza di quanto accadeva nel diritto romano, nel quale il giudice poteva pronunciare sentenza di “non liquet”, affermando cioè che la situazione non gli era chiara e rinviando la causa a un altro giudice, nel nostro ordinamento questo non può avvenire.

L'art. 12, comma 2, delle Disposizioni sulla legge in generale, preposte al Codice civile (c.d. Preleggi) stabilisce infatti se una controversia non può essere decisa con una precisa disposizione, si ha riguardo alle disposizioni che regolano casi simili o materie analoghe; se il caso rimane ancora dubbio, si decide secondo i princìpi generali dell'ordinamento giuridico dello Stato.

Nel diritto civile comune non è neppure immaginabile una pronuncia di “non liquet”, ma nel diritto di famiglia, soprattutto nell'ambito di provvedimenti interinali e provvisori (ma non solo), la tendenza a rinviare la decisione, e persino a delegarla a terzi, sembra contagiosa.

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