La compilazione incompleta della cartella clinica non può tradursi in un pregiudizio per il paziente con riguardo all'onere della prova
07 Giugno 2021
Massima
“La difettosa tenuta della cartella clinica da parte dei sanitari non può pregiudicare sul piano probatorio il paziente, cui è consentito ricorrere, in virtù del principio di vicinanza della prova, a meccanismi basati su presunzioni, quante volte sia impossibile la prova diretta a causa del comportamento della controparte, sia al fine di accertare l'eventuale colpa del medico, sia al fine di dimostrare il nesso eziologico fra la sua condotta e le conseguenze dannose subite dal paziente”. Il caso
Nel caso di specie, una coppia di coniugi citava in giudizio dinanzi il Tribunale la ASL competente, il medico ginecologo e l'ostetrica, al fine di ottenerne la condanna al risarcimento dei danni derivati al loro bambino neonato e causati da una tetraparesi spastica, affermando che in sala parto l'équipe medica decideva di procedere, in presenza di difficoltà a partorire, all'estrazione del nascituro mediante ventosa, non operando alcuna scelta alternativa meno rischiosa per la madre e per il bambino. Il Tribunale, in primo grado, accoglieva la domanda di risarcimento (biologico del figlio, e parentale) dei coniugi. Avverso la sentenza di primo grado la ASL e il medico ginecologo proponevano appello. La Corte di appello – ritenendo che le parti convenute non fossero state in grado di offrire la prova liberatoria di cui all'art. 1218 c.c., ossia di provare che l'esito peggiorativo o infausto del parto fosse stato determinato da un evento imprevedibile ed inevitabile alla fine del periodo espulsivo - rigettava le impugnazioni proposte, confermando la sentenza di primo grado. La Corte d'appello, in particolare, rilevava la mancanza di indicazione, nella cartella clinica, degli interventi effettuati nella fase finale del parto, cosa che ha condotto a ritenere provato il collegamento causale tra fatto e danno. La causa giungeva in Cassazione. La questione
Quali sono le regole di riparto dell'onere della prova in materia di responsabilità medica, con particolare riferimento al caso di incompletezza della cartella clinica? Le soluzioni giuridiche
I giudici della Suprema Corte ritengono che la Corte d'appello abbia adeguatamente applicato il principio di diritto secondo il quale: “mentre è onere del creditore della prestazione sanitaria provare, anche a mezzo di presunzioni, il nesso di causalità tra l'aggravamento o l'insorgenza della situazione patologica e la condotta del sanitario, ove il creditore abbia assolto tale onere sarà, invece, onere della parte debitrice (il sanitario e la Struttura in cui egli opera) provare la causa imprevedibile dell'impossibilità dell'esatta esecuzione della prestazione” (così, anche Cass., Sez. III, sentenza n. 28991/2019; Cass. Sez. III, ordinanza n. 26700/2018; Cass., Sez. III, sentenza n. 18392/2017). Secondo la Cassazione, la Corte d'appello ha giustamente rilevato la mancanza, nella cartella clinica, delle attività medico-sanitarie espletate nella fase ultima del parto. E pertanto, le parti convenute non erano state in grado di offrire la prova liberatoria richiesta dall'art. 1218 c.c., ossia che l'esito peggiorativo o infausto del parto fosse stato determinato da un evento imprevedibile e inevitabile alla fine del periodo espulsivo, secondo la diligenza qualificata in base alle conoscenze tecnico-scientifiche del momento, pur essendo pacifico che l'ipossia era stata determinata dall'attorcigliamento del cordone ombelicale attorno al collo del nascituro. Nella sentenza si è dato rilievo al fatto che la cartella clinica, dalle ore 0,40 sino all'atto della nascita, difettava di qualsivoglia annotazione valutativa, mentre sino a quell'ora, risultavano tre tracciati con cardiotocografia e l'assenza di alcun fattore di rischio. Inoltre, si è data rilevanza alla testimonianza resa da una teste presente in sala parto, quale congiunta della partoriente, di professione infermiera, che aveva riferito che in quel frangente il medico aveva assistito un'altra partoriente e lasciato la ricorrente nelle mani dell'ostetrica. Emergeva, dunque, la mancanza di adeguata sorveglianza da parte del ginecologo sulla partoriente, lasciata a tutti gli effetti nelle mani dell'ostetrica, sopraggiunta successivamente. Un corretto adempimento della prestazione avrebbe invece evidenziato tempestivamente la sofferenza fetale, anticipando l'estrazione del feto, ed eliminando o riducendo gli effetti dannosi poi verificatisi. La Corte di cassazione ha, quindi, ritenuto – in conformità alla Corte d'appello - che la condotta del personale sanitario avesse determinato, con elevato grado di probabilità, gli esiti sfavorevoli osservati successivamente nel neonato; e che il creditore della prestazione sanitaria non avesse dimostrato l'esatto adempimento o l'impossibile adempimento per causa a lui non imputabile (art. 1218 c.c.). Nella decisione si evidenzia che, in tema di responsabilità professionale sanitaria, l'eventuale incompletezza della cartella clinica è circostanza di fatto che il giudice può utilizzare per ritenere dimostrata l'esistenza di un valido nesso causale tra l'operato del medico e il danno patito dal paziente, quando proprio tale incompletezza abbia reso impossibile l'accertamento del relativo nesso eziologico, e il professionista abbia comunque posto in essere una condotta astrattamente idonea a provocare il danno (Cass. Sez. III, sentenza n. 28991/2019). Ciò in quanto, non sono state allegate alla cartella clinica, né prodotte dalle parti, le attività eseguite in sala parto dopo l'ultimo tracciato cardiotocografico delle ore 0,40. Quindi, nel caso di specie, si poteva evincere una valutazione di normale decorso del parto solamente fino a quando le annotazioni in cartella erano state effettuate; mentre per la fase finale del parto è mancata qualsiasi annotazione in cartella clinica delle attività medico-sanitarie espletate, oltre alla testimonianza circa la mancanza di adeguata sorveglianza da parte del medico sulla partoriente. Ancora, secondo la Corte di legittimità, va rigettato il motivo di ricorso che adduce che il giudice, sul piano della causalità giuridica (sic!), non abbia svolto il dovuto giudizio controfattuale nell'ambito della condotta omissiva e negligente considerata: la sentenza del giudice d'appello, infatti, ha perfettamente dimostrato di avere fatto il ragionamento dovuto, dando rilievo alla circostanza che la condotta medica avrebbe dovuto essere vigile ed operosa, rispettando tutte le regole e gli accorgimenti tecnici della professione sanitaria, anziché, come nel caso concreto, attendista e negligente (secondo il parametro della diligenza professionale ex art. 1176 c.c., comma 2). Sicché si è dato rilievo al fatto che il corretto adempimento della prestazione sanitaria avrebbe potuto evidenziare tempestivamente la sofferenza fetale ed anticipare l'intervento estrattivo, eliminando, o quantomeno riducendo, gli effetti dannosi dell'ipossia. Pertanto, il comportamento omissivo del personale sanitario avrebbe dato luogo a responsabilità in quanto gli indicati accertamenti, se disposti, avrebbero posto in evidenza la progressione del feto nel canale del parto ed i segni di sofferenza fetale, offrendo così al medico maggiori possibilità di avvedersi per tempo della reale condizione in cui versava il feto; ed, inoltre, poiché il ritardo nel porre in essere ogni attività necessaria per salvaguardare la salute del feto ed il mancato rispetto delle linee guida sono da considerarsi atti di negligenza. La Corte di cassazione si mostra, in conclusione, concorde con il giudice di merito in punto di nesso causale, ritenendo indimostrate l'imprevedibilità ed inevitabilità dell'evento dedotte dal medico, in relazione a tutti gli inadempimenti prima menzionati; mentre, con giudizio controfattuale ha ritenuto che la condotta di sorveglianza cui egli era tenuto, nei fatti mancata, sarebbe stata astrattamente idonea ad evitare, con alta probabilità, l'evento di danno o, quanto meno, a ridurne le conseguenze. Osservazioni
La Suprema Corte, nella sentenza in commento, ha ribadito il principio secondo cui, nei giudizi di responsabilità medica, spetta prima al paziente provare il nesso di causalità tra la condotta del sanitario e l'evento dannoso subìto; successivamente, il sanitario dovrà provare la sussistenza di una causa imprevedibile e inevitabile che abbia reso impossibile la prestazione. Il paziente, secondo questa pronuncia, può fornire la propria prova anche attraverso l'incompletezza della cartella clinica, purché la condotta del medico fosse astrattamente idonea a causare il danno e detta incompletezza abbia reso impossibile verificare il nesso causale. Quindi, secondo la Cassazione, una volta allegata e dedotta dal creditore la prova della condotta medica omissiva idonea a causare il danno in termini di adeguatezza causale (nella specie, la mancata sorveglianza medica nella fase terminale del parto), è piuttosto onere della parte debitrice dimostrare l'esatto adempimento o l'impossibilità di adempimento a sè non imputabile, come ad esempio l'insorgenza di fattori causali alternativi idonei ad interrompere il nesso causale tra le omissioni e il danno.
I giudici, in particolare, affermano, testualmente, che nel campo medico-sanitario sussistono due cicli causali da considerare: l'uno, a monte, relativo all'evento dannoso; l'altro, a valle, relativo all'impossibilità di adempiere. La prova della causalità materiale spetta al creditore-danneggiato, e consiste nella prova, anche presuntiva, del rapporto di causa-effetto tra la prestazione professionale e la situazione patologica (di aggravamento o di insorgenza). Tale prova può essere raggiunta in via presuntiva anche per il tramite di una cartella medica compilata in maniera incompleta, posto che tale circostanza non può, in linea di principio, tradursi in un danno nei confronti di colui il quale abbia diritto alla prestazione sanitaria, quando proprio tale incompletezza abbia reso impossibile l'accertamento del relativo nesso eziologico e il professionista abbia comunque posto in essere una condotta astrattamente idonea a provocare il danno.
La prova della causalità giuridica – continua la Corte Suprema - spetta, invece, al debitore-danneggiante il quale, ove il creditore abbia assolto al suo onere probatorio, deve dimostrare l'esatto adempimento ai sensi dell'art. 1176 c.c., comma 2, oppure l'intervento di una causa esterna, imprevedibile alla stregua dell'ordinaria diligenza di cui all'art. 1176 c.c., comma 1, ed inevitabile sotto il profilo strettamente oggettivo e causale. Ebbene, tale assunto, evidentemente risultato di un lapsus calami, si discosta dal principio, costante in dottrina e giurisprudenza, secondo il quale la prova della causalità giuridica incombe sul creditore.
Come detto, più che un discostamento, sembra piuttosto trattarsi di una svista dell'estensore, il quale - al punto 3) pagina 12 dell'ordinanza in commento - parrebbe aver malinteso il concetto di causalità giuridica nel descrivere l'onere probatorio del debitore: onere che, secondo quanto invece previsto da Cassazione n. 28992/2019 et alia, non rientra nel concetto di causalità giuridica (la cui prova incombe sempre sul creditore), bensì nell'ambito della causalità materiale (cfr., ancora Cass. 28992/2019). Vanno dunque richiamati e ricordati i parametri corretti sull'onere della prova, che sono indicati (tra le altre) in Cass n. 5487/2019, e n. 28992/2019, ove si afferma che la prova della causalità giuridica (art. 1223 c.c.) spetta sempre al creditore della prestazione. |