Risarcita la moglie umiliata e maltrattata dal marito

Michol Fiorendi
01 Luglio 2021

Ammesso il risarcimento del danno non patrimoniale subito dalla moglie vittima di violenze domestiche perpetrate per anni in base all'entità della sofferenza subita
Massima

La moglie (o convivente) vittima di umiliazioni, percosse e violenze da parte del marito ha diritto a essere risarcita del danno non patrimoniale subìto, sulla base dell'entità del patimento sofferto dalla vittima nei molti anni in cui è stata sottoposta ad un clima di violenza e sopraffazione, e ciò anche in presenza dei figli minori.

Il caso

La Corte di Cassazione, con la sentenza che qui si commenta, conferma la responsabilità del marito per i reati di maltrattamenti e lesioni ai danni della moglie e la somma riconosciuta alla vittima, costituitasi parte civile nel giudizio penale, a cui è stato riconosciuto un risarcimento del danno di quindicimila euro per aver subìto anni di offese, umiliazioni e percosse.

Tale pronuncia convalida quella della Corte d'Appello che, a sua volta, ha confermato la sentenza di condanna di primo grado per i reati di maltrattamenti e lesioni aggravate commessi dall'imputato ai danni della moglie convivente.

La questione

In tema di maltrattamento endofamiliare, il tempo, anche lungo, intercorso tra l'accadimento dei fatti e la denuncia degli stessi può incidere nella valutazione che il Giudice effettua rispetto alla credibilità della vittima?

E ancora, i toni aggressivi della moglie, captati attraverso registrazioni del marito - poi prodotte in giudizio - possono essere ritenuti compatibili con lo stato di soggezione della vittima?

Le soluzioni giuridiche

Come primo passaggio, ritengo importante evidenziare che il reato di maltrattamenti in famiglia non presuppone necessariamente l'esistenza di vincoli civili o naturali, ma sussiste anche nei riguardi di una persona convivente more uxorio, perché anche in tale caso viene a crearsi tra le parti quel rapporto stabile di comunità familiare, di reciproca assistenza e protezione che il legislatore ha ritenuto di voler tutelare.

Agli effetti dell'art. 572 c.p., infatti, deve considerarsi famiglia ogni consorzio di persone tra le quali intercorra un legame di relazioni continuative e tra le quali siano sorti rapporti si assistenza e solidarietà, senza la necessità della convivenza e della coabitazione.

Per un'esatta valutazione delle problematiche relative al reato di maltrattamenti in famiglia non si può, infatti, prescindere dall'analisi dell'evoluzione sociale e di costume di tale istituzione.

In questi ultimi anni il concetto di famiglia è stato riferito a realtà differenti dalla famiglia legittima riconosciuta dall'ordinamento: essa ha mutato spesso “pelle” diventando famiglia nucleare, famiglia allargata, ovvero famiglia di fatto.

Durante il fascismo la famiglia rappresentava il nucleo sociale più importante per la formazione della coscienza dei cittadini, per cui alla stessa veniva riconosciuta la titolarità di interessi autonomi e specifici.

Oggi la dottrina prevalente ritiene che la famiglia stia assumendo aspetti peculiari che portano ad affermare in maniera esclusiva il rispetto dei singoli in ordine all'interesse proprio della società familiare e la famiglia appare come una composizione più stratificata, i cui componenti non sono solamente legati da rapporti di parentela, ma anche consuetudini di vita o da affezioni ed intrecci determinati da relazioni sentimentali (famiglia di fatto) anche passate (famiglia allargata).

Come già evidenziato, la giurisprudenza ha ormai quindi recepito le evoluzioni della società, affermando che il reato di maltrattamenti in famiglia è configurabile anche al di fuori della famiglia legittima, in presenza di un rapporto stabile di convivenza, e come tale suscettibile di determinare obblighi di solidarietà e di mutua assistenza, senza che sia richiesto che tale convivenza abbia una certa durata, quanto piuttosto che sia stata istituita in una prospettiva di stabilità, quale che sia stato poi in caso concreto l'esito di tale comune decisione.

Esplicitamente, con la sentenza Cass. n. 21329/2007 la Cassazione penale ha affermato che deve intendersi come “famiglia” anche la convivenza more uxorio.

Si pensi, invece, che in precedenza la famiglia era considerata come una realtà chiusa formata dai singoli che costituivano un clan.

I codici penali precedenti al codice Rocco, in particolare il codice sardo del 1839 e quello sardo italiano del 1859, disciplinavano due ipotesi di reato che consideravano gli eccessi nella correzione commessi nei confronti dei figli e i maltrattamenti tra i coniugi, inserendo queste condotte in un titolo autonomo denominato “reati contro l'ordine della famiglia”.

La stessa Costituzione garantisce alla famiglia un ruolo determinante anche per lo sviluppo della personalità del singolo, come espressione del nucleo della società.

Se si leggono gli articoli 2, 3, 29, 30, 31 della Costituzione in combinato disposto con la riforma del diritto di famiglia (artt. 147 e seguenti del c.c.) si coglie l'avvenuta trasformazione della società familiare che da modello istituzionale e gerarchico diviene un momento partecipativo e solidaristico in cui si coordinano gli interessi dei componenti e in cui si garantisce lo sviluppo della personalità dell'individuo.

Il reato de quo, pertanto, si può configurare anche in assenza di un rapporto di convivenza, e cioè quando questa sia cessata a seguito di separazione legale o di fatto, restando integri, anche in tal caso, i doveri di rispetto reciproco, di assistenza morale e materiale e di solidarietà che nascono dal rapporto coniugale.

La coabitazione, pertanto, non costituisce un presupposto essenziale del reato di maltrattamenti. Tale reato, infatti, ricorre anche quando i maltrattamenti siano commessi nei confronti di un soggetto con il quale, in mancanza di un rapporto di coabitazione, si abbia soltanto un'abituale relazione sessuale.

Giova evidenziare che, nel reato di maltrattamenti di cui all'art. 572 c.p., l'oggetto giuridico non è costituito solo dall'interesse dello Stato alla salvaguardia della famiglia da comportamenti vessatori e violenti, ma anche dalla difesa dell'incolumità fisica e psichica delle persone indicate nella norma, interessate al rispetto della loro personalità nello svolgimento di un rapporto fondato sui vincoli familiari.

Rientrano, quindi, nello schema del delitto non soltanto le percosse, le ingiurie e le privazioni imposte alla vittima, ma anche gli atti di disprezzo e di umiliazione, di scherno, di asservimento, che cagionano durevole sofferenza morale al soggetto passivo.

L'elemento soggettivo, nel delitto di maltrattamenti in famiglia, è il dolo generico e consiste nella coscienza e volontà di sottoporre il soggetto passivo ad una serie di sofferenze fisiche e morali in modo continuo e arbitrale, così da lederne complessivamente la personalità.

Per la configurabilità di tale reato non è necessario un comportamento vessatorio continuo ed ininterrotto. L'elemento unificatore dei singoli episodi, infatti, è costituito da un dolo unitario, e pressoché programmatico, che abbraccia e fonde le diverse azioni. Esso consiste nell'inclinazione della volontà ad una condotta oppressiva e prevaricatoria che, nella reiterazione dei maltrattamenti, si va progressivamente realizzando e confermando, in modo che il colpevole accetta di compiere le singole sopraffazioni con la consapevolezza di persistere in un'attività illecita, posta in essere già altre volte.

Il dolo del delitto in questione non richiede neppure la sussistenza di uno specifico programma criminoso, verso il quale la serie di condotte aggressive e lesive, sin dalla loro rappresentazione iniziale, siano finalizzate; è, invece, sufficiente la consapevolezza dell'autore del reato di persistere in un'attività vessatoria, già posta in essere in precedenze, idonea a ledere la personalità della vittima.

Ai fini della sussistenza di tale crimine, è particolarmente rigoroso per il giudice l'obbligo di motivazione perché occorre dimostrare che tutti i fatti sono tra loro connessi e cementati in modo inscindibile dalla volontà unitaria, persistente e ispiratrice di una condotta insistita nella finalità criminosa.

Infatti, il reato di maltrattamenti è reato a condotta plurima, in quanto è tutta la condotta dell'imputato che deve essere considerata quale serie di azioni od omissioni finalizzate e quale comportamento assunto a sistema e distinto dal nesso di abitualità tra i vari fatti, con assoluta esclusione della mera occasionalità e del dolo d'impeto, isolato e frammentario.

Pertanto, il delitto di maltrattamenti, quale reato abituale, non resta escluso se nel tempo considerato vi siano parentesi di normalità nella condotta dell'agente e di accordo con i familiari.

Come detto, nella materialità del delitto di maltrattamenti rientrano non soltanto percosse, minacce, ingiurie, privazioni imposte alla vittima, ma anche atti di scherno, disprezzo, umiliazione e asservimento idonei a cagionare durevoli sofferenze fisiche e morali.

Ne consegue che è riservato alla valutazione del giudice di merito accertare se singoli episodi vessatori rimangono assorbiti nel reato di maltrattamenti (ad esempio, lesioni non volute) oppure integrino ipotesi criminose autonomamente volute dall'agente e, quindi, concorrenti con il delitto di cui all'art. 572 c.p..

Tale articolo assorbe soltanto quelli di percosse o minacce, i quali costituiscano gli elementi essenziali della violenza fisica o morale propria del delitto di maltrattamento. Ne consegue che, qualora il bene giuridico offeso non riguardi l'assistenza familiare, l'ipotesi di cui al citato art. 572 c.p. concorre con i reati eventualmente verificatisi.

Più nel dettaglio, per fare un esempio, non può aversi assorbimento del delitto di sequestro di persona in quello di maltrattamenti, in quanto ne sono i requisiti e i presupposti: quando, con la singola azione diretta a maltrattare, si ledono volutamente altri beni interessi o valori del soggetto passivo, oggetto di autonoma tutela penale, quale quello della libertà di locomozione, di tali azioni l'agente è tenuto a rispondere in modo autonomo.

E non sussiste rapporto di specialità tra il delitto di maltrattamenti in famiglia e quello di riduzione in schiavitù, trattandosi di reati che tutelano interessi diversi – la correttezza dei rapporti familiari nella prima ipotesi, lo status libertatis dell'individuo nella seconda – e che presentano un diverso elemento materiale, in quanto nell'ipotesi dell'art. 572 c.p. è necessario che un componente della famiglia sottoponga un altro a vessazioni, mentre nel caso di riduzione in schiavitù è necessario che un soggetto eserciti su un altro individuo un diritto di proprietà, con la conseguenza che le due ipotesi di reato, sussistendone i presupposti, possono concorrere.

Alla luce di tutti i principi illustrati e dello svolgimento dei fatti, vediamo come, nella sentenza oggi in commento, la Suprema Corte - allineandosi con quanto già individuato dalla Corte di merito - conferma la responsabilità dell'imputato in ordine ai delitti di maltrattamenti e lesioni che gli erano stati attribuiti sulla scorta di un articolato giudizio di credibilità soggettiva della parte offesa ed escludendo che le sue dichiarazioni siano state influenzate da ragioni di ordine economico o di natura ritorsiva.

Il percorso argomentativo che porta la Corte di Cassazione a tale uniformazione passa anche dalla modalità di denuncia dei fatti, sin dalle sue prime segnalazioni ai servizi sociali, nonché della successiva condotta tenuta dalla parte offesa nel corso del procedimento, in relazione alla quale non è considerata illogica la natura ambivalente e spesso accondiscendente del suo atteggiamento, in ragione della soggezione provata dalla parte offesa nei confronti dell'imputato per la sua posizione lavorativa (all'epoca, Maresciallo dell'Aeronautica militare delle Forze Armate).

E non da ultimo, per la volontà di salvaguardare la sua famiglia, del tutto compatibile con il reato di maltrattamenti.

Nella fattispecie, la Suprema Corte, uniformandosi all'orientamento prevalente sul tema, rileva che l'ambivalenza dei sentimenti provati dalla persona offesa nei confronti dell'imputato non rende di per sé inattendibile la narrazione delle violenze e delle pene subìte, richiedendosi solo una maggiore prudenza nell'analisi delle dichiarazioni in seno al contesto degli elementi conoscitivi a disposizione del giudice (Cass., sez. VI, 13 maggio 2015, n. 31309, Rv. 264334).

Quanto al profilo della credibilità oggettiva, la Suprema Corte ha considerato che, pur a distanza di anni dai fatti in contestazione, la donna ha riferito i numerosi episodi in maniera precisa ed intrinsecamente logica, senza incorrere in contraddizioni, seppur manifestando un forte turbamento emotivo nel ripercorrere le vicende oggetto del giudizio.

Infine, nelle sue valutazioni, la Corte non ha potuto trascurare il riscontro che le testimonianze di amici, colleghi, insegnanti del figlio, psicologi e assistenti sociali che hanno avuto in carico la famiglia hanno dato alle dichiarazioni della persona offesa, contribuendo ancor più a delineare nitidamente l'intero quadro della vicenda.

Osservazioni

La famiglia viene da sempre considerata un territorio protetto: il luogo per eccellenza deputato al raggiungimento della protezione, della solidarietà dei suoi membri, dove - normalmente - non occorrono quelle difese necessarie che, invece, utilizziamo nella nostra vita sociale e di relazione.

È il territorio degli affetti più spontanei e immediati e rappresenta «…il fondamento psicologico e razionale per ogni tipo di sviluppo umano e, infatti, nonostante le modalità variate della struttura familiare, tutte le società mantengono costante un loro sistema familiare. È proprio il fatto che la famiglia sia il luogo primario e privilegiato ove si stabiliscono le prime relazioni che la rende particolarmente importante come nucleo centrale delle esperienze individuali per la formazione dell'identità personale».

Sotto l'aspetto criminologico, la famiglia assume una duplice e antitetica valenza. Da un lato, essa costituisce (o, quantomeno, dovrebbe costituire) un ambiente di protezione dal crimine, quale luogo di apprendimento di valori sociali, oltre che rifugio a protezione dell'individuo.

In particolare, nella nostra cultura, ha sempre rappresentato il più pregnante nucleo della socializzazione, il gruppo nel cui ambito si realizzano i primi modelli delle relazioni interpersonali che informeranno certi comportamenti destinati a perpetuarsi nell'intero corso della vita.

Dall'altro, l'istituto familiare può, in alcuni casi, divenire patologico e inadeguato così da alimentare una peculiare delittuosità violenta, che si differenzia dalle altre per l'habitat particolare e per le strette relazioni esistenti tra vittime e rei.

Tale ambivalenza si riflette nel diritto penale laddove i rapporti di famiglia sono in taluni casi considerati come fattori di aggravamento del crimine e, in altri casi, come fattori di attenuazione dello stesso.

Con particolare riferimento agli illeciti commessi in ambito familiare, gli studiosi hanno dovuto confrontarsi con il cosiddetto “numero oscuro”.

Esso costituisce la parte sommersa dei reati, cioè la differenza tra gli illeciti effettivamente commessi e quelli che emergono dai dati ufficiali, a seguito di denuncia da parte delle vittime o dalle forze dell'ordine o dai servizi.

Nei reati di natura endofamiliare, l'incidenza del numero oscuro è particolarmente elevata in virtù di numerosi fattori interni ed esterni alla famiglia.

L'esistenza, poi, del legame affettivo, fa sì che spesso la violenza non venga neanche percepita come tale dalla vittima che tende a considerarla come un fatto normale o, comunque, non antigiuridico, ovvero venga ritenuto, addirittura, un comportamento dovuto, sicchè la vittima incolpa se stessa ritenendo legittimo l'abuso subìto in quanto meritato.

In tema di maltrattamenti di minori, preme precisare che tale reato si consuma non soltanto attraverso azioni, ma anche mediante omissioni poiché provvedere a un figlio (ancor più se di età inferiore ai 14 anni) da parte di un padre o una madre implica il rispetto della norma di cui all'art. 147 c.c. che impone l'obbligo di «mantenere, istruire ed educare la prole, tenendo conto delle capacità, dell'inclinazione naturale e delle aspirazioni dei figli».

In particolare, il reato di maltrattamenti in famiglia o verso i fanciulli è un reato plurioffensivo, poiché molti sono i beni oggetto della tutela penale.

Tra questi beni assume un rilievo significativo il fanciullo poiché la norma di cui all'art. 572 c.p. tutela “il minore di anni quattordici” non solo nella qualità di membro della famiglia o di persona soggetta alla vigilanza e alla custodia di qualcuno, ma come categoria giuridica a sé stante, meritevole di una protezione speciale.

Gli studi nel campo sociologico hanno verificato che il fanciullo, essendo una personalità in fieri, necessita di una tutela particolare e di una speciale attenzione da parte del sistema giuridico.

Situazioni di vessazione fisica e morale inducono ad uno sviluppo distorto della personalità con conseguenti, irreversibili, danni psichici negli adulti maturi.

Oggi, infatti, si parla molto del riconoscimento dei nuovi diritti dei minori che non sono solo quelli costituzionalmente e istituzionalmente garantiti, ma anche delle nuove posizioni giuridiche attive, riferite alla qualità della vita ed al benessere generale del fanciullo: non basta, quindi, garantire ai figli la tranquillità economica e i beni materiali, ma occorre anche essere disponibili verso l'esistenza del fanciullo, verso i suoi molteplici bisogni, soprattutto attraverso «un intelligente contatto personale, con una sensibile testimonianza della propria vita».

Riferimenti

G. Ponti, Compendio di Criminologia, IV, ed. aggiornata, Raffaello Cortina Editore, 1999;

F.M. Zanasi, Violenza in famiglia e stalking. Dalle indagini difensive agli ordini di protezione, Milano, Giuffrè Editore, 2006;

G.D. Pisapia, 1953, Delitti contro la famiglia, Torino e F. ANTOLISEI, 1957, Manuale di diritto penale – Parte speciale, I, Giuffrè, Milano;

A. Anceschi, La violenza familiare: aspetti penali, civili e criminologici: aggiornato alla normativa anti stalking legge 23 aprile 2009, n. 38, Torino, Giapichelli 2009;

Santosuosso, in Trattato della responsabilità civile e penale in famiglia, a cura di Paolo Cendon, Cedam, 2004.