Accusare il marito di essere omosessuale può comportare l'addebito della separazione?
09 Luglio 2021
Massima
Le accuse di omosessualità rivolte dalla moglie al marito non sono sufficienti a determinare l'addebito della separazione, quando la crisi coniugale è già in corso Il caso
La vicenda riguarda una coppia di coniugi separatisi giudizialmente. In primo grado entrambi avevano presentato domanda di addebito a carico l'uno dell'altro, e tutte e due le istanze erano state rigettate. Il marito in particolare imputava alla moglie la fine dell'unione coniugale. La donna, a suo dire, aveva reso la convivenza matrimoniale intollerabile in quanto aveva più volte dichiarato, interloquendo anche con i colleghi di lui, che lo stesso aveva “cambiato gusti sessuali”. Il giudice stabiliva anche un assegno di mantenimento a beneficio della donna. L'uomo, avverso tale sentenza, proponeva appello sia in relazione alla pronuncia sull'addebito che relativamente a quella sull'assegno di mantenimento. La moglie proponeva appello incidentale limitatamente all'ammontare dello stesso assegno. La Corte territoriale respingeva il ricorso principale osservando nello specifico che la crisi coniugale era in atto da tempo, e che, anche se il marito prima allontanatosi da casa vi aveva fatto ritorno per un breve periodo, non vi era stata alcuna riappacificazione. Accogliendo inoltre l'appello incidentale i giudici aumentavano l'assegno di mantenimento sulla base della considerazione secondo cui la moglie era priva di reddito e non era in grado di svolgere attività lavorativa a causa delle sue condizioni di salute e dell'età. Contro tale provvedimento il marito presentava ricorso in Cassazione. La questione
La questione è incentrata sull'addebito della separazione giudiziale e le sue cause. Ci si chiede in particolare se le accuse di omosessualità, rivolte dalla moglie al marito ed espresse alla presenza di terzi, possano comportare una dichiarazione di addebitabilità. Centrali sono poi i tempi della vicenda. In altre parole, l'organo giudicante viene chiamato a valutare se il comportamento considerato violazione dei doveri coniugali sia la causa o un effetto di quell'intollerabilità della convivenza che può comportare una pronuncia di addebito. Le soluzioni giuridiche
La Cassazione respinge l'istanza del marito, in relazione alla domanda di addebito, ritenendo i motivi di ricorso proposti inammissibili in quanto diretti al riesame dei fatti della causa già esaminati dal giudice di merito. L'uomo, in particolare, lamentava che la Corte d'appello non avesse considerato le pubbliche accuse di omosessualità come causa della crisi coniugale. L'omosessualità è più volte stata presa in considerazione dalla giurisprudenza italiana per le sue conseguenze sull'unione matrimoniale. Peraltro, i giudici hanno più volte specificato che la pretesa omosessualità del coniuge non può essere considerata motivo di addebito della separazione (Cass. 8713/2015). La “scoperta” della propria omosessualità da parte del coniuge, è stato in proposito affermato, costituisce una circostanza non ascrivibile alla violazione dei doveri nascenti dal matrimonio quanto piuttosto una, non addebitabile, “evoluzione” del rapporto matrimoniale (Trib. Milano, 19 marzo 2014). In presenza invece di una relazione omosessuale si riscontra violazione dell'obbligo di fedeltà, previsto dall'articolo 143 c.c., e dunque causa di addebito a carico del coniuge che vi è incorso (Cass. 7207/2009), sempre che sia accertato il nesso causale tra l'adulterio e l'intollerabilità della convivenza (Cass. 4290/2005). Ad incidere dunque sulla stabilità del matrimonio è, in una simile ipotesi, non tanto l'omosessualità in sé quanto il tradimento del coniuge. Nella fattispecie in esame peraltro si imputava la fine dell'unione matrimoniale non all'omosessualità del marito, ma alle accuse che la donna aveva espresso nei suoi confronti. La questione si sposta pertanto sulla possibilità di considerare violazione dei doveri matrimoniali parlare in pubblico delle tendenze sessuali del partner. In questo contesto si sottolinea come i doveri coniugali tra i coniugi di cui all'art. 143 c.c. sono stati soggetti nel tempo a un'interpretazione estensiva e affiancati ai più ampi concetti di lealtà, fiducia, e reciproca solidarietà che caratterizzano l'attuale concezione di famiglia sempre più fondata sull'accordo tra coniugi. Si precisa in questo senso in giurisprudenza che l'inosservanza della lealtà tra i coniugi è considerata una violazione dei doveri coniugali, tale da minare il nucleo imprescindibile di fiducia reciproca che deve caratterizzare il vincolo matrimoniale (Cass. 7132/2015). È stato così ritenuto rilevante, ai fini dell'addebitabilità della separazione, il comportamento in pubblico del coniuge che si riveli ingiurioso e offensivo, nei confronti dell'altro, in relazione alle regole di riservatezza e soprattutto in riferimento ai doveri di fedeltà, correttezza e rispetto derivanti dal matrimonio (App. Torino, 21 febbraio 2000). Allo stesso modo è stato considerato causa della separazione il comportamento del marito, dispotico e non rispettoso della dignità della moglie: l'uomo in particolare la prendeva a schiaffi in pubblico, ostacolava i suoi rapporti con la famiglia di origine e la ingiuriava in presenza dei bambini e dei parenti (Cass. 8124/2009). Le accuse al coniuge di omosessualità pertanto nella specie in quanto offensive nei suoi confronti e violative del rispetto e della privacy soprattutto sul luogo di lavoro del marito ben avrebbero potuto essere causa dell'intollerabilità della convivenza, ma come accertato dal giudice di merito, l'unione coniugale era già in crisi da tempo. Punto centrale pertanto ai fini della soluzione giuridica della vicenda è lo svolgersi cronologico dei fatti. In relazione a tale aspetto la Corte territoriale afferma che il rapporto matrimoniale si era già incrinato prima che la donna esternasse a terzi l'omosessualità del marito e conseguentemente la separazione non può esserle addebitata. L'assunto si inserisce nel solco di un orientamento più che consolidato della giurisprudenza di legittimità che sostiene la necessità, ai fini della dichiarazione di addebito, di un nesso di causalità tra i comportamenti addebitabili e il determinarsi dell'intollerabilità della convivenza. L'addebito presuppone infatti l'accertamento della riconducibilità della crisi coniugale alla condotta di uno o di entrambi i coniugi, consapevolmente e volontariamente contraria ai doveri coniugali. Non è pertanto sufficiente la sola violazione dei doveri che l'art. 143 c.c., pone a carico dei coniugi, essendo, invece, necessario accertare se tale violazione abbia assunto efficacia causale nella determinazione della crisi coniugale, ovvero se essa sia intervenuta quando era già maturata una situazione di intollerabilità della convivenza (Cass. 7469/ 2017; Cass. 11488/ 2017). L'indagine sulla intollerabilità della convivenza e sulla addebitabilità della separazione non può basarsi infatti sull'esame di singoli episodi di frattura, ma deve derivare dalla valutazione globale e comparativa dei comportamenti di ciascun coniuge, per accertare se quello tenuto da uno di essi sia stato causa dell'intollerabilità della convivenza ovvero un effetto di questa (Cass. 2740/2008). Tale principio rileva al punto tale che l'infedeltà di un coniuge, attuata attraverso una stabile relazione extraconiugale, viene considerata dalla giurisprudenza rilevante al fine dell'addebitabilità della separazione soltanto quando sia stata causa o concausa della frattura del rapporto coniugale, e non anche, pertanto, qualora risulti non aver spiegato concreta incidenza negativa sull'unità familiare e sulla prosecuzione della convivenza (Cass. 17741/2013). Nello stesso senso si è sostenuto che anche la condotta più estrema, come il dedicarsi alla prostituzione, pur in assenza di esigenze economiche, non è motivo di addebito della separazione tra coniugi se non è la causa della rottura dell'unione matrimoniale (Cass. 20256/2006). Pertanto, quando, come nella specie, non si raggiunge la prova che il comportamento contrario ai doveri nascenti dal matrimonio tenuto da uno dei coniugi, o da entrambi, sia stato la causa del fallimento della convivenza, deve essere pronunciata la separazione senza addebito. Nel caso in esame infatti la Corte d'appello aveva sostenuto che nel momento in cui la donna ha accusato in pubblico il marito di omosessualità, la crisi era già irrimediabilmente in atto tanto che l'uomo si era per un periodo allontanato da casa. Osservazioni
In un'unione matrimoniale uno di due coniugi si scopre omosessuale. La vicenda giudiziaria, superato il primo grado, prosegue in materia di addebito concentrandosi come causa della fine del rapporto coniugale non tanto sulla omosessualità quanto sulle esternazioni di questo aspetto in pubblico. La strumentalità di tale richiesta balza agli occhi se si considera che la donna, ossia colei nei cui confronti viene richiesto l'addebito è priva di reddito e quindi ha diritto ad un mantenimento. La richiesta di addebito è infatti spesso proposta da una delle parti, più che per una questione di principio, per meri fini economici causando la perdita del diritto all'assegno di mantenimento nel caso in cui il coniuge cui è stata addebitata la separazione sia quello economicamente più debole. Sorge così una riflessione su un istituto che, come specificato già in passato in occasione di progetti di legge tendenti alla sua eliminazione, agevola la cultura del conflitto, che si risolve necessariamente in un danno per i figli, e non promuove invece la cultura della mediazione e dell'accordo (Disegno di legge S31: «Modifiche al codice civile in materia di abolizione dell'addebito nelle separazioni», 2006). Già molti anni fa, in proposito, autorevole dottrina sottolineava come «siano più che maturi i tempi perché il legislatore, rompendo con un ingombrante passato, ponga fine a un istituto, l'addebito della separazione, assolutamente arcaico e privo di qualsiasi rilevanza pratica» (Finocchiaro M., Auspicabile la riforma della disciplina legislativa per eliminare un istituto non al passo con i tempi, in Guida al Diritto, 10 gennaio 2004, n. 1, 40).
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