Rinuncia all'azione di accertamento della paternità ad opera del figlio divenuto maggiorenne nelle more del giudizio

Paola Maccarone
19 Luglio 2021

La dichiarazione della figlia, una volta divenuta maggiorenne, di rinunciare all'azione di accertamento della paternità, comporta la cessazione della materia del contendere
Massima

Va dichiarata la

cessazione

della

materia del contendere

nel giudizio

ex

a

rt. 269 e s.s. c..c

. instaurato dalla madre di una minore d'età nei confronti del

padre

rimasto

contumace

, a seguito della

dichiarazione di rinuncia agli atti

espressa in corso di causa dalla figlia divenuta

nelle more maggiorenne

.

Il caso

La mamma di una ragazza adolescente citava in giudizio il presunto padre della minore al fine di ottenere l'accertamento della paternità, il pagamento di quanto dovuto a titolo di mantenimento sino al raggiungimento dell'indipendenza economica della figlia, il rimborso di quanto dalla stessa pagato sino all'instaurazione del procedimento, oltre al risarcimento del danno subito dalla minore per l'assenza della figura paterna.

Il padre, regolarmente convenuto in giudizio, rimaneva contumace mentre la figlia, divenuta nel frattempo maggiorenne, si costituiva in causa con il medesimo difensore della mamma, aderendo a tutte le difese e domande rassegnate da quest'ultima.

Dopo quasi due anni dalla sua costituzione - il giudizio aveva subito un rallentamento a causa della pandemia da Covid-19 in atto - la figlia, dopo aver sostituito il proprio difensore di fiducia, depositava un atto in cui dichiarava di non aver più interesse ed intenzione di procedere giudizialmente nei confronti del convenuto contumace e di rinunciare agli atti del giudizio ai sensi e per gli effetti di cui all'art. 306 c.p.c., con contestuale richiesta alla madre di aderire a questa sua scelta.

In forza di ciò, il Tribunale di Torino concedeva alla madre un termine al fine di depositare una memoria di replica e la signora, pur sapendo che la legittimazione attiva per l'azione instaurata spettava ormai unicamente alla figlia maggiorenne, esprimeva comunque il proprio dissenso al riguardo e chiedeva al Giudice la fissazione di un'udienza di comparizione personale delle parti allo scopo di essere ascoltate in contradditorio.

L'udienza si svolgeva con modalità cartolare a causa dell'emergenza sanitaria in corso e il Giudice rimetteva la causa al Collegio per la decisione.

Il Tribunale di Torino aderiva alla richiesta avanzata dalla figlia non dichiarando, però, l'estinzione del giudizio ai sensi dell'art. 306 c.p.c., bensì pronunciava la cessazione della materia del contendere considerato il disinteresse al proseguo del giudizio manifestato dalla figlia.

La questione

L'interessante sentenza in esame pone all'interprete molteplici questioni giuridiche interconnesse, che devono però essere valutate attentamente nella loro individualità al fine di comprendere appieno le motivazioni sottese alla decisione adottata nella specie dal Tribunale di Torino relativamente all'estinzione del giudizio.

I quesiti che sorgono spontaneamente e a cui cercheremo di dare una risposta, sono i seguenti: (i) quali sono i contenuti e i limiti della legittimazione attiva per l'esercizio dell'azione ex art. 269 c.c.? (ii) quale è la natura giuridica del consenso espresso dal figlio minorenne ultraquattordicenne e/o maggiorenne all'interno di un procedimento per l'accertamento della paternità o maternità naturale? (iii) il figlio divenuto maggiorenne nelle more di un giudizio di accertamento della paternità o maternità naturale può rinunciare agli atti del giudizio ai sensi e per gli effetti di cui all'art. 306 c.p.c.?

Le soluzioni giuridiche

La dichiarazione giudiziale di paternità e maternità è lo strumento giuridico mediante il quale il soggetto nato fuori dal matrimonio consegue, attraverso un'azione giudiziale di natura costitutiva, lo status di figlio in assenza di uno spontaneo atto di volontà di uno dei genitori o di entrambi.

Il primo aspetto da evidenziare è che l'art. 273 c.c. prevede la legittimazione attiva esclusivamente in capo al figlio e, nel caso in cui egli sia minorenne o incapace, l'azione può essere promossa nel suo interesse dal genitore esercente la responsabilità genitoriale prevista dall'art. 316 c.c. o dal tutore che, però, dovrà ottenere preventivamente l'autorizzazione dal Giudice Tutelare, il quale potrà anche valutare la nomina di un curatore speciale.

In entrambe le ipotesi di cui sopra, il medesimo articolo prevede espressamente l'esigenza che l'azione sia intrapresa nell'esclusivo e superiore interesse del minore, poiché potrebbe anche accadere che l'acquisizione di un nuovo status giuridico comporti per il minore delle conseguenze negative.

Interrogandosi su tale aspetto di opportunità o meno, la giurisprudenza più risalente individuava tutta una serie di elementi tesi a valutare l'esistenza e la portata dell'interesse del minore all'eventuale accertamento del suo status di figlio, considerando rilevante valutare sia il bisogno psicologico-affettivo di avere un genitore, che le eventuali ripercussioni sociali per il figlio successivamente alla dichiarazione giudiziale e, infine, l'eventuale bisogno economico dell'altro genitore che, fino a quel momento, ha sempre provveduto alle esigenze economiche del figlio stesso in totale autonomia (in tal senso Trib. Torino 26 febbraio 1992 e Trib. Genova 6 maggio 1993).

La giurisprudenza più recente, invece, ha ritenuto sempre sussistente l'interesse del minore all'accertamento del proprio status di figlio posto che si verificherebbe comunque un miglioramento obiettivo della sua situazione giuridica a fronte degli obblighi anche solo economici che ne deriverebbero in capo al genitore, non considerando l'assenza di alcun rapporto affettivo col genitore stesso o le difficoltà da affrontare a seguito dell'acquisizione del nuovo status giuridico (in tal senso Cass. Civ. n. 15158/2012; Cass. Civ. n. 3935/2012 e Cass. Civ. n. 16356/2018).

Le opportunità, quindi, di non procedere con l'azione ex art. 269 c.c. sono state contenute al solo verificarsi di situazioni molto gravi come, ad esempio, nel caso di contrarietà all'interesse superiore del minore a seguito di un concreto accertamento di una condotta lesiva del preteso padre, tale da giustificare una dichiarazione di decadenza della responsabilità genitoriale, o nelle ipotesi di acquisizione di prove circa l'esistenza di gravi rischi per l'equilibrio affettivo e psicologico del minore e per la sua collocazione sociale, il tutto sempre risultante da fatti obiettivi e non contestati.

La valutazione dell'esistenza di simili eventuali preclusioni, così come dell'interesse umano e affettivo del minore alla dichiarazione giudiziale di paternità o maternità, non sarà più sottoposta al vaglio del Tribunale qualora il minore abbia raggiunto i 14 anni, essendo in tale caso la valutazione di detto interesse rimessa al minore stesso, attraverso la manifestazione del suo consenso e, allo stesso modo, ovviamente anche nel caso di raggiungimento della maggior età nel corso del giudizio, qualora il figlio intervenga personalmente nel processo per esprimerlo.

Ci si collega, così, al secondo profilo d'indagine legato appunto alla valutazione della natura giuridica del consenso espresso dal figlio, posto che l'art. 273 c.c. al secondo comma prevede l'obbligatorietà di tale consenso per promuovere o per proseguire l'azione al compimento dei 14 anni del minore - prima della riforma della filiazione attuata con il d.lgs 154/2013 la soglia era fissata al sedicesimo anno d'età - poiché si ritiene che a tale età il soggetto abbia acquisito una capacità di discernimento sufficiente a valutare quale sia il suo interesse umano, affettivo ed economico potendo così esprimere la sua volontà circa l'esperibilità o meno dell'azione (Cass. Civ. n. 5291/2000); a maggior ragione, ciò è possibile nel caso in cui l'interessato abbia raggiunto la maggior età nel corso del giudizio e intervenga personalmente nel processo, proprio come nel caso sottoposto all'esame del Tribunale di Torino (Cass. Civ. n. 3935/2012).

La dottrina si è a lungo dibattuta circa la natura che riveste tale manifestazione di volontà e, nonostante parte di essa l'abbia qualificata come un presupposto processuale la cui sussistenza dovrebbe essere valutata all'atto stesso della presentazione della domanda giudiziale, prevale la tesi anche in giurisprudenza secondo cui il consenso costituirebbe un requisito del diritto di azione, integrante la legittimazione del genitore o del tutore, accertabile fino al momento della decisione di merito (Cass. Civ. n. 6217/1994; Cass. Civ. n. 4982/1995; Cass. Civ. n. 5291/2000 e Cass. Civ. n. 10131/2005).

Da quanto sin qui analizzato emerge chiaramente come la mancanza dell'interesse del minore che soggiace all'esercizio dell'azione da parte del genitore o del tutore, così come l'assenza del consenso del minore stesso rende improponibile o improseguibile l'azione (Cass. Civ. n. 3721/1998) anche se ciò comunque non precluderebbe la riproposizione della domanda in altra sede, qualora il figlio muti opinione riguardo all'opportunità di essa, così come sarà sempre necessario ottenere il consenso del minore ultraquattordicenne nel caso in cui il genitore o il tutore rinuncino agli atti del giudizio.

Il problema della rinuncia agli atti del giudizio ci porta alla terza e più pregnante questione giuridica affrontata dalla sentenza in commento, a cui però è strettamente legata l'annosa e controversa valutazione circa la posizione processuale assunta dal genitore esercente la responsabilità o dal tutore che, nell'interesse del minore, agiscono per l'accertamento del rapporto di filiazione.

La giurisprudenza e la dottrina ad oggi espressesi sulla posizione del genitore esercente la responsabilità sono tutt'altro che uniformi e chiare sul punto e, come riportato dalla medesima sentenza in commento, si interrogano se il genitore agisca in qualità di rappresentante ex lege del figlio o se ci si trova diversamente di fronte ad un'ipotesi di sostituzione processuale ex art. 81 c.p.c..

Il Tribunale di Torino riporta come, secondo la giurisprudenza più risalente nel tempo e ad oggi minoritaria, avendo l'azione ex art. 269 c.c. carattere personalissimo, il genitore non agisce iure proprio ma nell'interesse del figlio in qualità di rappresentante ex lege del minore stesso, proprio in virtù del potere conferitogli dall'art. 316 c.c. (Cass. Civ. n. 2350/1990 e Cass. Civ. n. 5259/1999); la decisione, infatti, di promuovere l'azione, costituisce esercizio della responsabilità genitoriale su di lui gravante, ed in quanto tale, è valutabile nella sua opportunità avendo esclusivo riguardo al superiore interesse del minore.

Sempre secondo i Giudici torinesi, la prevalente giurisprudenza ritiene invece che il genitore esercente l'azione ex art. 269 c.c. non ha un'autonoma legittimazione ad agire, bensì agisce come sostituto processuale ex art. 81 c.p.c. del minore stesso in funzione di un suo particolare interesse (Cass. Civ. n. 5814/1994; Cass. Civ. n. 513/1998; Cass. Civ. n. 10786/1999); tale sostituzione non cesserebbe automaticamente per effetto del raggiungimento della maggior età del figlio se tale circostanza non viene dichiarata in udienza o se comunque non è portata a conoscenza delle altre parti mediante notifica, ai sensi dell'art. 300 c.p.c. (Cass. Civ. n. 5411/1985).

In entrambe le ipotesi, comunque, deriva come logica conseguenza la non obbligatorietà per il genitore di dichiarare espressamente di agire nell'interesse del minore, essendo sufficiente che dal contesto del complessivo atto introduttivo del giudizio emerga che l'interesse del minore all'accertamento dello status è stato preso in considerazione, cosicché il genitore non deve dichiarare di agire in nome e per conto del minore, essendo detta presunzione superabile solo quando si dimostri che l'eventuale accertamento potrebbe rilevarsi pregiudizievole per l'interesse del minore stesso (Cass. Civ. n. 1571/1983; Cass. Civ. n. 12723/1992 e Cass. Civ. n. 5259/1999).

Nel caso in esame, la figlia divenuta maggiorenne si è costituita personalmente in giudizio e non si è reso così necessario recuperare il suo consenso e/o dichiarare l'interruzione del giudizio ex art. 300 c.p.c..

Tuttavia il Tribunale di Torino si è trovato a dover valutare l'assenza improvvisa d'interesse dichiarato dalla figlia alla prosecuzione dell'azione, intrapresa dalla madre in qualità di sostituto processuale, nei confronti del supposto padre contumace, avendo reso espressa dichiarazione di rinuncia agli atti del giudizio ai sensi dell'art. 306 c.p.c.

La rinuncia agli atti è la dichiarazione esplicita della parte che ha proposto la domanda di voler rinunciare alla stessa e agli atti successivi, per cui l'estinzione del giudizio è subordinata all'accettazione di tutte le parti costituite in quanto le stesse potrebbero avere un interesse alla prosecuzione del medesimo (Cass. Civ. n. 8387/1999); in forza di tale rinuncia, il giudice è privato del suo potere di emanare una decisone nel merito, tant'è che l'estinzione del processo non estingue l'azione per come affermato dall'art. 310 c.p.c. (Cass. Civ. n. 9066/2002).

Ciò significa che l'oggetto che costituiva il merito della domanda rinunciata rimane integro, per cui il titolare del diritto potrà decidere di farlo valere in seguito in un altro processo.

Il Tribunale di Torino, aderendo all'orientamento secondo il quale la madre aveva agito in giudizio quale sostituto processuale della figlia, ha così statuito che la mamma «...ha esaurito il proprio ruolo processuale ricoperto in qualità di sostituto processuale ex art. 81 c.p.c., poiché neutralizzato dal raggiungimento della maggior età della figlia...».

A fronte del fatto che la madre non era più parte processuale e non aveva più alcun interesse per stare in giudizio, il Collegio non riteneva possibile dichiarare l'estinzione del processo ai sensi e per gli effetti di cui all'art. 306 c.p.c. poiché il presupposto per l'applicabilità di tale istituto è, appunto, l'accordo o l'accettazione delle parti costituite, ma a tale momento l'unica parte costituita era la figlia stessa.

Figlia che, comunque, quale unica e sola titolare dell'azione ex art. 269 c.c. aveva chiaramente espresso il suo totale disinteresse alla prosecuzione del procedimento per cui il Tribunale, non potendo applicare altre fattispecie tipiche previste dalla legge, ha diversamente dichiarato cessata la materia del contendere, sull'assunto di non poter far luogo «...alla definizione del giudizio per rinuncia alla pretesa sostanziale o per il venir meno dell'interesse delle parti alla naturale definizione del giudizio stesso...».

La cessazione della materia del contendere è stata definita da autorevole dottrina come un “riflesso processuale del mutamento della situazione sostanziale”, che può configurarsi con il venir meno della ragione sottostante al giudizio sia per motivi oggettivi che soggettivi, come nel caso di specie.

Osservazioni

In conclusione, ci siano permesse un paio di considerazioni intorno al tema centrale della rinuncia all'azione che è però argomento strettamente connesso al problema dell'individuazione della posizione processuale assunta dal genitore che esercita l'azione per la dichiarazione giudiziale di paternità o di maternità tema che, in tutta franchezza, fatichiamo a comprendere soprattutto alla luce delle molteplici e discordanti pronunce esistenti sul punto.

Chiarito il dato fondamentale che il genitore, così come il tutore, agisce nell'interesse altrui promuovendo un giudizio i cui effetti personali e patrimoniali si verificheranno nella sfera di un terzo soggetto, la giurisprudenza di legittimità risulta tutt'altro che unitaria sul punto, differentemente da quanto riportato dalla sentenza in esame, e soprattutto per nulla chiara unendo ciò che sarebbe rappresentanza e ciò che, differentemente, sarebbe sostituzione processuale.

Secondo autorevole dottrina che ci sentiamo di seguire si parla di: (i) sostituzione processuale ai sensi e per gli effetti dell'art. 81 c.p.c. quando il soggetto agisce in giudizio in nome proprio per far valere un diritto altrui e non deve presentare alcuna dichiarazione poiché, appunto, agisce in giudizio in nome proprio; (ii) rappresentanza, che è una sottospecie della sostituzione, quando il soggetto agisce in giudizio in nome e per conto del rappresentato e per tale ragione è necessaria la contemplatio domini da parte dell'agente, vale a dire la manifestazione che l'attività è posta in essere nell'esercizio del potere rappresentativo.

Ora, la maggior parte delle sentenze che si sono espresse su questo tema, utilizzano in modo impreciso tale distinzione, forse perché, nella pratica l'utilizzazione di uno o dell'altro istituto non produce effetti diversi avendo un solo valore classificatorio.

In entrambe le ipotesi, infatti, il potere di agire del genitore trova il suo unico fondamento nella legge in forza dell'art. 316 c.c. per cui sia in caso di sostituto che in caso di rappresentante il genitore non deve ricevere alcuna autorizzazione, né tantomeno deve dichiarare di agire in giudizio nell'interesse del minore, che rimane l'unico soggetto titolare del diritto sostanziale oggetto del processo.

Tale situazione di incertezza aveva addirittura spinto una parte della dottrina a optare per l'eliminazione della facoltà per il genitore di agire in nome e per conto del minore, lasciando a quest'ultimo, una volta divenuto maggiorenne, la possibilità di autodeterminarsi liberamente; in senso contrario a questa conclusione, altra parte della dottrina aveva contestato che la possibilità di esperire l'azione prima dei 18 anni avrebbe sicuramente favorito la nascita e lo sviluppo di un rapporto affettivo tra il figlio e il supposto genitore.

Da tutto ciò deriva come logica conseguenza che, il Tribunale di Torino nel caso sottoposto al suo esame ed a fronte della costituzione in giudizio della figlia divenuta maggiorenne, ha considerato correttamente esaurito il ruolo processuale assunto dalla madre nel giudizio e, a tale conclusione, si sarebbe giunti sia considerando la madre intervenuta in qualità di sostituto processuale, che in qualità di rappresentante della figlia.

Se, quindi, il figlio è l'unico soggetto titolare del proprio diritto personale di ottenere o meno il riconoscimento del proprio status di figlio, chiaro è che con il raggiungimento dell'età utile per poter esprimere il proprio consenso non è possibile procedere nel giudizio promosso dal genitore qualora lo stesso soggetto esprima in modo inconfutabile il proprio dissenso alla prosecuzione dell'azione.

Nel caso in esame la figlia ha espresso disinteresse alla prosecuzione del giudizio rinunciando agli atti ai sensi dell'art. 306 c.p.c.; la rinuncia agli atti comporta l'estinzione del processo in cui viene effettuata, ma non comporta alcuna rinuncia al diritto fatto valere, ciò vuol dire che con essa non si estingue l'azione che resta proponibile in un nuovo e autonomo processo.

L'art. 306 c.p.c. richiede però l'accettazione da parte di tutte le parti costituite che potenzialmente potrebbero avere interesse alla prosecuzione del giudizio stesso; nella sentenza in esame, il padre era contumace e la madre non era più parte processuale al momento della presentazione di tale istanza; sulla base di tali circostanze il Tribunale di Torino ha così ritenuto di non poter procedere all'estinzione del giudizio tramite lo strumento processuale invocato dalla difesa della figlia, posto che in giudizio era rimasta una sola parte regolarmente costituita.

Francamente non condividiamo la decisione assunta dal Tribunale di Torino poiché, la giurisprudenza ha talvolta ammesso la possibilità di rinuncia ex art. 306 c.p.c. in casi in cui la controparte non si è costituita o, comunque ha dimostrato disinteresse alla prosecuzione del processo (Cass. Civ. n. 3905/1995; Cass. Civ. n. 1168/1995; Cass. Civ. n. 10978/1996; Cass. Civ. n. 6850/2011).

Questo orientamento è stato seguito anche da una recente sentenza di merito secondo la quale lo stato di contumacia di un soggetto è in re ipsa rivelatore di disinteresse alla prosecuzione del giudizio e ciò sarebbe comprovato dal fatto che il legislatore non richiami tra gli atti da comunicare al convenuto contumace proprio la rinuncia dell'attore ex art. 306 c.p.c. (Trib. Roma 7 gennaio 2016 n. 110).

Il comportamento del presunto padre rimasto contumace denota l'assoluta carenza di interesse dello stesso a voler anche solo accertare una situazione dalla quale potrebbero derivargli effetti a dir poco rilevanti per cui, a nostro avviso, il Tribunale di Torino avrebbe comunque potuto dichiarare l'estinzione del giudizio ai sensi e per gli effetti di cui all'art. 306 c.p.c., posto che il figlio è l'unico soggetto titolare dell'azione personalissima di riconoscimento.

Diversamente, il Tribunale di Torino ha ritenuto più opportuno utilizzare la fattispecie di estinzione del processo creata dalla giurisprudenza, vale a dire la cessazione della materia del contendere che il Giudice può dichiarare con sentenza, su istanza di parte o d'ufficio, quando ritenga che nel corso del giudizio si verifichi un mutamento sostanziale da impedire la definizione del giudizio.

Tale impedimento può concretizzarsi nell'impossibilità di definire la causa per il venir meno dell'interesse delle parti, qualora non sia possibile procedere con una declaratoria di rinuncia agli atti o di rinuncia alla pretesa sostanziale.

La sentenza che dichiara cessata la materia del contendere ha carattere meramente processuale e non è idonea a costituire giudicato sostanziale sulla pretesa fatta valere in giudizio; la sentenza acquista efficacia di giudicato sostanziale solo riguardo alla mancanza d'interesse alla prosecuzione del giudizio e mai con riguardo alle questioni di merito oggetto del giudizio, delle quali non si può precludere la riproposizione in un diverso giudizio non essendoci stato nel merito un intervento del giudice (Cass. Civ. n. 4714/2006 e Cass. Civ. n. 3122/2003).

In buona sostanza, oltre che ad una differente regolamentazione delle spese di giudizio, i due istituti differiscono solo poiché la rinuncia agli atti deve essere accettata da tutte le parti costituite, mentre la cessazione della materia del contendere può essere dichiarata anche d'ufficio dal giudice per il venir meno dell'interesse delle parti alla sua naturale conclusione.

Entrambi gli istituti, quindi, sono due diverse modalità di estinzione del giudizio i cui effetti sono i medesimi posto che tutti e due comportano l'estinzione dell'azione intrapresa, ma non producono alcun effetto sul diritto oggetto della domanda che, quindi, potrà essere riproposto in un nuovo e autonomo processo.

In buona sostanza, anche se il Tribunale di Torino avesse applicato l'istituto della rinuncia agli atti di cui all'art. 306 c.p.c. gli effetti sostanziali prodotti nei confronti della figlia sarebbero stati i medesimi.

Riferimenti

Morozzo Della Rocca, Accertamento giudiziale della paternità e maternità, in Enc. g. Treccani XXIII;

Paolo Zatti, Trattato di Diritto di Famiglia, Milano, 2012;

Alessio Zaccaria, Commentario Breve al Diritto della Famiglia, Milano, 2020;

Tommaso Auletta, Filiazione, Adozione, Alimenti, in Trattato di Diritto Privato, Torino, 2011;

Cesare Massimo Bianca, La riforma della filiazione, Milano, 2015;

Francesca e Michela Bartolini, Commentario sistematico del diritto di famiglia, Piacenza, 2015;

Michele Sesta, Codice della famiglia, Milano, 2015.

Tribunale di

Torino 15 marzo 2021

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