Trasformazione del rito e irrevocabilità del consenso in caso di separazione consensuale formalizzata in corso di causa
27 Luglio 2021
Massima
L'accordo di separazione consensuale verbalizzato dalle parti nel corso di un giudizio di separazione giudiziale, realizzando la proposizione di conclusioni conformi, presuppone la rinuncia delle domande formulate dalle parti e chiude la fase contenziosa del giudizio, di talché il giudice istruttore deve rimettere la causa al collegio per la pronuncia della sentenza di separazione e per la decisione sulle domande congiunte delle parti. Il consenso alla separazione consensuale, realizzando un vero e proprio contratto di diritto familiare, una volta manifestato di fronte al giudice, non può essere revocato da uno dei coniugi e il tribunale deve formalizzare la separazione alle condizioni concordate dalle parti, qualora le ritenga legittime e idonee a realizzare l'interesse della prole. Il caso
Il caso esaminato dalla sentenza in commento riguarda la separazione giudiziale di una coppia genitoriale con figli adolescenti (di 15 e 14 anni all'inizio della causa), promossa dal marito con ricorso depositato a fine dicembre 2013. A fine settembre 2014 si è tenuta l'udienza presidenziale, ad esito della quale il presidente ha disposto l'affido condiviso dei figli con collocamento prevalente presso la madre, nonché, in favore della medesima, l'assegnazione della casa familiare e un assegno perequativo per il mantenimento dei figli. Durante la fase istruttoria del giudizio, le parti, su sollecitazione del giudice istruttore, a fine maggio 2016, hanno sottoscritto in udienza un accordo per la definizione consensuale della controversia, secondo le forme tipiche dei verbali di separazione consensuale, prevedendo come di consueto che i coniugi avrebbero vissuto separati con obbligo di reciproco rispetto e confermando l'affidamento condiviso della figlia (essendo nel frattempo il figlio maggiore divenuto maggiorenne), le modalità di esercizio della responsabilità genitoriale, l'assegnazione della casa familiare alla madre e la corresponsione di un assegno perequativo per il mantenimento dei figli in favore della medesima (intervenendo unicamente sulla sua misura). Nella medesima udienza il giudice istruttore, ritendo a quel punto la causa matura per la decisione, ha invitato le parti a precisare le conclusioni, cosa che le stesse hanno fatto chiedendo che venisse pronunciata sentenza di separazione che recepisse gli accordi raggiunti, e ha rinviato la causa “in prosieguo conclusioni” all'udienza del 20 settembre 2016, rimettendo gli atti al pubblico ministero per le conclusioni. All'udienza del 20 settembre 2016 il marito ricorrente ha dichiarato di non volere più la separazione consensuale intendendo con ciò revocare il proprio consenso alla stessa, al che il suo difensore ha rinunciato al mandato mentre il difensore della moglie, pur richiamando gli accordi a verbale, si è rimesso al giudizio del tribunale, chiedendo il ripristino delle condizioni di cui ai provvedimenti presidenziali. La causa è quindi proseguita per l'attività istruttoria sulle domande delle parti, tra cui quella di addebito promossa da entrambi i coniugi, per poi essere trattenuta in decisione solamente a settembre 2020. La sentenza, infine, dopo ben sette anni di causa, è stata emessa a fine dicembre 2020 con la pronuncia della separazione personale dei coniugi “alle condizioni concordate riportate in motivazione”, ovvero alle condizioni sottoscritte dalle parti nel verbale di udienza del maggio 2016. La questione
La sentenza in esame ha pronunciato la separazione personale delle parti, con recepimento delle condizioni dalle stesse concordate a verbale nella fase istruttoria del giudizio per separazione giudiziale, a seguito della domanda congiunta delle parti di definizione della vertenza secondo il predetto accordo consensuale raggiunto in udienza, sul presupposto che fosse illegittima la revoca del consenso alla separazione consensuale da parte del marito e fossero state rinunciate tutte le domande delle parti, in primis quelle di addebito. Tale decisione pone interessanti questioni giuridiche sia di diritto sostanziale, con riferimento alla natura dell'accordo di separazione consensuale e alla sua revocabilità prima della omologazione, sia soprattutto di diritto processuale, con riferimento alle conseguenze in rito del raggiungimento di un accordo di separazione consensuale nel corso di un giudizio di separazione giudiziale e, in particolare, della sua fase istruttoria. le soluzioni giuridiche
Precisiamo subito che, a nostro parere, in questo giudizio, pur essendo condivisibile nel merito il risultato a cui è giunto il tribunale, destano perplessità le modalità con cui lo stesso è stato realizzato, che non convincono per ragioni sia di diritto sostanziale, sia di diritto processuale. Dal punto di vista del diritto sostanziale, non può essere condivisa la tesi secondo cui l'accordo di separazione consensuale, e in particolare quello raggiunto nel caso di specie, sarebbe un contratto, perché ciò risulta contrario alle norme positive. Il contratto, infatti, per espressa disposizione di legge, è un accordo con cui le parti costituiscono, regolano o estinguono “un rapporto giuridico patrimoniale” (art. 1321 c.c.). Il che non può dirsi dei diritti che costituiscono il cuore di un accordo di separazione, che sono diritti che il nostro ordinamento considera indisponibili e che riguardano questioni non patrimoniali, quali lo status coniugale (con l'attenuazione del rapporto che consegue alla separazione) e le cd. questioni accessorie in materia di mantenimento reciproco tra i coniugi o in materia di affidamento e mantenimento dei figli. Ovviamente, va da sé che in un accordo di separazione consensuale possano essere inseriti anche accordi strettamente patrimoniali, con trasferimenti o divisioni di denaro o di immobili, ma tali accordi sono meramente accidentali e non possono in alcun modo interferire con la natura non contrattuale dei diritti che necessariamente, in caso di accordo, devono essere regolati secondo le norme sulla separazione consensuale. E ciò, fermo restando il contenuto negoziale degli accordi (sul tema della natura non contrattuale degli accordi di separazione consensuale si segnala l'ampia e condivisibile analisi effettuata dalla Corte di Cassazione con la sentenza Cass. n. 17607/20023, in: Mass. Giur. It., 2003; Arch. Civ., 2004; Corriere Giur., 2004; Famiglia e Diritto, 2004; e i numerosi richiami giurisprudenziali in essa contenuti). Tanto è vero che una separazione consensuale, per essere tale, deve essere omologata dal tribunale e questi ha il dovere di non concedere l'omologazione e può chiedere modifiche dell'accordo se, con riferimento ai figli, la soluzione proposta dalle parti risulta inidonea alla loro corretta tutela (art. 158, comma 2, c.c.). Del resto, se la separazione consensuale fosse un contratto, le parti lo potrebbero raggiungere privatamente senza dover passare dal tribunale, ma così non è, come si evince anche dalla normativa sulla negoziazione assistita, che prevede comunque, per il suo perfezionamento, il controllo del magistrato, ancorché nella persona del pubblico ministero. Riteniamo pertanto che non sia possibile richiamare la disciplina dei contratti e, con essa, quella sul recesso, come invece pare ritenere la sentenza in commento. Con riferimento alla separazione consensuale occorre inoltre rilevare che detta sentenza non affronta la questione di cosa sia effettivamente, sotto il profilo sostanziale, la separazione “sul solo consenso dei coniugi” di cui all' art. 158, comma 1, c.c., e quali siano le conseguenze del suo perfezionamento nella fase istruttoria di un giudizio di separazione giudiziale, il che a nostro avviso la conduce ad effettuare una sorta di sovrapposizione della dimensione sostanziale con quella processuale. Sotto il profilo sostanziale, poi, la separazione sul solo consenso dei coniugi (art. 158 c.c.) differisce dalla separazione giudiziale (art. 151 c.c.) non solo e non tanto in ragione del tipo di giudizio che la realizza, bensì fondamentalmente in ragione dei suoi presupposti giuridici. La separazione giudiziale, infatti, è la quella che un coniuge chiede contro l'altro e per la sua pronuncia, in teoria, occorre che il tribunale accerti che si sono verificati «fatti tali da rendere intollerabile la prosecuzione della convivenza o da arrecare grave pregiudizio all'educazione della prole» (art. 151, comma 1, c.c.). La separazione consensuale, invece, si fonda unicamente sul consenso delle parti e il giudice non deve accertare altro che questo, tanto è vero che il presidente, una volta fallito il tentativo di conciliazione dei coniugi (con esso intendendosi quello che tende alla ricostituzione della coppia coniugale e quindi alla “riconciliazione” di cui all'art. 154 c.c.), deve solo dare atto, a verbale, “del consenso dei coniugi alla separazione e delle condizioni riguardanti i coniugi stessi e la prole”, per poi rimettere il tutto al collegio per l'omologazione (art. 711, comma 3, c.p.c.). Una omologazione che, peraltro, a voler essere rigorosi, ha anch'essa una duplice valenza, essendo non solo un provvedimento giurisdizionale ma anche, e soprattutto, un elemento necessario al perfezionamento della separazione. Ciò in quanto la separazione, senza l'omologazione, è di mero fatto e quindi non ha alcun effetto giuridico, posto che la separazione personale, per esistere nell'ordinamento, è solo giudiziale o consensuale (art. 151, comma 2, c.c.), ovvero necessita di un passaggio procedurale (avanti al tribunale, nell'impostazione originaria del legislatore; adesso, per la separazione consensuale, anche di fronte al solo pubblico ministero, in caso di negoziazione assistita, o addirittura di fronte all'ufficiale civile, in assenza di figli e di accordi accessori). Venendo alla questione della procedura da seguire in caso di raggiungimento di un accordo di separazione consensuale nel corso di un giudizio di separazione giudiziale, occorre analizzare quali siano le modalità corrette per la formalizzazione dell'accordo, quando questo, definendo anche tutte le questioni accessorie alla separazione, fa cessare la materia del contendere del giudizio. La questione ha evidentemente profili sia di carattere sostanziale, sia di carattere processuale, tra loro interconnessi. Sotto il profilo sostanziale, la questione è se la separazione consensuale debba perfezionarsi secondo il disposto dell'art. 158 c.c. su accordo delle parti e con le questioni accessorie decise dalle parti, con conseguente omologazione, da parte del tribunale, dell'accordo medesimo riportato nel verbale di causa, come prevede l'art. 158 c.c. in combinato disposto con l'art. 711 c.p.c., o con una vera e propria pronuncia del tribunale, con sentenza, che faccia proprie e ratifichi le condizioni concordate dalle parti. La risposta a tale prima questione, pertanto, ha, evidentemente, anche delle ricadute di carattere processuale il perfezionamento del giudizio con sottoscrizione dell'accordo a verbale e sua omologazione con decreto da parte del collegio comporta la trasformazione del rito da giudiziale a consensuale. A nostro parere la soluzione corretta, qualunque sia la fase del giudizio contenzioso in cui viene raggiunto l'accordo di separazione consensuale, è quella del suo perfezionamento, sotto il profilo sia sostanziale, sia processuale, come una vera e propria separazione consensuale exart. 158 c.c. e 711 c.p.c. e quindi con un provvedimento di omologazione da parte del collegio. Non si vede ragione, infatti, in caso di accordo delle parti che definisca l'intera materia del contendere del giudizio (quindi la separazione e tutte le questioni accessorie), perché debba essere il tribunale, per il solo fatto che il giudizio è iniziato come contenzioso, a pronunciare la separazione e a disporre in merito alle questioni accessorie, anziché le parti nelle forme di cui al citato art. 711 c.p.c., poiché la separazione consensuale, come abbiamo visto sopra, la realizzano le parti con il loro consenso. La soluzione secondo cui la separazione, in presenza di un accordo per la consensuale raggiunto dalle parti, è pronunciata dal tribunale appare quindi contraria al sistema, poiché, come abbiamo visto sopra, il tribunale pronuncia la separazione solamente se questa è giudiziale, perché ai fini di tale pronuncia deve compiere un accertamento in merito ai presupposti sostanziali della separazione giudiziale disciplinati dall'art. 151 c.c.. Mentre in caso di separazione consensuale può unicamente decidere se l'accordo delle parti sia omologabile, senza potere imporre decisioni difformi a tale accordo. E ciò anche in considerazione del fatto che, una volta concordata la separazione consensuale, le parti non hanno più domande l'una contro l'altra che richiedano la decisione del tribunale. Il quale quindi si trova nell'impossibilità di pronunciare in merito alle questioni oggetto del giudizio, potendo solo stare nel perimetro della separazione consensuale, che comporta la omologazione o il suo rifiuto e come unico margine di azione del tribunale l'invito a modificare le condizioni ai fini della omologazione. Quanto alla procedura da seguire per formalizzare la separazione consensuale nel corso della separazione giudiziale, il nostro codice di rito è alquanto reticente, perché non prevede in alcun modo l'ipotesi che la causa, pur essendo iniziata come giudiziale, possa definirsi bonariamente come consensuale, sia che ciò avvenga nella fase speciale e sommaria di fronte la presidente, sia che ciò avvenga nel corso della fase istruttoria, che si svolge con il rito ordinario. Il codice di rito, infatti, prevede unicamente l'ipotesi della conciliazione della causa nel senso della riconciliazione di cui all'art. 154 c.c. e in merito ad essa prevede addirittura un preciso onere del presidente di tentarla; mentre per quanto riguardala la conciliazione del giudizio e quindi della controversia, non vi è alcuna indicazione. La questione, tuttavia, si pone e deve avere una soluzione perché un procedimento di separazione, a differenza di una causa ordinaria avente ad oggetto diritti patrimoniali, in caso di accordo, non può estinguersi per cessazione della materia del contendere, ma deve comunque avere il suo epilogo in un provvedimento del tribunale, diversamente la separazione non esisterebbe nell'ordinamento, per le ragioni sopra dette. Ebbene, con riferimento a questa questione l'ordinamento, pur essendo dispersivo, non è lacunoso, perché la stessa, ancorché di sfuggita e senza grande precisione, è affrontata nella legge sul divorzio, la quale prevede espressamente (sin dalla riforma del 1987, legge n. 74; il testo è poi stato modificato con la riforma sul cd. divorzio breve del 2015), nel 3° comma dell'art. 3, che il termine per poter proporre la domanda di divorzio decorre «dall'avvenuta comparizione dei coniugi innanzi al presidente del tribunale nella procedura di separazione personale … anche quando il giudizio contenzioso si sia trasformato in consensuale». Pare evidente pertanto che la soluzione prevista dal nostro legislatore, con buona pace di quei tribunali che continuano ad essere a ciò refrattari, non siano le conclusioni conformi o la pronuncia della separazione alle condizioni concordate dalle parti, bensì è la trasformazione del rito da giudiziale a consensuale. E ciò per la comprensibile intenzione - compresa dal legislatore del 1987, dopo circa diciassette anni dalla legge sul divorzio e dodici dalla riforma del diritto di famiglia del 1975, che ha introdotto la separazione consensuale nelle forme sopra indicate; la riforma era evidentemente il frutto dell'esperienza maturata sul campo e della giurisprudenza dei tribunali – di rendere uniforme nell'ordinamento, sia sotto il profilo sostanziale, sia sotto il profilo processuale, le separazioni consensuali, a prescindere dal fatto che l'accordo sia stato raggiunto in corso di giudizio contenzioso. Lo scopo della norma citata, peraltro, è duplice, in quanto l'intento del legislatore non è solo quello di prevedere la trasformazione del rito in caso di accordo per la separazione consensuale, ma è innanzitutto quello di fissare all'udienza presidenziale della separazione personale - sia essa sin dall'inizio una separazione consensuale; sia essa pronunciata con sentenza, qualora il giudizio si concluda come contenzioso; sia essa, infine, concordata dalle parti ma formalizzata con l'omologazione, in caso di trasformazione da giudiziale a consensuale - la decorrenza del termine per poter chiedere il divorzio. Va da sé, infatti, che in mancanza di tale norma il termine decorrerebbe dal verificarsi degli effetti della separazione, ovvero: per la giudiziale, dal passaggio in giudicato della sentenza di separazione; e per la consensuale, anche quella chiesta sin dall'inizio congiuntamente dalle parti, dalla pubblicazione del decreto di omologazione. Quanto al provvedimento con cui effettuare l'omologazione, sia l'art. 158 c.c. sia l'art. 711 c.p.c. non dicono nulla, limitandosi il primo a prevedere che la separazione consensuale, come sopra accennato, “non ha effetto senza la omologazione del giudice” (così il 1° comma), mentre il secondo si limita a prevedere che “La separazione consensuale acquista efficacia con l'omologazione del tribunale, il quale provvede in camera di consiglio su relazione del presidente” (art. 711, comma 4, c.p.c.). Tuttavia, pare evidente che, premessa la trasformazione del rito per la formalizzazione della consensuale, l'omologazione debba essere effettuata con decreto. Una volta appurato che, per la formalizzazione della separazione consensuale nel corso di un giudizio di separazione giudiziale, si procede alla trasformazione del rito e si rimette l'accordo al collegio per la sua omologazione, occorre chiedersi, da ultimo, se il rito consensuale di cui all'art. 711 c.p.c. imponga la competenza del presidente o se questa sia derogabile. Naturalmente ci riferiamo all'ipotesi che l'accordo venga raggiunto nella fase di fronte al giudice istruttore, poiché in caso di accordo raggiunto nella fase presidenziale va da sé che lo stesso sarà verbalizzato dal presidente, il quale ne riferirà al collegio per l'omologazione. E per la verità, in caso di accordo raggiunto nella fase presidenziale pare perfino ridondante parlare di trasformazione del rito, perché in tale ipotesi la fase giudiziale e ordinaria del processo, che si svolge con il rito ordinario contenzioso, non è nemmeno iniziata, di talché si trasformerebbe qualcosa che nemmeno esiste. Al contrario, quindi, il presidente, all'udienza presidenziale, potrebbe semplicemente raccogliere a verbale l'accordo delle parti e rimetterlo al collegio per l'omologazione senza dovere nemmeno provvedere alla trasformazione del rito, se non sotto il profilo meramente terminologico. La domanda da porsi, quindi, è se, nell'ipotesi in cui l'accordo sia raggiunto nella fase contenziosa del giudizio di fronte al giudice istruttore, la norma di cui all'art. 711 c.p.c. sia derogabile quanto alla competenza del presidente, nel senso che il giudice istruttore possa ricevere l'accordo a verbale e fare la relazione al collegio per l'omologazione; o se invece la competenza del presidente costituisca una prescrizione fondamentale e inderogabile, quasi si trattasse di una competenza funzionale, e che sia di conseguenza necessario rimettere la causa di fronte al presidente perché sia questi a raccogliere la volontà delle parti a verbale e a riferire al collegio per l'omologazione. Diciamo subito che tale seconda soluzione non ci sembra giuridicamente fondata, per ragioni di carattere sia giuridico sia pratico. Sotto il profilo giuridico riteniamo che le norme debbano essere interpretate nel rispetto della loro funzione e quindi dello scopo per cui sono previste. La norma che prevede la competenza del presidente del tribunale si giustifica innanzitutto per il tentativo di riconciliazione della coppia coniugale che il presidente deve svolgere sia in caso di separazione giudiziale (art. 708 c.p.c.), sia in caso di separazione consensuale (art. 711 c.p.c.). L'idea del legislatore è evidentemente che l'autorevolezza di un presidente del tribunale dovrebbe rendere più efficace il tentativo di riconciliazione, e ciò nell'ambito della concezione originaria ormai superata della separazione come estrema ratio e quindi del favor matrimonii. Sennonché, con riferimento a ciò, occorre considerare che la prassi ci insegna che il tentativo di riconciliazione costituisce un passaggio meramente formale, spesso neanche realmente effettuato, dei giudizi di separazione. Per non dire del fatto che in molti tribunali, in particolare quelli di grandi dimensioni, l'udienza presidenziale è affidata ai magistrati di sezione, che agiscono in qualità di facenti funzione. E in alcuni tribunali, nei giudizi per separazione giudiziale, il presidente facente funzione nomina addirittura sé stesso quale giudice istruttore. Risulterebbe quindi un mero formalismo, inutilmente vessatorio per il cittadino, pretendere che il giudice istruttore, che magari ha tenuto quale presidente facente funzione l'udienza presidenziale, svolgendo egli stesso il tentativo di conciliazione, non possa ricevere a verbale un accordo di separazione consensuale in corso di causa per il solo fatto che in tale udienza è formalmente giudice istruttore e debba rimettere le parti di fronte al presidente, magari nominando sé stesso in tale funzione, con ciò consentendo improvvidi ripensamenti, come è stato il caso della sentenza in commento, qualora a tale scopo venga fissata una apposita successiva udienza. Le norme, sia sostanziali sia processuali, al contrario, consentono e anzi favoriscono la soluzione consensuale della controversia. E la funzione dell'ordinamento è quella di consentire che ciò sia fatto nel modo più corretto ed efficiente possibile. Occorre quindi ritenere che la separazione consensuale possa essere formalizzata a verbale davanti al giudice istruttore e che questi possa rimettere il procedimento e riferirne davanti al collegio per l'omologazione dell'accordo, senza rimessione di fronte al presidente in una apposita udienza. Osservazioni
La sentenza in esame, come abbiamo detto all'inizio del presente lavoro, ha raggiunto un risultato condivisibile nel tenere fermo l'accordo delle parti, e ha correttamente criticato la decisione del giudice istruttore di non rimettere il procedimento al collegio per la sua definizione e di proseguire con l'istruttoria, ma a nostro modo di vedere ha assunto una decisione non condivisibile laddove ha pronunciato la separazione personale delle parti alle condizioni dalle stesse concordate anziché la sua omologazione. La sentenza, a sostegno della propria decisione, richiama una giurisprudenza della Corte di cassazione (Cass. n. 18066/2014) emessa in materia di divorzio, secondo la quale “La sentenza resa a seguito di conclusioni comuni nell'ambito di un procedimento di divorzio originariamente contenzioso è assimilabile a quella intervenuta in un giudizio di divorzio congiunto;” e in ragione di ciò, ritenendo che le parti, con l'accordo verbalizzato in udienza, avessero formulato conclusioni conformi, ha ritenuto di poter decidere sulla base di esse. Così facendo la sentenza ha realizzato la separazione personale delle parti come se si fosse trattato di un divorzio congiunto, pronunciando la separazione alle condizioni dalle stesse concordate. Tale modo di procedere, tuttavia, non rispetta il dettato normativo in materia di separazione consensuale. Il divorzio congiunto, infatti, si pronuncia con sentenza perché a realizzarlo non è la volontà delle parti ma il ricorrere dei presupposti previsti tassativamente dalla legge, in primis l'avvenuta separazione delle parti e il passaggio dei termini di legge, che devono essere accertati dal tribunale. In altre parole, il divorzio presuppone sempre un giudizio di accertamento e una pronuncia del giudice, essendo sottratto alla volontà delle parti (o almeno questo era il sistema prima che il legislatore si inventasse, senza opportuna riflessione, la negoziazione assistita, che in tema di divorzio stride in tutta evidenza con i principi posti dalla legge sul divorzio). Ben diversa, invece, è la separazione consensuale, che come abbiamo visto sopra si realizza con il mero consenso delle parti, ferma restando la necessità di sua omologazione. Nel caso deciso dalla sentenza in commento, pertanto, il giudice istruttore, una volta ricevuto l'accordo nel verbale di causa, non avrebbe dovuto invitare le parti a precisare le conclusioni e men che meno avrebbe dovuto rinviare la causa per “prosieguo conclusioni”, con ciò pronunciando un provvedimento che non esiste nell'ordinamento (e sul punto ha ragione il collegio nell'esprimere fermamente il proprio dissenso). Poiché al contrario avrebbe dovuto dichiarare conclusa la fase istruttoria del giudizio per cessazione della materia del contendere e, previa trasformazione del rito, avrebbe dovuto rimettere l'accordo al collegio per la sua omologazione. Quanto al collegio, invece, anziché pronunciare la separazione con sentenza avrebbe dovuto emettere un decreto di omologazione della separazione consensuale decisa dalle parti, una volta accertata la legittimità e la idoneità per la prole delle condizioni ad essa accessorie. Manca, inoltre, nella sentenza in commento, una riflessione in merito alla possibilità per le parti di interdire la separazione consensuale sino alla omologazione, nonostante tale questione sia stata oggetto di analisi da parte della giurisprudenza. La sentenza, infatti, affronta la questione dalla prospettiva, non richiamabile, della disciplina del contratto, mentre essa è prettamente di diritto di famiglia, per la parte sostanziale della questione, e di diritto processuale, per la parte in rito. Sul punto si richiamano, nel senso di consentire la revoca del consenso sino a che non sia avvenuta l'omologazione della separazione: Trib.Torino, 6 novembre 2000; App. Reggio Calabria, 2 marzo 2006; e, da ultimo, una ordinanza della Corte di Cassazione, Cass. n. 19540 24 luglio 2018, la quale sembra ritenere che la revoca del consenso di uno dei coniugi prima della omologazione ne impedisca il perfezionamento (l'ordinanza riguarda tuttavia un caso di divorzio e il richiamo alla separazione è di mero passaggio, senza alcun approfondimento); mentre in senso contrario alla possibilità di revocare il consenso, una volta sottoscritto il verbale, si richiamano i principi espressi dalla già citata sentenza della Corte di Cassazione, Cass. n. 17607/2003. In conclusione sul punto, a nostro avviso la questione della revocabilità del consenso è rilevante e la soluzione corretta è quella indicata dalla Suprema Corte nella sentenza da ultimo citata (ancorché indirettamente non essendo il focus della decisione), nel senso che: a) l'art. 711 c.p.c. prevede chiaramente che il consenso alla separazione deve essere espresso a verbale in udienza, non bastando quello riportato nel ricorso, che peraltro potrebbe anche non essere sottoscritto dalle parti; b) tuttavia, una volta che l'accordo è rimesso al collegio per la omologazione, il consenso delle parti non dovrebbe più potere essere revocato. Ciò in quanto, come correttamente rilevato dalla Suprema corte, «l'atto di omologazione non è legato da un rapporto diretto ed immediato con il negozio di separazione, non investendo l'accordo in sé e non svolgendo una funzione sostitutiva o integrativa della volontà delle parti: in quanto diretto a controllare, come innanzi rilevato, la validità dell'"iter" processuale, a tutelare l'interesse dei figli minori ed a verificare il rispetto delle norme di ordine pubblico, esso non governa l'autonomia dei coniugi e non si confonde, ma si combina in maniera estrinseca con la loro volontà, fissata nell'accordo da omologare». Riferimenti
Paola Silvia Colombo, In sede di separazione consensuale sino a quando è possibile revocare unilateralmente il consenso?, in IlFamiliarista, Giuffrè, 2019.
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