La responsabilità civile del genitore per l'illecito del minore capace e incapace

28 Luglio 2021

Il Focus è una sintesi delle questioni poste dalla responsabilità civile dei genitori per gli illeciti dei figli minori, articolata con riguardo a quelle relative ai figli incapaci di intendere e volere (art. 2047 c.c.) ed a quelle inerenti ai figli che, invece, abbiano acquisito tale capacità (art. 2048 c.c.). In particolare si affrontano le problematiche della prova richiesta al danneggiato e quella della prova liberatoria prescritta ai genitori in entrambi i casi. Con uno sguardo ai temi maggiormente controversi e, specialmente, a quello inerente alla giurisprudenza formatasi in materia di prova liberatoria del minore capace.
Alternatività della responsabilità per danni dell'incapace e responsabilità dei genitori

Il padre e la madre di un figlio minore possono essere chiamati a rispondere civilmente dei danni causati dall'illecito di questi per due diversi titoli, e cioè propriamente quali genitori, ex art. 2048 c.c., oppure in quanto obbligati alla sorveglianza di un incapace, ex art. 2047 c.c..

Si tratta di due forme di responsabilità alternative.

Per comprendere la ratio di questa distinzione, per un verso, è sufficiente por mente a quanto dispone l'art. 2046 c.c., secondo il quale “non risponde delle conseguenze dal fatto dannoso chi non aveva la capacità d'intendere o di volere al momento in cui lo ha commesso, a meno che lo stato d'incapacità derivi da sua colpa”.

E, per altro verso, osservare che un minore, pur incapace di agire (come prevede l'art. 2 c.c.), può tuttavia aver acquisito la “capacità naturale” ovverosia quella d'intendere e di volere (Cass. civ. n. 11191/2012).

Quindi, a seconda che il minore sia o meno capace di intendere e volere, i suoi genitori potranno rispondere del suo illecito, nel primo caso ai sensi della regola dettata dall'art. 2048 c.c. ovvero, nell'altro, di quella espressa dall'art. 2047 c.c..

Fonte: RIDARE

La responsabilità del minore e quella del minore incapace

Tuttavia, dal disposto dell'art. 2046 c.c. si ricava, seppur indirettamente, un'altra conseguenza.

E cioè che l'illecito civile del minore capace di intendere e di volere può essere imputato anzitutto a lui stesso, che ne risponderà in proprio, salvo il fatto che alla sua responsabilità civile, ove ne ricorrano i presupposti, potrà aggiungersi quella del padre e/o della madre.

Detto in altri termini, la minore età, di per sé sola, non esonera i figli dalla responsabilità civile, potendo questa essere esclusa solo dalla loro incapacità di intendere e di volere, come stabilito, in termini generali, dall'art. 2046 c.c..

Solo il minore incapace è civilmente irresponsabile.

Non così quello che è, invece, divenuto capace d'intendere e volere.

Caratteristiche del tutto peculiari presenta poi la disciplina dei fatti illeciti cagionati da un minore d'età. In particolare, in base al sistema delineato dagli artt. 2046, 2047 e 2048 c.c. la minore età, di per sé, non esclude l'imputabilità dell'autore del danno, né l'obbligo di costui al risarcimento — a meno che l'autore del torto, al momento in cui commetteva il fatto, non versasse in uno stato di incapacità naturale” (Venchiarutti, Incapaci, in Dig. Disc. Priv., sez. civ., Torino, 1993).

Pertanto, quando il figlio autore dell'illecito sia capace d'intendere e volere, la “responsabilità dei genitori… ex art. 2048 cit. viene a concorrere con la responsabilità del minore” (Cass. civ. n. 8740/2001).

Si badi, però, che pure il minore incapace può esser chiamato a rispondere civilmente del proprio illecito, nel caso previsto dal secondo comma dell'art. 2047 c.c..

E cioè quando “il danneggiato non abbia potuto ottenere il risarcimento da chi è tenuto alla sorveglianza”, e cioè dai genitori (o da chi altri fosse tenuto a sorvegliarlo), vuoi perché costoro abbiano offerto la prova liberatoria di cui all'art. 2047 c.c., vuoi perché, pur essendo stati condannati al risarcimento, siano insolventi.

In tal caso l'anzidetta disposizione prevede una deroga alla regola dell'irresponsabilità dell'incapace dettata dall'art. 2046 c.c., stabilendo che “il giudice, in considerazione delle condizioni economiche delle parti, può condannare l'autore del danno a una equa indennità”.

Si tratta di una forma di responsabilità oggettiva (stante l'inimputabilità dell'incapace), di natura sussidiaria rispetto a quella delle persone obbligate a sorvegliarlo, prevista con finalità di solidarietà sociale, che può dar luogo alla condanna ad un'indennità equitativamente determinata (e non al risarcimento del danno) del minore incapace e che, attesa tale sua natura, “dipende, sia nell'"an" sia nel "quantum", da una valutazione comparativa delle condizioni economiche delle parti” (Trib. Macerata, 20/05/1986, in Resp. civ. e prev. 1987, 107).

Ne consegue, fra l'altro, che la domanda proposta per ottenere la condanna del minore incapace al pagamento di tale indennità, ai sensi del secondo comma dell'art. 2047 c.c., non può ritenersi implicita in quella promossa nei confronti dei genitori, ai sensi del primo comma (Trib. Roma, 28.5.1987, in Riv. giur. circ. trasp. 1988, 635); e che tale domanda “non può essere proposta in difetto del previo esperimento dell'azione regolata dal 2047, comma 1, c.c.”, in quanto presuppone che “sia rimasta senza esito la domanda volta ad ottenere il risarcimento diretta nei confronti di chi era tenuto alla sorveglianza dell'incapace” (Trib. Orvieto, 22/02/2001, in Rass. Giur. umbra 2001, 38).

La responsabilità del genitore del minore incapace (ex art. 2047 c.c.)

Il genitore del minore incapace è obbligato, per il solo fatto della filiazione (sia essa legittima adottiva o naturale, stante il disposto dell'art. 315 c.c.), ad esercitare su di lui la dovuta sorveglianza, non in quanto questi sia minore di età, bensì in ragione della sua incapacità e della sua conseguente irresponsabilità per gli illeciti che abbia a commettere.

L'incapacità del minore può essere dovuta all'immaturità propria dell'età, ma anche a malattia (psichica o fisica).

Diversamente da quel che ha ipotizzato una dottrina minoritaria (Scognamiglio, Responsabilità per fatto altrui, in Noviss. Digest. It., XV, Torino, 1968, 693), non si tratta di una specie di responsabilità per fatto altrui, bensì per fatto proprio.

Il sorvegliante non risponde, infatti, dell'illecito del sorvegliato, bensì della propria condotta, e cioè per non aver adempiuto al proprio obbligo di sorveglianza (Comporti, Fatti illeciti: le responsabilità presunte, in Comm. Cod. civ. diretto da Schlesinger, sub artt. 2044-2048, Milano, 2002, 168).

La sua responsabilità si fonda su due presupposti: quello positivo, rappresentato dall'illecito del minore incapace, e quello negativo costituito dal non averlo impedito.

Il genitore può delegare ad altri la sorveglianza sul minore incapace, ma la prova dell'affidamento del minore all'altrui sorveglianza dev'essere particolarmente rigorosa, e non può tradursi in argomentazioni meramente congetturali (Cass. civ. n. 1148/2005).

Tale trasferimento della responsabilità del genitore dell'incapace può avvenire a titolo contrattuale (ad esempio, in favore di insegnanti o precettori), ma anche de facto, per effetto di una “scelta liberamente compiuta” da un familiare, da un convivente more uxorio o da un'altra persona che, “accogliendo l'incapace nella sua sfera personale o familiare, assuma spontaneamente il compito di prevenire od impedire che il suo comportamento possa arrecare nocumento ad altri” (Cass. Civ. n. 3142/1981).

Ai fini della responsabilità per fatto illecito del minore incapace, il danneggiato è onerato della prova dell'incapacità del minore (Cass. civ. n. 16661/2017), mentre al genitore (o a colui cui sia stato da questi trasferito l'obbligo di sorveglianza) incombe l'onere di provare “di non aver potuto impedire il fatto”.

Per aversi incapacità di intendere e di volere tale da determinare l'inimputabilità, è necessario che essa sia di tale intensità da impedire al minore di valutare l'importanza dei suoi atti e di formare una propria cosciente volontà (Marco Comporti, op. cit., 178).

Si tratta di un accertamento di fatto di competenza del giudice del merito, da farsi caso per caso, ed incensurabile in sede di legittimità (Cass. civ. n. 565/1985).

A tal fine la giurisprudenza non ritiene indispensabile “che il giudice svolga indagini tecniche di carattere psicologico”, ben potendo ricorrere anche alla prova presuntiva (Cass. civ. n. 23464/2010), della quale, in effetti, si fa largo uso nella prassi forense, ovvero a nozioni di comune esperienza.

Il ragionamento inferenziale tipico di tal genere di prova si fonda sulle “modalità del fatto” e sull'”età del minore, per trarne “una conclusione in un senso o nell'altro” (Cass. civ. n. 23464/2010 citata, che ha ritenuto l'incapacità di un bimbo di dieci anni per aver colpito un compagno con la cartella, fratturandogli alcune vertebre).

Precedenti più lontani avevano valorizzato pure il “tipo di studi frequentati” dal minore (Cass. civ. n. 565/1985 citata).

Per quanto, evidentemente, l'età giochi un ruolo molto importante ai fini di tale valutazione (potendosi cogliere una tendenza dei giudici di merito a ritenere l'incapacità dei minori di più tenera età e, per converso, la capacità di quelli più prossimi all'età maggiore), non sono mancati moniti nel senso che “il giudice non può limitarsi a tenere presente l'età dell'autore del fatto, ancorché si tratti di minore degli anni quattordici”, dovendosi considerare pure “lo sviluppo intellettivo, quello fisico, l'assenza di eventuali malattie ritardanti, la forza del carattere, la capacità del minore di rendersi conto della illiceità della sua azione e la capacità del volere con riferimento all'attitudine di autodeterminarsi” (Cass. civ. n. 8740/2001).

In proposito è bene ricordare che la prova presuntiva presuppone che “i fatti su cui essa si fonda siano stati allegati e possano ritenersi provati” (Cass. civ. n. 12248/2013), per cui il danneggiato che intenda valersene ha interesse ad allegare i fatti in questione e ad offrirne la prova.

Una volta provata l'incapacità del minore, come detto, competerà ai genitori di offrire la prova liberatoria, consistente nella dimostrazione di non aver potuto impedire il fatto del figlio.

Secondo la dottrina, questa consiste nella prova dell'impossibilità di impedire il fatto dovuta ad una causa non imputabile al genitore, similmente a quanto previsto dall'art. 1218 c.c. (Busnelli, Nuove Frontiere della responsabilità civile, in Jus, 1976, 68), e non anche in quella di aver impartito un'adeguata educazione al figlio (Visentini, Tratt. breve resp. civ., Padova, 1996).

In conformità a questa impostazione, i rari precedenti di legittimità in materia affermano che quella di cui all'art. 2047 c.c. è un'ipotesi di responsabilità presunta e che l'onere imposto al sorvegliante può essere assolto offrendo la “prova di non avere potuto impedire il fatto malgrado il diligente esercizio della sorveglianza impiegata” (Cass. civ. n. 12965/2005), per cui l'incapace deve aver causato il danno nonostante la sorveglianza del genitore, e non a motivo di un difetto di questa.

In alternativa, la prova liberatoria può riguardare l'oggettiva esistenza di un “legittimo impedimento” all'esercizio della dovuta sorveglianza, a condizione che l'obbligato non potesse farsi sostituire da altri (Cass. civ. nn. 5122/1979, 2460/1976, 1008/1970).

La sorveglianza non deve limitarsi alla persona del minore, ma deve riguardare anche l'ambiente in cui questi agisce, in modo da prevenire o eliminare eventuali fattori di rischio derivanti dalla sua interazione con l'ambiente stesso.

Ma il genitore può liberarsi pure provando l'insussistenza del nesso di causalità materiale tra la propria omissione ed il fatto del figlio incapace, e cioè dimostrando che il “fatto si sarebbe comunque verificato anche se la sorveglianza fosse stata esercitata” (Cass. civ. n. 5485/1997)

Precisare il limite fino al quale si estende l'obbligo di sorveglianza non è sempre facile.

In uno dei suddetti precedenti, la Suprema Corte ha, invero, affermato che “l'ampiezza dell'obbligo di sorveglianza dei soggetti incapaci di intendere o volere (art. 2047 c.c.) è da rapportare alle circostanze di tempo, luogo, ambiente, pericolo, che, considerando altresì la natura e il grado di incapacità del soggetto sorvegliato, possono consentire o facilitare il compimento di atti lesivi da parte del medesimo” (Cass. civ. n. 4633/1997).

Tuttavia, la Cassazione ha altresì precisato che “le abitudini sociali non valgono ad escludere o a mitigare l'obbligo di sorveglianza in relazione al carattere cogente dello stesso, per cui la sorveglianza deve essere esercitata, quali che siano tali abitudini, ed il mancato esercizio genera responsabilità per i fatti dannosi dell'incapace” (Cass. civ. n. 5485/1997).

L'accertamento dell'incolpevolezza dei genitori in sede penale “non comporta il superamento della presunzione di colpa su di essi gravante ai sensi dell'art. 2047 c.c., né costituisce prova del caso fortuito” (Cass. civ. n. 19060/2003), stanti i diversi principi che reggono il processo penale, nel quale la responsabilità dell'imputato dev'essere dimostrata al di là di ogni ragionevole dubbio, e quello civile, che non solo ammette la prova presuntiva, ma può esser altresì definito sulla base di una responsabilità legalmente presunta non superata dalla correlativa prova liberatoria.

La responsabilità del minore capace (ex art. 2048 c.c.)

Se la responsabilità del genitore del minore incapace è quella tipica del “sorvegliante”, quella propria del genitore del minore capace, disciplinata dall'art. 2048 c.c. , è (pure) quella dell'”educatore”.

Questa distinzione è stata sottolineata dalla Cassazione, osservando che “secondo la giurisprudenza di questa Corte (cfr. sent. 4.10.1979, n. 5122; 10.4.1970, n. 1008), se il minore è incapace di intendere e di volere, i genitori, con i quali coabita, sono responsabili del fatto dannoso da lui commesso a norma dell'art. 2047 c.c., quali persone tenute alla sorveglianza, mentre se il minore è capace di intendere e di volere, i genitori rispondono a norma dell'art. 2048 c.c., non solo quali sorveglianti, ma anche come educatori” (Cass. civ. n. 5485/1997).

Secondo l'art. 2048 c.c. il padre e la madre… sono responsabili del danno cagionato dal fatto illecito dei figli minori non emancipati o delle persone soggette alla tutela, che abitano con essi” (primo comma), così come lo sono “i precettori e coloro che insegnano un mestiere o un'arte” per gli illeciti compiuti dai minori “nel tempo in cui sono sotto la loro vigilanza” (secondo comma), fermo che tutti costoro possono liberarsi “dalla responsabilità soltanto se provano di non aver potuto impedire il fatto” (terzo comma).

In questa diversa ipotesi, quindi, i presupposti della responsabilità del genitore sono l'illecito del minore, la coabitazione di questi, il non averne impedito il fatto illecito.

Sotto quest'ultimo aspetto, la dottrina maggioritaria ha precisato che si tratta di un'altra ipotesi di responsabilità presunta, sotto il duplice profilo della culpa in vigilando e di quella in educando del genitore (Bianca, Diritto civile, V, La responsabilità, Milano, 2002, 697).

La norma subordina la responsabilità prevista dall'art. 2048 c.c. al requisito della coabitazione perché “solo la convivenza può consentire l'adozione di quelle attività di sorveglianza e di educazione, il cui mancato assolvimento giustifica la responsabilità medesima” (Cass. civ. nn. 11198/2019, 2197/1979).

Tradizionalmente la dottrina ritiene che la coabitazione rinvii al concetto di convivenza, intesa come stabile “consuetudine di vita” (Franzoni, L'illecito, in Tratt. resp. civ., 2010, 363), ed equivalgaalla nozione della residenza, configurandosi come dimora abituale”, destinata a non venir meno “nei momenti in cui il genitore o il minore soggiornino altrove in via temporanea” (Comporti, op. cit., 224).

Pertanto, essa non è esclusa da un'assenza temporanea del minore dalla residenza familiare, anche se prolungata, e quand'anche dovuta a motivi di svago, di studio o di lavoro (in giurisprudenza: Cass. civ. n. 7050/2008; in dottrina: Mantovani, Responsabilità dei genitori, dei tutori, dei precettori e dei maestri, in La resp. civ. diretto da Alpa e Bessone, II, 1, in Giur. Sist. Bigiavi, Torino, 1987, 17; Rovelli, Responsabilità del padre, della madre, del tutore e dell'affiliante per il danno cagionato dal fatto illecito dei figli minori, delle persone soggette a tutela e degli affiliati, in Arch. resp. civ. 1958, 229).

Se il figlio coabitante compie un illecito in occasione di una gita scolastica, di un soggiorno di studio, di una vacanza presso o con amici e parenti ed altri simili, ed anche se questi sia stato affidato all'altrui vigilanza, quindi, il genitore ne risponderà egualmente ex art. 2048, proprio perché la responsabilità prevista dalla norma è fondata non già solo sull'obbligo di vigilanza, ma pure sul dovere di educare del minore.

L'allontanamento definitivo e volontario del minore dalla residenza familiare che non sia imputabile ai genitori, facendo cessare la coabitazione, pur non esimendo i genitori dal dovere di adoperarsi in ogni modo per ripristinarla, determina il venir meno dalla responsabilità civile ex art. 2048 c.c. (in giurisprudenza: Cass. civ. n. 3491/1978; in dottrina: Comporti, op. cit., 229; Bianca, op. cit., 698).

Proprio il fatto della coabitazione assume particolare rilevanza soprattutto nel caso di genitori separati o divorziati o naturali non conviventi.

L'unico precedente di legittimità in materia (Cass. civ. 11198/2019) ha confermato la decisione che aveva escluso la responsabilità di una madre separata, in quanto non convivente col figlio.

Ma la giurisprudenza di merito non è univoca.

Accanto a decisioni che escludono la responsabilità del “genitore separato che non coabita con il figlio minore” (Trib. Milano, 22/09/2008, n. 11137, in Giustizia a Milano 2008, 9, 61; nello stesso senso: Tribunale Latina sez. II, 11/09/2020, n.1657, in Banca dati De Jure, nel caso di un padre divorziato), ve ne sono altre per cui “la mancanza di coabitazione tra uno dei genitori ed il figlio minore infradiciottenne a seguito di separazione giudiziale e di affidamento della prole all'altro genitore, non esonera il primo per i fatti illeciti commessi dal minore, specialmente quando si tratti di colpa per carenza di educazione ed egli abbia intrattenuto rapporti costanti con il discendente” (Trib. Milano, sez. X, 16/12/2009, in Resp. civ. e prev. 2010, 7-8, 1600; nello stesso senso: Trib. Monza, Sez. IV, 12/06/2006, in Banca dati Onelegale).

Anche la dottrina è divisa tra chi valorizza il fatto che, con la separazione o il divorzio, cessa la coabitazione col genitore non affidatario o collocatario e, quindi, la sua responsabilità (Comporti, op. cit., 227, Morozzo Della Rocca, La responsabilità civile dei genitori, tutori e maestri, in La resp. civ. a cura di Cendon, Torino, 1998, 64) e chi, invece, seppur entro certi limiti, ritiene che questa sopravviva al venir meno della coabitazione vera e propria, in ragione delle prerogative attribuite al coniuge non affidatario nei rapporti con i figli ed ai fini della loro educazione (Franzoni, op. cit., 359; S. Patti, Famiglia e responsabilità civile, Milano, 1984, 278).

L'importanza del fenomeno delle coppie genitoriali dissociate imporrebbe forse alla dottrina ed alla giurisprudenza un più approfondito esame della nozione di “coabitazione” in relazione alla (assai variegata) tipologia di situazioni concrete che connotano le relazioni dei figli minori con i genitori non affidatari o collocatari, nonché con quelli naturali non conviventi. A partire però da un dato imprescindibile, e cioè il fatto che la responsabilità di cui all'art. 2048 c.c. presuppone la coabitazione, intesa come stabile consuetudine di vita, la cui effettività non può essere supplita da alcuna costruzione interpretativa.

Con riguardo al convivente del genitore o al suo nuovo coniuge la dottrina prevalente ne esclude la responsabilità sulla base della tassatività dell'elencazione contenuta nel primo comma dell'art. 2048 c.c. , in quanto norma eccezionale. Tuttavia, qualche Autore, facendo leva sui mutamenti del costume sociale, per cui costoro non di rado assumono in concreto il ruolo di genitore di figli altrui, specie se in tenera età, suggerisce di estendere anche a loro tale forma di responsabilità, sulla base della stabilità della convivenza more uxorio o del nuovo rapporto di coniugio e dell'assunzione volontaria degli obblighi di mantenimento ed educazione (Morozzo della Rocca, Responsabilità civile e minore età, Napoli, 1994, 71).

Pure sull'onere della prova della coabitazione fra genitore e figlio minore si è discusso in dottrina (non constando precedenti giurisprudenziali in merito) e si è osservato che, trattandosi di un fatto costitutivo del diritto del danneggiato nei confronti del genitore, in proposito, l'onere della prova grava sul danneggiato stesso, ex art. 2697 c.c. (Comporti, op. cit., 225; contra: Rovelli, Responsabilità civile da fatto illecito, Torino, 1964, 239). Assunto questo che potrebbe essere temperato da quello per cui, nel costume sociale delle famiglie italiane, la coabitazione di genitori e figli minori è la regola, nozione di comune esperienza questa che potrebbe fondare una prova presuntiva al riguardo.

Non risultano precedenti giurisprudenziali editi in materia, ciò che induce a credere che nelle controversie di tal genere la coabitazione ordinariamente rappresenti un fatto incontroverso.

Al danneggiato non è richiesta la prova della capacità del minore, ma potrebbero essere i suoi genitori a voler provare la sua incapacità, sia nell'interesse del minore stesso (stante l'inimputabilità dell'incapace stabilita dall'art. 2046 c.c.), sia nel proprio (atteso il meno rigoroso contenuto della prova liberatoria che la giurisprudenza attribuisce a quella contemplata dall'art. 2047 c.c.).

Di recente la giurisprudenza si è occupata pure del tema della sempre più precoce emancipazione dei minori, che induce ad abbassare la soglia dell'età in cui acquistano la capacità d'intendere e di volere (anche se, come si visto, questo non è il solo parametro da valutare a tal fine).

Ciò per affermare che “la precoce emancipazione dei minori frutto del costume sociale non esclude né attenua la responsabilità che l'art. 2048 cod. civ. pone a carico dei genitori, i quali, proprio in ragione di tale precoce emancipazione, hanno l'onere di impartire ai figli l'educazione necessaria per non recare danni a terzi nella loro vita di relazione, dovendo rispondere delle carenze educative a cui l'illecito commesso dal figlio sia riconducibile (riconosciuta, nella specie, la responsabilità dei genitori di un bambino di 7 anni che aveva investito con la bicicletta un bimbo di 4 anni)” (Cass. civ. n. 24907/2019).

Assunto questo condivisibile in astratto, ma di dubbia applicabilità ad un minore di soli 7 anni, il cui grado di maturità psico-sociale non pare tale da consentirgli una piena capacità d'intendere e volere.

Pure il tema dei cosiddetti “grandi minori”, e cioè quelli più prossimi all'età maggiore, per il quale altri ordinamenti prevedono una regola di responsabilità dei genitori differenziata da quella vigente per gli altri minori, si è affacciato nel panorama giurisprudenziale italiano, divenendo occasione per confermare quella lettura rigoristica della responsabilità genitoriale che ne rappresenta una costante.

Una decisione di legittimità ha, invero, addebitato ai “genitori di un "grande minore" un'“inescusabile, grave negligenza” per aver ignorato “i problemi psicologici ed esistenziali ed i non lievi pericoli che affligg[eva]no il figlio (di 17 anni e mezzo all'epoca dei fatti) anche a causa di un contesto socioambientale torbido e gravido di non lievi pregiudizi d'ordine morale e sociale”, lasciando “il "grande minore"… solo con sé stesso, in balìa di ricatti e di dicerie e maldicenze profondamente offensive, nonché allarmato da gravi ed irreparabili pericoli, e non adeguatamente assistito e sorretto”, così reagendo “alle infamanti dicerie e maldicenze ed ai ricatti ed alle minacce di un altro giovane, uccidendolo”.

In tal caso si è affermato che “la responsabilità civile dei genitori ex art. 2048 c.c. è certa e piena”, poiché “la gravità del reato commesso attesta la responsabilità dei genitori, che va ravvisata non in un difetto di vigilanza, data l'età del figlio, ma nell'inadempimento dei doveri di educazione e di formazione della personalità del "grande minore", in termini tali da non consentire l'equilibrato sviluppo psicoemotivo, la capacità di dominare gli istinti, il rispetto degli altri, fattori, tutti, nei quali si estrinseca la maturità personale”, non valendo in senso contrario “le provocazioni poste in essere dalla vittima”, perché attinenti “all'elemento soggettivo del reato, per cui, se attenuano la gravità del fatto, sono però irrilevanti in ordine all'accertamento del nesso causale fra l'illecito ed il danno ed all'entità del pregiudizio arrecato” (Cass. civ. n. 18804/2009).

Di fondamentale importanza è, poi, l'osservazione per cui, come si è anticipato, la responsabilità del genitore ex art. 2048 c.c. non esclude, ma, anzi, si aggiunge sempre a quella del minore.

Non va, infatti, dimenticato che l'illecito del minore gli è imputabile, proprio perché questi è capace e deve, quindi, risponderne in prima persona.

Ciò non esclude che, se convenuto, non avendo la capacità di stare in giudizio, egli debba farlo, ex art. 76 c.p.c., in persona dei suoi rappresentanti legali, e cioè dei genitori che esercitano la relativa responsabilità.

L'incapacità processuale di tutti i minori, quindi, non va confusa con l'inimputabilità ai fini della responsabilità civile che l'art. 2046 c.c. prevede, invece, solo per quelli che non hanno ancora maturato la capacità d'intendere e di volere.

Il minore capace è imputabile e, quindi, può esser chiamato a rispondere del fatto illecito compiuto, ex art. 2043 c.c., anche se per convenirlo a giudizio il danneggiato deve citare i suoi genitori, in quanto suoi rappresentanti legali.

Con il corollario che, in conseguenza, i genitori possono essere citati in giudizio per l'illecito del figlio minore in proprio, per la responsabilità che loro compete ex art. 2048 c.c. , ed anche quali rappresentanti del figlio, in quanto responsabile ex art. 2043 c.c..

In sostanza, quella del genitore del minore capace è sempre una responsabilità solidale, poiché concorre con quella del figlio.

E può concorrere pure con quella dei precettori e dei maestri (insegnanti, educatori, allenatori, formatori professionali…), per gli illeciti che il minore abbia a compiere mentre è affidato alla loro vigilanza. In tal caso, costoro rispondono per culpa in vigilando ed i genitori per culpa in educando.

La responsabilità dei genitori per il fatto illecito dei figli minori ai sensi dell'art. 2048 c.c. può concorrere con quella degli stessi minori fondata sull'art. 2043 c.c. se capaci di intendere e di volere. Del pari, il vincolo di solidarietà sussiste anche tra la responsabilità dei genitori da un lato e quella dei precettori dall'altro, fondate rispettivamente sulla culpa in educando e sulla culpa in vigilando, quando sia stata accertata una inadeguata educazione del minore alla vita di relazione” (Cass. civ. n. 8263/1996).

Tale solidarietà però non dà luogo ad un litisconsorzio necessario, ma meramente facoltativo (Cass. civ. n. 5268/1996), per cui il danneggiato che intenda convenire i genitori ex art. 2048 c.c. non è obbligato a convenire anche il minore (Cass. civ. n. 5268/1996) e/o i suoi precettori o maestri.

Il danneggiato che agisce contro i genitori sul fondamento dell'art. 2048 c.c. è onerato solo della prova dell'illecito del minore, del danno subito e del relativo nesso di causa (Corte appello Lecce, sez. I, 09/04/2018, n. 393, in Guida al diritto 2018, 31, 30), salvo quanto s'è poc'anzi osservato, quanto alla coabitazione del minore con i genitori stessi.

In particolare, l'accertamento del fatto illecito addebitabile al minore capace costituisce un presupposto indefettibile della responsabilità del genitore (Di Ciommo, Figli, discepoli e discoli in una giurisprudenza “bacchettona”?, in Danno e rep. 2001, 262), ed anche nel caso in cui tale accertamento avvenga in virtù di una presunzione, come quella di cui all'art. 2054, secondo comma c.c. (Cass. civ. n. 6686/1988).

La prova liberatoria prevista dall'art. 2048 c.c. e la natura giuridica della responsabilità civile dei genitori

Quanto alla prova liberatoria richiesta ai genitori, questa parrebbe quella stessa prevista dall'art. 2047 c.c., consistendo nella dimostrazione “di non aver potuto impedire il fatto” illecito del minore.

Ma il suo contenuto è stato ben diversamente definito da una risalente tradizione giurisprudenziale che non lo limita alla prova di aver diligentemente vigilato sul minore, ma lo estende alla “prova positiva di aver impartito al figlio una adeguata ed efficiente educazione, in relazione al fatto illecito specifico, atta ad escludere la "culpa in educando" (Cass. civ. n. 9556/2009).

Anziché un contenuto negativo, così come delineato dall'art. 2048 c.c. , detta prova, quindi, assume un (duplice) contenuto positivo.

Tale orientamento si basa sull'idea che la responsabilità dei genitori del minore capace tragga fondamento dall'inadempimento dei loro inderogabili doveri educativi, che derivano dal disposto degli artt. 30 e 31 Cost. e degli artt. 147 e 315 c.c., poiché si ritiene che tali doveri siano stabiliti non solo nell'interesse dei figli, ma anche a tutela dei terzi (Bianca, op. cit, 693).

Ai fini della prova liberatoria, i due profili di responsabilità genitoriale succitati sono strettamente interconnessi, poiché la prova di aver correttamente educato il proprio figliolo, anche con riguardo alle relazioni sociali extrafamiliari, esonera il genitore dall'esercizio di una vigilanza continua ed assidua su di lui.

Non occorre che il genitore provi la sua costante ed ininterrotta presenza fisica accanto al figlio quando, per l'educazione impartita, per l'età del figlio e per l'ambiente in cui egli viene lasciato libero di muoversi, risultino correttamente impostati i rapporti del minore con l'ambiente extrafamiliare, facendo ragionevolmente presumere che tali rapporti non possano mai costituire fonte di pericoli per sé e per i terzi” (Cass. civ. n. 3088/1997).

Ai genitori, dunque, si chiede di aver esercitato un'“adeguata attività formativa, impartendo ai figli l'educazione al rispetto delle regole della civile coesistenza, nei rapporti con il prossimo e nello svolgimento delle attività extrafamiliari” (Cass. civ. n. 3963/2014), con riguardo alle regole di comportamento “vigenti nei diversi ambiti del contesto sociale in cui il soggetto si trovi ad operare” (Cass. civ. n. 26200/2011).

L'educazione dev'essere “personalizzata ed efficace” e, come pure la vigilanza, può ritenersi “adeguata” solo se impartita “in conformità alle condizioni sociali, familiari, all'età, al carattere e all'indole del minore” (Cass. civ. n. 26200/2011), in modo da rispondere alle necessità educative del singolo, assunto questo tanto più attuale alla luce della formulazione dell'art. 312 bis c.c. introdotto dalla legge n. 219/2012.

Una decisione della Suprema Corte (Cass. civ. n. 4481/2001) ha distinto la “vigilanza” da esercitare sul minore capace (ai fini dell'art. 2048 c.c. ), in quanto diretta a controllare il “corretto apprendimento dell'educazione impartita”, assegnandole una funzione ancillare rispetto a quest'ultima, dalla “sorveglianza” da esplicare nei confronti del minore incapace (ai fini dell'art. 2047 c.c.), secondo un'interpretazione prospettata anche in dottrina (S. Patti, Responsabilità dei genitori: una sentenza in linea con l'evoluzione europea, in Familia, 2001, 1171).

In proposito occorre, tuttavia, segnalare che la disamina della giurisprudenza di legittimità denota una netta dicotomia in ragione della natura e delle modalità del fatto illecito compiuto dal minore.

Per gli illeciti ritenuti di maggiore gravità, generalmente quelli che si traducono in un'aggressione fisica o morale, connotati quindi da una condotta dolosa del minore, la prova liberatoria richiesta è praticamente impossibile, a differenza di quel che a volte (ma non sempre) avviene per quelli ritenuti di minore gravità, per lo più di natura colposa; al punto da indurre i commentatori a sostenere che, con riguardo alla prima ipotesi, la severità di giudizio delle Corti fa trasmodare la natura stessa della responsabilità genitoriale da presuntiva (e per fatto proprio) ad oggettiva (e per fatto altrui) (Franzoni, op. cit., 370; Rossi Carleo, La responsabilità dei genitori ex art. 2048 c.c. , in Riv. Dir. Civ. 1979, II, 125).

Tale risultato è prodotto dal particolare apprezzamento compiuto dal Giudicante, laddove questi ritenga che l'inadeguatezza dell'azione educativa dei genitori sia dimostrata “dalle modalità dello stesso fatto illecito, che ben possono rivelare il grado di maturità e di educazione del minore, conseguenti al mancato adempimento dei doveri incombenti sui genitori, ai sensi dell'art. 147 c.c. (fattispecie relativa all'azione intrapresa da un uomo che conveniva in giudizio i genitori di un minore… l'attore sosteneva di essere stato aggredito dal minore e di aver subito gravi lesioni all'occhio destro, adducendo… l'intervenuta pronuncia in sede penale di accertamento della responsabilità del minore per il reato di cui all'art. 582 c.p.)” (Cass. civ. n. 24475/2014).

Secondo questa giurisprudenza, quindi, re ipsa loquitur ovvero le “modalità del fatto” dimostrerebbero, di per sé sole, l'inadeguatezza dell'azione educativa dei genitori e, dunque, la loro responsabilità.

E, di fatto, non ammetterebbero prova contraria (per una critica in proposito, si veda DI Ciommo, op. cit., 266), poiché la Suprema Corte ha ripetutamente affermato l'irrilevanza della prova testimoniale capitolata dai genitori per dimostrare la propria attività educativa, con la motivazione che “i genitori non sono comunque liberati dalla presunzione di culpa di cui all'art. 2048 c.c., allorquando dimostrano di aver impartito al minore un'adeguata educazione essendo altresì, necessario che gli stessi abbiano vigilato sul grado di assimilazione degli insegnamenti da parte del figlio e sui risultati raggiunti” (Cass. civ. n. 12501/2000; nello stesso senso: n. 6741/1998); in tal modo configura i doveri educativi genitoriali come una sorta di obbligazione di risultato, ciò che essa ha negato con l'escogitazione dell'anzidetto, ulteriore obbligo di vigilare sui risultati ottenuti dall'educazione impartita. Attività quest'ultima che indubbiamente fa parte del processo educativo, ma la cui prova, proprio per questo motivo, dovrebbe reputarsi (logicamente e giuridicamente) compresa in quella relativa all'educazione impartita al minore, senza dimenticare che la suddetta “vigilanza” del genitore non può mai valicare il limite della coercizione o trasmodare nell'abuso dei mezzi di correzione.

Tanto più che una simile severità non sempre è parsa proporzionata al fatto illecito addebitato al minore, com'era nel caso della sentenza da ultimo citata, consistito nel “lancio di una gomma contro un altro alunno” avvenuto con “intento scherzoso”, nel quale non poteva certo ravvisarsi una particolare gravità né sotto il profilo soggettivo, né sotto quello oggettivo.

La Cassazione si è mostrata consapevole del particolare rigore derivante da una simile interpretazione, sostenendo però di ritenerlo “giustificato, considerato che esso, per un verso, ingenera il possibile interesse anche economico dei genitori ad impartire ai figli un'educazione che li induca a percepire il disvalore sociale dei comportamenti pericolosi per gli altri, mentre, per altro verso, è in sè idoneo a sollecitare la precauzione dei minori allo stesso fine, anche per il timore della possibile reazione dei genitori che fossero chiamati a rispondere delle conseguenze dei loro atti illeciti in danno dei terzi” (Cass. civ. n. 3964/2014), anche quando espresso in relazione a fatti illeciti di particolare gravità.

Tuttavia, l'orientamento in questione appare decisamente criticabile, anzitutto in diritto, poiché il fatto illecito del minore è imputabile esclusivamente a lui (in quanto capace di intendere e volere), e non anche ai suoi genitori, per cui non è possibile desumere esclusivamente dall'illecito del responsabile del danno l'inadempimento di un obbligo proprio di altri soggetti, di fatto così dando luogo ad un'ipotesi di responsabilità oggettiva (ovvero di responsabilità di status o “di posizione”) non prevista dalla legge.

La presunzione (di fatto insuperabile, e perciò equiparabile ad una presunzione juris et de jure) cui in tal modo si dà vita è palesemente fallace, perché anche un illecito particolarmente riprovevole del minore, di per sé solo, non esclude affatto che i genitori abbiano adempiuto ai loro doveri educativi.

E, quindi, essa sotto il velo del ricorso di una massima di esperienza cela null'altro che il paralogismo post hoc, ergo propter hoc (dopo di ciò, quindi a causa di ciò), come tale inammissibile ai fini probatori (Cass. civ. nn. 10038/2021, 5760/1999).

In tal modo si è trasformato l'”aver fatto il possibile per impedire il fatto” illecito del minore previsto dall'art. 2048 c.c. nel “non esser riusciti ad impedirlo”, come si è efficacemente osservato (Corsaro, Responsabilità civile, in Enc. Giur. Treccani, XXVI, Roma, 1987-1981, 19).

Secondariamente, in fatto, poiché il medesimo orientamento non tiene conto del consolidato (ed anzi crescente) pluralismo degli attori educativi (e, a volte, purtroppo, “diseducativi”) nel contesto sociale attuale, tale da assumere, specie in particolari situazioni familiari, non così infrequenti (ad esempio: quella di una madre single di uno o più figli dedita ad un'attività lavorativa a tempo pieno), un ruolo molto importante nella formazione del minore, anche con riguardo alle sue “attività extrafamiliari” che, per di più, specie in età adolescenziale, oggi si svolgono necessariamente al di fuori della concreta sfera di controllo dei genitori o di altri adulti che possano prestarsi ad una delega in tal senso. Realtà questa che ha trovato un preciso riscontro sul piano normativo nella nuova formulazione dell'art. 147 c.c., correlata al contenuto dell'art. 315-bis c.c., a seguito della riforma dettata dalla legge n. 219/2012, nella quale si è ravvisato il concreto “superamento del principio di autorità” (Pinto Borea, I doveri dei genitori verso i figli minori e la responsabilità ex art. 2048 c.c., in Dir. fam. 1992, 372).

Tale orientamento, quindi, risponde ad una visione arcaica ed inattuale della realtà sociale in cui il minore si forma ed interagisce con gli altri e finisce per privilegiare esclusivamente la tutela dei terzi, sacrificando totalmente l'interesse dei genitori, cui viene de facto attribuita una responsabilità oggettiva per fatto altrui che esula dal disposto dell'art. 2048 c.c. ovvero una sorta di garanzia legale verso i terzi per gli illeciti dei figli minori non prevista dalla legge, come osservato da alcuni autori (Bessone, Fatto illecito del minore e regime della responsabilità per mancata sorveglianza, in Dir. fam. e pers. 1982, 101).

Come detto, più liberale si dimostra a volte la giurisprudenza nei casi, per lo più connotati da una condotta colposa del minore, che vengono ritenuti di minor gravità, spesso inerenti alla sua partecipazione ad un gioco (Cass. civ. n. 3088/1997) o ad una pratica sportiva (Cass. civ. n. 3031/1986) ovvero in violazione colposa delle norme della circolazione stradale (Cass. civ. n. 4401/2001), quando per la prova liberatoria viene ritenuta sufficiente la dimostrazione di “aver fatto tutto il possibile ed ipotizzabile per educare adeguatamente il minore e prepararlo alla necessaria autonomia”.

Tuttavia, a questo proposito la giurisprudenza non è univoca perché la ben più severa regula juris del re ipsa loquitur torna ad essere applicata in modo capriccioso (come nel caso del “lancio della gomma”) o quando, ad esempio, il gioco viene ritenuto pericoloso, come nel caso che “i genitori, pur essendone a conoscenza, non avevano impedito che il figlio minore giocasse con un arco rudimentale, scagliando frecce, una delle quali aveva colpito altro minore presente in un cortile condominiale” (Cass. civ. n. 5957/1984), o il fatto del minore esuli dalle regole proprie del gioco praticato, ad esempio colpendo con una testata un avversario a gioco fermo e senza una precedente aggressione da parte di questi, durante una partita di calcio (Cass. civ. n. 26200/2011).

Ed anche in caso di illecito nella circolazione stradale, ogni qual volta la condotta del minore sia connotata da un'evidente volontarietà, come nel caso di quello che trasportava nel ciclomotore un amico privo di casco, il quale perdeva la vita a seguito di un incidente (Cass. civ. n. 9556/2009), o da una colpa particolarmente grave, ad esempio “attraversando la strada con il semaforo rosso” e così causando un incidente (Cass. civ. n. 3964/2014).

Tale soverchiante rigorismo giurisprudenziale ha dato luogo anche a decisioni contraddittorie, come quelle (segnalate da Chianale, In tema di responsabilità dei i genitori per i danni causati dai figli minori, in Giur. It. 1985, I, 1, 1532) della Suprema Corte che, a brevissima distanza di tempo l'una dall'altra, hanno risolto in modo opposto due questioni sostanzialmente analoghe.

La prima (Cass. civ. n. 5564/1984) aveva escluso la responsabilità dei genitori di un ragazzo decenne che, attardatosi per strada per giocare con una fionda, aveva ferito un bambino di cinque anni, poiché costoro avevano provato d'averlo cresciuto secondo i “principi educativi della ubbidienza, del dovere e della riflessione”, ed avendo inoltre ritenuto “di carattere relativo e non assoluto” il dovere di vigilanza, mentre la seconda (Cass. civ. n. 3664/1985) aveva ritenuto responsabili i genitori di un ragazzo, anch'egli decenne, che aveva ferito con una fionda una bambina, perché l'uso della fionda avrebbe rivelato “di per sé un'impropria educazione”.

La responsabilità di “grandi minori” e maggiorenni non autosufficienti fra suggestioni e diritto comparato

Il tema della responsabilità dei genitori per i fatti illeciti dei cd. grandi minori è stato posto da tempo dalla dottrina con riguardo alla “progressiva conquista di spazi di libertà già da parte degli adolescenti (si pensi solamente all'uso dei veicoli a motore) e la difficoltà di assiduo controllo da parte dei genitori” per porre l'interrogativo se questi dati di fatto non suggerissero una limitazione del “campo di applicazione della norma” riguardo ai minori di età prossima a quella maggiore (Rescigno, Manuale del diritto privato italiano, Napoli, 1994, 769).

Ma ancor prima un'autorevole dottrina (S. Patti, L'illecito del "quasi maggiorenne" e la responsabilità dei genitori: il recente indirizzo del Bundesgerichtshof, in Riv. dir. comm., 1984, 27) particolarmente attenta agli aspetti comparatistici della materia, aveva osservato come la Corte Suprema tedesca, già in una decisione della fine degli anni settanta, pur ricordando che “l'obbligo di sorveglianza sussiste sino alla maggiore età”, avesse precisato che “il suo contenuto si sostanzia, nella fase finale della minore età, nel cercare di esplicare un'influenza positiva nei confronti dei figli, nel far loro evitare la frequentazione di persone che possono costituire un esempio negativo o favorire il compimento di reati, nell'impedire che circolino armati…”, osservando che “l'adeguatezza dei provvedimenti presi dal genitore deve essere valutata con riferimento al caso concreto”. E concludendo, sulla base di questi principi, che non fosse “concepibile che un genitore vieti ad un ragazzo quasi maggiorenne di frequentare locali pubblici durante il tempo libero”, e così confermando il rigetto della domanda risarcitoria proposta le lesioni al volto cagionate dal minore in occasione di una lite insorta in discoteca (Bundesgerichtshof, 27/11/1979, in NJW, 1980, 1044).

In questa prospettiva si sono situati ripetuti interventi dottrinali volti a sollecitare l'esclusione della “responsabilità dei genitori se il fatto è stato compiuto nell'ambito di quella sfera di libertà normalmente concessa al minore”, tanto più ampia quanto più egli è prossimo all'età maggiore (S. Patti, Famiglia e responsabilità civile, Milano, 1984, 256), anche sul presupposto che non è più possibile far rispondere i genitori del fatto illecito del figlio ormai vicino alla maggiore età per un presunto difetto di educazione o di vigilanza (Figone, Responsabilità civile dei genitori, dei tutori, degli insegnanti e dei maestri d'arte o mestiere, in Tratt. Dir. Priv. Bessone, Torino, 2002, 233).

Ciò tanto più che, nella realtà attuale, “agli educatori spetta il compito di incoraggiare il senso di indipendenza e di responsabilità dei ragazzi, il che costituisce, dopo tutto, il più importante obiettivo della loro educazione” (Rossi Carleo, op. cit, 125).

Considerato il perdurante orientamento della giurisprudenza in materia, tuttavia, pare evidente che tali sollecitazioni non hanno trovato riscontro.

Per converso, non è mancato chi, invece, si è chiesto se, considerata la “posizione protettiva – con funzione di garanzia per i terzi danneggiati – dei genitori” delineata dalla giurisprudenza e da una parte della dottrina, non ci si debba interrogare su una possibile “responsabilità dei genitori pure per l'illecito di un figlio maggiorenne, ma non ancora economicamente e socialmente autosufficiente: ciò in forza di una interpretazione evolutiva della norma in esame, anche alla luce di quegli indici normativi che riconoscono a tale figura una posizione peculiare (così, ad es., in tema di assegnazione della casa familiare l'art. 155 quater)” (Esposito, Autonomia del minore e responsabilità dei genitori, in NGCC 2009, 11136).

In realtà, tale interrogativo trova già una risposta insuperabile nella lettera della disposizione e nella natura eccezionale della norma che essa esprime, ma il solo fatto che esso sia stato posto è indicativo del “clima” indotto dal panorama giurisprudenziale che si è descritto.

Un caso esemplare di responsabilità dei genitori

Per molti versi esemplare delle problematiche trattate e dell'approccio giurisprudenziale di cui s'è detto è il contenuto di una recente sentenza della Corte d'appello di Bari (19 ottobre 2020, n. 1754) riguardante un ragazzo “quasi quattordicenneche aveva colpito “con una violenta ginocchiata all'altezza dei genitali” un altro ragazzo di dodici anni e mezzo, che era “intento a giocare con alcuni amici nei pressi della propria abitazione”.

La sentenza di primo grado aveva rigettato la domanda proposta contro la madre ed il marito, che non era il padre del minore, inquadrando il fatto nella sfera di applicabilità dell'art. 2047 c.c. trattandosi di un infraquattordicenne, sostenendo che la madre aveva superato la presunzione di responsabilità, mediante la prova testimoniale, dimostrando “di aver impartito al figlio un'educazione adeguata alla propria condizione sociale e familiare... e di aver esercitato una vigilanza… ad una fase di gioco tra adolescenti sfociata in una lesione all'integrità fisica” del dodicenne.

La Corte d'appello ha riformato tale decisione, preliminarmente osservando l'applicabilità dell'art. 2048 c.c. perché “il minore… al momento del fatto… aveva quasi quattordici anni, sicché non vi sono ragioni per dubitare che egli fosse capace di intendere e di volere anche in ragione della precoce emancipazione dei minori frutto del costume sociale”, assunto che merita approvazione, poiché, come detto, compete al danneggiato provare l'incapacità del minore, ciò che nel caso in esame non pare fosse avvenuto.

Sennonché la sentenza, pur negando che quella genitoriale sia una forma di responsabilità oggettiva, ed affermando che è invece “soggettiva basata su una presunzione di culpa in educando e vigilando”, ha escluso che, in concreto questa fosse stata superata dalle deposizioni rese dagli insegnati del minore dalle quali era emerso che “la madre si interessasse al profitto ed al comportamento del figlio”, ma che questi era “poco integrato, molto insofferente, che non si impegnava nello studio e che la madre non riusciva da sola a gestire”.

Dal contesto della motivazione si evince, inoltre, come “il ragazzo vivesse un disagio derivante da una infanzia difficile trascorsa nella terra di origine ed una problematica integrazione in Italia”, e quindi facesse parte di un nucleo familiare di recente immigrazione, ciò che tuttavia, secondo la Corte, “non esclude né attenuta la responsabilità” della madre, poiché costei “aveva l'onere di impartire al figlio l'educazione necessaria per non recare danni a terzi… nonché di vigilare sul fatto che l'educazione impartita fosse adeguata al carattere e alle attitudini del minore”.

Né a modificare il giudizio della Corte sono valse, evidentemente, le altre circostanze di fatto che pure emergono dalla motivazione della sentenza, e cioè che la donna fosse madre di vari “figli”, che questi “non fossero mai stati accettati dal marito”, che di questi, come detto non era il padre, e che si era ricongiunto alla moglie solo “pochi mesi prima dell'aggressione”, periodo in cui peraltro “subì diversi documentati ricoveri in ospedale” e fu quindi assente dal contesto familiare.

Seppur sfuocato e riflesso dal prisma argomentativo della motivazione, che ha solo sunteggiato gli aspetti salienti delle risultanze istruttorie (non è dato sapere con quale grado di completezza), ne emerge il quadro di una madre di più minori afflitti dai noti e comprensibili disagi indotti dallo sradicamento dalla terra di origine ed alle prese con una difficile integrazione in una realtà socio-culturale ben diversa, rimasta sostanzialmente sola nell'affrontare i propri compiti educativi e verosimilmente impegnata sul fronte lavorativo per assicurare i mezzi di sussistenza alla propria famiglia.

Una madre che si era interessata alle problematiche comportamentali e di studio che il figlio aveva manifestato, ma che non era riuscita a correggerlo e, per tal motivo, viene colpevolizzata, addebitandole di non aver prodotto non già lo sforzo educativo concretamente esigibile da lei, nella concreta situazione che si è descritta, ma il risultato educativo imposto dal rigoroso (e sostanzialmente anelastico) metro di giudizio elaborato da una giurisprudenza d'altri tempi ai fini della prova liberatoria richiesta al genitore.

Secondo la Corte Barese, è la modalità dell'illecito del minore, la sua natura di “gesto violento” (ossia “la gravità del fatto” e “le sue modalità di esecuzione”), a condannarla, perché di per sé sola ritenuta “significativ[a] dell'inadeguatezza dell'educazione” impartita al proprio figliolo.

Tuttavia, sotto il profilo giuridico, è lecito domandarsi se realmente possa dirsi che quella donna non abbia provato “di non aver potuto impedire il fatto”, come prescritto dall'ultimo comma dell'art. 2048 c.c., e ciò non in base ad un criterio di valutazione astratto, ma con riguardo alla concreta situazione di fatto in cui si trovò ad esplicare i propri compiti educativi.

E, sotto quello pratico, non pare arbitrario chiedersi quali effettive possibilità ella avesse, in una situazione ambientale di tal genere, di correggere il “carattere” e le “attitudini” del figlio e, dunque, di “impedire” l'illecito da questi compiuto.

A questi interrogativi, ovviamente, non è possibile dare una risposta dirimente, non conoscendosi a pieno le risultanze istruttorie, ma quanto traspare dalla motivazione della sentenza induce qualche dubbio sul fatto che un loro più approfondito esame ed una motivazione più attenta alle anzidette circostanze fosse preferibile rispetto ad uno sbrigativo ricorso al re ipsa loquitur quale decisivo criterio di giudizio.

L'urgenza di un nuovo approccio interpretativo dell'art. 2048 c.c., rispettoso del diritto positivo ed adeguato alla realtà attuale del rapporto genitori-figli

Le esposte considerazioni evidenziano l'urgenza di una profonda riflessione sull'evidente inadeguatezza di una giurisprudenza ormai tralaticia rispetto alla complessità della relazione educativa tra genitori e figli (e altri attori educativi) nella realtà sociale odierna e sulla sua oggettiva lontananza dell'effettivo contenuto precettivo dell'ultimo comma dell'art. 2048 c.c. a proposito della prova liberatoria di cui è onerato il genitore.

L'uso improprio della regola operazionale del re ipsa loquitur, in quanto riferita non già alla responsabilità dell'autore dell'illecito (che, non va dimenticato, seppur minore, è persona pienamente capace d'intendere e volere), bensì al risultato dello sforzo educativo di un terzo, sottolinea l'urgenza di una rimeditazione dell'intera problematica.

Poiché l'orientamento giurisprudenziale che si tramanda immutato ormai da decenni non solo appare motivato da un favor creditoris spinto all'eccesso, e per nulla rispettoso dei diritti del debitore, ma è indiscutibilmente frutto di principi giuridici forgiati con riferimento ad un modello di rapporto tra genitori e figli ormai da tempo superato non solo realtà sociale, ma pure dal diritto positivo (con la legge n. 219/2012).

Tali principi appaiono ormai decontestualizzati rispetto alla realtà attuale ed al pluralismo educativo irreversibilmente in essa radicato, che si contrappone in modo radicale al monopolio educativo genitoriale proprio di una realtà familiare retaggio di un passato ormai remoto.

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