Lecito il suicidio assistito se frutto dell'autodeterminazione del malato
28 Luglio 2021
Confermata in secondo grado l'assoluzione per un uomo e una donna, finiti sotto processo per avere aiutato una persona malata, affetta da sclerosi multipla, a porre fine alla propria vita. Per i Giudici va riconosciuto il diritto al suicidio assistito se è frutto dell'autodeterminazione del malato a congedarsi da una esistenza che non è più in grado di apprezzare e che è divenuta esclusivamente indicibile sofferenza.
Comprensibile l'aspirazione alla morte, e legittimo, quindi, il suicidio assistito, per la persona afflitta da una malattia irreversibile, vessata da dolori lancinanti e sottoposta a un trattamento terapeutico indispensabile per la sopravvivenza. Di conseguenza, è lecito il comportamento delle persone che forniscono aiuto al malato per consentirgli di porre fine alla propria vita (Corte di Assise di Appello di Genova, sentenza depositata il 20 maggio 2021).
A finire sotto processo sono un uomo e una donna, accusati di «istigazione e aiuto al suicidio» per avere, in sostanza, fornito aiuto a un uomo – «affetto da sclerosi multipla a decorso cronico progressivo, ormai invalido con totale e permanente invalidità lavorativa e con necessità di assistenza continua, non essendo in grado di compiere gli atti quotidiani», come l'andare in bagno – intenzionato a togliersi la vita. In primo grado i Giudici ritengono non addebitabile alcuna colpa all'uomo e alla donna sotto processo. Ciò perché, innanzitutto, «il proposito suicidario era fortemente radicato» da tempo nella persona malata, e poi perché, come sancito nel 2019 dalla Corte Costituzionale, «non è punibile chi agevola l'esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, ma capace di assumere decisioni libere e consapevoli, purché tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente». In sostanza, è logico riconoscere la non punibilità per la condotta di agevolazione al suicidio, a patto però che «l'irreversibilità della patologia e la gravità delle sofferenze fisiche e psicologiche siano state sottoposte a vaglio medico» e che «la persona malata abbia deciso autonomamente e sia stata informata delle soluzioni alternative, come le cure palliative e la sedazione profonda». In questa vicenda i Giudici di primo grado hanno riscontrato tutti i parametri stabiliti dalla Consulta, ossia «l'accertamento, da parte di un medico, della irreversibilità della malattia; la verifica, da parte di un medico, della sofferenza fisica e psicologica; la verifica, da parte di un medico, della dipendenza da trattamenti di sostegno vitale; la verifica, da parte di un medico, della capacità del malato di assumere decisioni libere; la manifestazione chiara ed inconfutabile del malato della volontà di porre termine alla propria vita; l'informazione del malato sulla possibilità di accedere a soluzioni alternative ed in particolare alle cure palliative». Identica linea di pensiero viene adottata anche dai giudici della Corte di Assise di Appello. Confermata, quindi, la caduta delle accuse a carico dell'uomo e della donna sotto processo.
In prima battuta, i Giudici di secondo grado ribadiscono che non vi è stato alcun «rafforzamento del proposito suicidario» manifestato dalla persona malata. Quest'ultima, anzi, si rivolse all'associazione – di cui facevano parte l'uomo e la donna sotto processo – «non per valutare soluzioni alternative alla sofferenza, ma quando ormai aveva assunto la scelta irremovibile di porre fine alla propria esistenza e cercava disperatamente di realizzarla». In questo contesto si inserisce anche la deposizione della madre, la quale ha spiegato che l'uomo sotto processo «si recò a colloquio col figlio con lo scopo primario di distoglierlo dalla decisione estrema» ma il tentativo fallì proprio perché il figlio «era fermamente convinto che l'unica soluzione per porre fine alle sofferenze interminabili ed insopportabili fosse la morte».
Per quanto concerne, poi, «l'agevolazione al suicidio», i Giudici osservano che «il lapidario divieto di aiutare taluno a procurarsi la morte, contenuto nella norma coniata in un periodo storico risalente in cui lo scopo unico era tutelare ad ogni costo la vita intesa come bene sociale, va coniugato col diritto ad una vita dignitosa e col diritto al rifiuto di trattamenti terapeutici a fronte di una malattia che abbia esito certamente infausto, a conclusione di un percorso altrettanto certo di dolore acutissimo e senza fine». Fondamentale il riferimento alla Corte Costituzionale, i cui Giudici hanno rilevato che «come la legge numero 219 del 22 dicembre del 2017 consente a chi è affetto da malattia irreversibile, che gli procuri grande dolore, di decidere di interrompere le terapie e di optare per le cure palliative e la sedazione profonda, ugualmente non può essere negato a chi si trovi nelle medesime condizioni di scegliere la morte, senza attenderla con strazio per sé e per i suoi cari ovvero precipitando in stato di incoscienza, che determini la perdita della propria dignità e del controllo di sé». Dunque, «aI malato irreversibile e sofferente è consentito decidere di congedarsi dalla vita, chiedendo autonomamente la disattivazione del macchinario che gliela garantisce». Nella delicata vicenda in esame, osservano i Giudici di secondo grado, «la malattia gravissima da cui era affetta la persona non richiedeva il ricorso a macchinari» ma «il trattamento farmacologico era tuttavia essenziale per la sopravvivenza, poiché se non l'avesse assunto si sarebbe fatalmente alterato il delicato equilibrio che le permetteva di sopravvivere». Ciò significa che la persona colpita da una «sclerosi multipla a decorso cronico progressivo» viveva «una vita artificiale, fonte di insopportabile dolore fine a sé stesso, perché la guarigione non sarebbe stata possibile, mentre la malattia sarebbe progredita sino a provocare la morte in un giorno non definibile, ma certo». La persona malata «era prigioniera del suo dolore che – come aveva riferito ai familiari ed al medico – la faceva impazzire e la aveva gettato nella disperazione profonda», e nulla avrebbe potuto essere d'aiuto, «neppure la terapia antalgica massiccia, a cui il corpo non rispondeva più». Ecco perché «unico suo desiderio era congedarsi dalla vita senza soffrire e conservando dignitosamente la lucidità». Ciò che emerge in modo chiaro, annotano i Giudici, è che la persona «era certamente afflitta da una malattia irreversibile e vessata da dolori lancinanti, e sottoposta a trattamento terapeutico indispensabile per la sopravvivenza». Di conseguenza, «se aveva il diritto di interrompere tale terapia essenziale per la sua vita e di avviarsi alla morte, non può essere negato il diritto di rinunciare a vivere ancor prima di affrontare la brutale agonia che la gravissima malattia avrebbe imposto». Legittima, quindi, «era l'aspirazione alla conclusione della vita», e «lecito dunque era il suicidio assistito, poiché frutto dell'autodeterminazione del malato a congedarsi da una esistenza che non era più in grado di apprezzare, divenuta esclusivamente indicibile sofferenza».
Fonte: DirittoeGiustizia |