Diritto del minore a conservare il cognome materno quando come segno distintivo dell’identità
02 Agosto 2021
Massima
Nel caso di secondo riconoscimento giudiziale da parte del padre, l'aggiunta del patronimico non deve arrecare, nel caso concreto, pregiudizio al minore. La mancata concessione dei termini di cui all'art. 190 c.p.c. determina automaticamente la lesione del diritto di difesa, così integrando un motivo di nullità della sentenza. L'azione di risarcimento del danno ex art. 2059 c.c. può essere esercitata anche nell'ambito dell'azione per la dichiarazione giudiziale di paternità. Il caso
La minore A.C. è nata dalla convivenza more uxorio dei genitori ed è stata riconosciuta dalla sola madre. Il Tribunale di Milano ha dichiarato cessata la materia del contendere quanto alla dichiarazione di paternità; ha affidato in via esclusiva la minore alla madre, della quale manterrà l'unico cognome; ha deciso sulle questioni economiche, condannando, in particolare, il padre al pagamento in favore della parte attrice della somma di € 9.800,00 quale contributo per il pregresso mantenimento della figlia. M.S.C. ha proposto appello avverso la citata pronuncia, eccependo in via preliminare la nullità della sentenza per avere il G.I. rimesso la causa al Collegio senza concedere alle parti i termini ex art 190 c.p.c. e deducendo la violazione e falsa applicazione delle norme in materia di provvedimenti riguardo ai figli. L'appellata ha resistito al gravame.
La questione
La decisione in esame merita di essere segnalata per le seguenti questioni:
Le soluzioni giuridiche
La Corte d'Appello accoglie l'eccezione di nullità della sentenza del Tribunale di Milano, risultando dagli atti processuali che il G.I., senza alcuna motivazione, “rimetteva la causa al Collegio per la decisione”, omettendo di concedere i termini di cui all'art 190 c.p.c. richiesti dalle parti ed, in ogni caso, pronunciando la sentenza al 57° giorno dopo il provvedimento di remissione della causa al Collegio per la decisione. Nello specifico, il Collegio ribadisce il principio in forza del quale «la mancata concessione dei termini di cui all'articolo 190 c.p.c. determina la nullità della sentenza, senza che sia necessario che la parte debba indicare, al momento dell'impugnazione, se e quali argomenti non svolti nei precedenti atti difensivi avrebbe potuto sviluppare ove detto deposito fosse stato consentito” (Cass. n. 4125/2020). Secondo tale (maggioritario) orientamento, il vulnus al diritto di difesa è da considerarsi in re ipsa, giacché quelli indicati dall'art. 190 c.p.c. sono termini perentori, previsti a tutela del contraddittorio non solo riguardo agli atti introduttivi del giudizio ma per tutta la durata e fino alla definizione del processo (Cass. 3 giugno 2008, n. 14657; Cass. 24 marzo 2010, n. 7072; Cass.,9 marzo 2011, n. 5590; Cass., n. 20732/2018). E, dunque, la nullità della sentenza va dichiarata a prescindere “dalla sussistenza - in concreto - del pregiudizio subito dalla parte in seguito a tale omissione. In ogni caso, si legge in motivazione, “la sentenza pronunciata dal giudice di primo grado prima della scadenza dei termini ex art. 190 c.p.c. per il deposito delle conclusionali o delle memorie di replica è affetta da nullità”. Quanto agli effetti della declaratoria di nullità, che concerne un'ipotesi non compresa tra quelle di cui all'art. 354 c.p.c. il giudice di appello, “una volta constatata tale nullità, non può rimettere la causa al primo giudice, ai sensi dell'art. 354 c.p.c., ma è tenuto a decidere la causa nel merito, nei limiti delle doglianze prospettate”, dalle parti, dall'angolo visuale del giudice di primo grado (Cass. 4125, cit.). Per completezza, giova ricordare che altro orientamento, invocando i principi di rango costituzionale di economia processuale e di ragionevole durata del processo, senza svilire l'analogo principio di rango costituzionale di inviolabilità del diritto di difesa, perviene ad una conclusione differente, ritenendo che, ai fini della nullità della sentenza, è necessario dimostrare che l'impossibilità di assolvere all'onere del deposito delle comparse conclusionali e delle memorie di replica abbia impedito di svolgere, a sostegno delle proprie domande o eccezioni, ulteriori e rilevanti aggiunte rispetto a quanto già in precedenza indicato, che avrebbero probabilmente condotto il giudice ad una decisone diversa da quelle effettivamente assunta (Cass. 23 febbraio 2006, n. 4020; Trib. Napoli, sez. I, 28 luglio 2020, n. 5413; Cass. 9 aprile 2015, n. 7086, secondo la quale tale interpretazione appare doverosa anche alla luce della sentenza delle SS.UU. del 17.2. n. 3758 - secondo cui la lesione delle norme processuali non è invocabile in sé e per sé, essendo viceversa sempre necessario che la parte che deduce siffatta violazione adduca anche, a dimostrazione della fondatezza, la sussistenza di un effettivo pregiudizio conseguente alla violazione medesima). Con la pronuncia in commento, la Corte d'Appello ha inteso dare continuità al primo orientamento. Tanto premesso, tornando al caso in questione la Corte d'Appello, nel merito, ribadisce che «l'ingiustificata resistenza al riconoscimento(nel caso specie il padre si è sottoposto al test del DNA, risultato positivo al 99,9%, nel 2015, dopo l'interessamento e solleciti del legale della madre) alla quale segua la omissione dei doveri parentali (nel casode qua, nonostante la certezza della paternità, il signor M.S.C. non ha mutato il suo comportamento di disinteresse affettivo ed economico verso la figlia) integra un atto illecito e la relativa azione di risarcimento del danno ex art. 2059 c.c. può essere esercitata anche nell'ambito dell'azione per la dichiarazione giudiziale di paternità e maternità. Anche sul punto, invero, la Corte fa proprio il pacifico principio a mente del quale “l'art. 250 c.c., deve essere letto nel contesto di tutte le disposizioni relative alla acquisizione dello status e di quelle che disciplinano i doveri dei genitori ed i diritti del figlio ai sensi degli artt. 316, 316-bis e 315-bis c.c. (cfr. Cass., Sez. I, 10 aprile 2012, n. 5652 e Cass., Sez. I, 22 novembre 2013, n. 26205). Conferma, quindi, la statuizione relativa alla condanna del signor M.S.C. al pagamento in favore della signora E.C. della somma di € 9.800,00 quale risarcimento del danno commisurato al contributo per il pregresso mantenimento dalla nascita della minore. Sotto altra prospettiva, infine, per quel che rileva in questa sede, i giudici ritengono di dover svolgere alcune premesse di carattere generale quanto al cognome del minore non riconosciuto contestualmente da entrambi i genitori. Anche con riferimento a questo profilo, la sentenza in esame si pone perfettamente in linea con la giurisprudenza costante della Suprema Corte, la quale ha riconosciuto meritevole di tutela “il diritto del figlio naturale di mantenere il cognome, del quale era in precedenza titolare, quando lo stesso sia divenuto “un autonomo segno distintivo della sua identità personale”, (Cass. n. 6098/2001; Cass. n. 12641/2006 e ribadito più di recente da Cass. civ., sez. I, 16 aprile 2014, n. 8876). Nel caso di specie, considerata l'età della minore la Corte ha deciso che “il suo attuale cognome rappresentasse ormai un elemento essenziale della sua identità, anche e soprattutto nelle relazioni interpersonali dalla medesima intrecciate”: conseguentemente, le ha confermato come unico cognome quello materno. Osservazioni
Nel caso in esame, la questione relativa all'attribuzione del cognome paterno alla minore è stata decisa valutando il “suo interesse”, che è quello di evitare un danno alla sua identità personale, intesa anche come proiezione della sua persona sociale”(cfr. ex multis, Cass. 12640/2015; Cass. 17139/2017; Cass. 18161/2019). È pacifico che il diritto al nome è un diritto fondamentale della persona con copertura costituzionale assoluta (art. 22 Cost.). Proprio per tale ragione, in tema di attribuzione giudiziale del cognome al figlio nato al di fuori del matrimonio e riconosciuto non contestualmente dai genitori, la giurisprudenza è granitica nel ritenere che la scelta, anche officiosa del giudice, deve prescindere da qualsiasi meccanismo di automatica attribuzione del cognome ed è ampiamente discrezionale, dovendo avere riguardo al modo più conveniente di individuare il minore in relazione all'ambiente in cui è cresciuto fino al momento del successivo riconoscimento, non potendo essere condizionata dall'esigenza di equiparare il risultato a quello derivante dalle diverse regole, non richiamate dall'art. 262 c.c., che presiedono all'attribuzione del cognome al figlio nato nel matrimonio (Cass., sez. I, 18 giugno 2015, n. 12640). Il giudice è investito dall'art. 262 c.c., commi 2 e 3, come modificato dal d.lgs. 154/2013, del potere-dovere di decidere su ognuna delle possibilità previste da dettadisposizione avendo riguardo, quale criterio di riferimento, unicamente all'interesse del minore e con esclusione di qualsiasi automaticità, che non riguarda nè la prima attribuzione, essendo inconfigurabile una regola di prevalenza del criterio del "prior in tempore", nè il patronimico, per il quale non sussiste alcun "favor" in sè nel nostro ordinamento (Cass., sez. I, 3 febbraio 2011, n. 2644; Cass. 05 giugno 2013, n. 14232; Corte Cost., ord. n. 18/2021). Pertanto, nella prospettiva del best interest of the child, il giudice di merito, nel singolo caso concreto,deve valutare l'esclusivo interesse del minore, tenendo conto che è in gioco, oltre all'appartenenza del minore a una determinata famiglia, il suo diritto all'identità personale, maturata nell'ambiente in cui egli è vissuto fino a quel momento. Ne discende che dovrà ritenersi legittima l'attribuzione al minore del cognome del padre, in aggiunta o sostituzione a quello della madre, allorché il giudice, per un verso, escluda la configurabilità di un qualsiasi pregiudizio derivante da siffatta modificazione del cognome, e, per altro verso, consideri che, non versando ancora nella fase adolescenziale o preadolescenziale, il minore, tuttora bambino, non abbia ancora acquisito, con il matronimico, nella trama dei suoi rapporti personali e sociali, una definitiva e formata identità (suscettibile, in ipotesi, di sconsigliare l'aggiunta del patronimico) (cfr. Cass. 5 febbraio 2008 n. 2751; art. 95 d.P.R.n.396/2000, comma 3). In ogni caso, tenendo in considerazione la volontà espressa dalla prole minorenne di cui è ammessa l'audizione qualora abbia compiuto gli anni 12 ed anche di età minore ove capace di discernimento (Cass., sez. I, 13 agosto 2019, n. 2134). Nella specie, in conclusione, la Corte, attenendosi rigorosamente ai suddetti principi, ha correttamente mantenuto alla minore il solo cognome della madre, giacché divenuto elemento essenziale della sua identità. Riferimenti
Codice della Famiglia, a cura di Michele Sesta, sub. art. 262, c.c. Giuffrè |