Posizione di garanzia e rapporto tra dolo e colpa nel caso Vannini-Ciontoli

Irma Conti
04 Agosto 2021

La sentenza in commento riguarda uno dei casi di cronaca più noti degli ultimi anni, ovvero quello della morte del giovane Marco Vannini, ferito da un colpo di pistola mentre si trovava nell'abitazione della famiglia della sua fidanzata, Martina Ciontoli...
Il caso: l'omicidio di Marco Vannini

La sentenza in commento riguarda uno dei casi di cronaca più noti degli ultimi anni, ovvero quello della morte del giovane Marco Vannini, ferito da un colpo di pistola mentre si trovava nell'abitazione della famiglia della sua fidanzata, Martina Ciontoli.

La vicenda ha ricevuto un'enorme attenzione mediatica non tanto per quanto attiene alla condotta materiale tenuta dal capo famiglia, Antonio Ciontoli, il quale ha materialmente esploso il colpo d'arma da fuoco che ha colpito il povero Vannini, ma soprattutto per le condotte che lo stesso Ciontoli e i suoi familiari hanno tenuto subito dopo tale ferimento, nonché al momento dell'arrivo dei soccorsi e nelle fasi ancora successive.

Pur essendo i fatti di pubblico dominio - al fine di meglio ricostruire, nei successivi paragrafi, gli aspetti giuridicamente rilevanti - si riportano, in sintesi, gli eventi più significativi ai fini dei temi che saranno successivamente affrontati.

Il 17 Maggio del 2015, alle ore 23.15 - mentre si trovava nell'abitazione della propria fidanzata e, più precisamente, all'interno della vasca da bagno - Marco Vannini è stato colpito al volto da un colpo d'arma da fuoco.

Il colpo, partito accidentalmente, proveniva dall'arma del Sig. Antonio Ciontoli, padre della fidanzata del Vannini, “militare di carriera appartenente alla marina militare e successivamente distaccato ai servizi segreti (cfr. pg. 57 della sentenza).

Subito dopo lo sparo, nel bagno è accorso, per primo, Federico Ciontoli – figlio del summenzionato Antonio Ciontoli - il quale, secondo la ricostruzione processuale, avrebbe nascosto sotto al proprio letto l'arma del delitto e alcuni asciugamani usate per tamponare le ferite del Vannini.

Successivamente, sarebbero intervenuti sia Martina Ciontoli - fidanzata del Vannini - che la di lei madre, Maria Pezzillo.

Antonio Ciontoli avrebbe immediatamente cercato di sminuire l'accaduto attraverso una ricostruzione incoerente (rispetto a quelle che erano le condizioni evidenti in cui versava il Vannini) che riconduceva quanto accaduto ad un “colpo d'aria” partito dalla pistola.

A quel punto, secondo la ricostruzione della sentenza dell'Appello-bis citata a pag. 42 di quella della Suprema Corte, i componenti della famiglia Ciontoli, si sarebbero limitati a “collaborare con il padre nelle sue azioni: trasportarono il ferito in altra camera, lo vestirono con della biancheria, ispezionarono la zona della ferita alla ricerca del foro di uscita, provvidero a tamponare il sangue con asciugamani e a pulire quello per terra con degli strofinacci, intimarono più volte al Vannini di non urlare, rimossero la pistola ed il bossolo dal bagno”.

Per oltre venticinque minuti, al Vannini non è stata prestata alcuna cura. La prima telefonata per i soccorsi è arrivata alle ore 23.41 ed è stata effettuata da Federico Ciontoli, il quale – all'operatrice - riferiva unicamente che il Vannini “per via di uno scherzo, si era sentito male, era troppo bianco e non respirava più. A un certo punto della comunicazione telefonica intervenne una donna, la madre di Federico, per dire che il ragazzo stava facendo il bagno, stava nella vasca. Poi, però, sollecitata dalla voce di un uomo, evidentemente Antonio Ciontoli, che avvertiva che non v'era necessità dei soccorsi, non dava più seguito alla conversazione” (cfr. pg. 3 della sentenza).

Con l'aggravarsi delle condizioni del Vannini, alle ore 00.06, Antonio Ciontoli effettuava una seconda chiamata al 118, riferendo che il Vannini sarebbe caduto dalla vasca e che si sarebbe “bucato un pochino con un pettine a punto e quindi si era messo paura”. Contestualmente, come riportato in sentenza, durante la telefonata “si avvertirono in lontananza le urla di un uomo che diceva ‘basta, ti prego” (cfr. pg. 3 della sentenza).

Nel mentre, la Sig.ra Pezzillo telefonava ai genitori del Vannini, riferendo loro che Marco “si è fatto un po' male cadendo per le scale e quindi rimarrà da loro” (cfr. pg. 44 della sentenza).

L'ambulanza è giunta presso l'abitazione dei Ciontoli alle ore 00.22 circa. All'arrivo dell'infermiera, Martina Ciontoli ha riferito di non essere stata presente al momento dell'incidente, mentre Antonio Ciontoli, in presenza del figlio Federico, ha affermato che «ilragazzo era ‘un po' svenuto', era stato ‘preso da un attacco di panico, una crisi di ansia', per poi precisare che 'il ragazzo si stava facendo la doccia nella vasca, che si scherzava sul calcio, che poi era scivolato e si era ferito con un pettine a punta'»(cfr. pg. 44 della sentenza).

Tutto questo, in presenza della moglie (che teneva sollevate le gambe del Vannini) e del figlio.

Come riportato nella sentenza di appello-bis citata nella pronuncia in commento, a quel punto l'infermiera ha provato a formulare delle domande direttamente al Vannini per verificarne le condizioni: “alle sue domande senza risposta rivolte a Marco Vannini aveva risposto ancora una volta Antonio Ciontoli ribadendo la tesi della caduta nella vasca e del buco fattosi con un pettine a punta; la Bianchi sollevava una manica della maglietta indossata dal ragazzo e si avvedeva dell'esistenza di un buco come di una bruciatura di sigaretta, sennonché dopo 15/20 minuti (quindi, verso le ore 00.36 circa) visto che il giovane non si riprendeva avevano deciso di trasportarlo al P.I.T. dove giungevano intorno alle ore 00,30 circa” (cfr. pg 47 della sentenza).

Solo a questo punto la Pezzillo ha contattato nuovamente i genitori del Vannini, intimandoli di recarsi al pronto soccorso, senza specificare cosa fosse successo.

Una volta giunti al pronto soccorso, Antonio Ciontoli «si preoccupa di chiamare il medico di turno Dott. Matera evidenziando a questi l'effettiva causa del malessere di Marco ma invitandolo a "passare l'accaduto sotto silenzio"» (cfr. pg 33 della sentenza).

Per 110 minuti, dunque, tutti i soggetti coinvolti hanno omesso di rappresentare il reale svolgimento dei fatti e, soprattutto, la circostanza che il Vannini fosse stato attinto da un colpo d'arma da fuoco calibro 9-380 da distanza ravvicinata.

Come riportato in sentenza, subito dopo il decesso del Vannini e prima degli interrogatori, è stato possibile accertare - attraverso le intercettazioni ambientali - il fatto che “Antonio, Federico e Martina Ciontoli hanno pacificamente tentato di addivenire ad una versione concordata circa le pistole, su dove si trovassero, su chi le avesse prese e tolte dal bagno” (cfr. pg. 48 della sentenza).

Le questioni affrontate dai giudici di legittimità

La Corte di legittimità ha affrontato le questioni che verranno diffusamente illustrate nel paragrafo successivo all'esito di un lungo iter giudiziario caratterizzato da un giudizio rescindente da parte di altra sezione della Suprema Corte e dalla celebrazione di un nuovo giudizio di appello nel solco dei principi di diritti sanciti dalla Suprema Corte nella sentenza di annullamento di rinvio.

Le due principali tematiche che sono state risolte nella sentenza in commento riguardano l'individuazione di una posizione di garanzia in capo a tutti gli imputati e la qualificazione dell'elemento soggettivo (dolo eventuale o colpa cosciente) tanto nel Ciontoli Antonio, quanto nei suoi familiari.

Con riferimento a questi ultimi, la Corte ha altresì dovuto valutare la sussistenza di un caso di favoreggiamento personale o di concorso nell'omicidio - colposo o doloso - e ancora, la possibilità di riconoscere l'ipotesi di concorso “anomalo” degli stessi ex art. 116 c.p.

Il punto di partenza per l'esame di tali, complesse, questioni è stato quello - individuato nella sentenza rescindente - di suddividere le condotte contestate in “due tratti di condotte l'uno riferito soltanto ad Antonio Ciontoli, l'altro anche ai suoi familiari, moglie e figli. La prima condotta - che nel capo di imputazione è posta alla stregua di un antefatto ("dopo che Ciontoli Antonio ... aveva esploso colposamente...") - si sostanziò nell'esplosione colposa di un colpo d'arma da fuoco che procurò una lesione alla vittima; la seconda consistette nel ritardo nell'attivazione dei soccorsi e nelle false informazioni date agli operatori sanitari che infine intervennero”.

Le sentenze di primo e secondo grado

Al fine di poter analizzare le diverse soluzioni alle questioni sopra sinteticamente riportate, è opportuno seguire l'iter processuale dalla sentenza di primo grado a quella, definitiva, della Corte di Cassazione.

Partendo dalla posizione di Antonio Ciontoli, nella sentenza di primo grado emessa dalla Corte di Assise di Roma, si è sostenuto, quanto alla prima fase della condotta relativa all'esplosione del colpo d'arma da fuoco, la natura colposa dell'azione, non essendo emersi elementi in base ai quali ritenere che il Ciontoli abbia volutamente esploso un colpo d'arma da fuoco nei confronti del Vannini.

Una ricostruzione, questa, che non ha subìto variazioni nel corso del processo.

Al contrario, per quanto riguarda il “secondo tratto” delle condotte contestate, la Corte di Assise ha ritenuto configurabile il dolo eventuale nelle azioni del Ciontoli - il quale, pur consapevole di aver attinto da distanza ravvicinata il Vannini, ha ritardato volutamente i soccorsi, ha mentito sulle reali dinamiche degli eventi e sulle condizioni del predetto, ha tentato di convincere il medico del Pronto Soccorso a nascondere la vera causa delle lesioni, confessata dopo oltre 110 minuti dai fatti - e ha pertanto condannato l'imputato in questione alla pena di anni quattordici di reclusione.

Per quanto riguarda, invece, i familiari del Ciontoli - imputati di concorso in omicidio volontario - il giudice di prime cure ha ritenuto configurabile un concorso esclusivamente colposo nell'omicidio del Vannini.

Infatti - essendo “escluso che i fratelli Ciontoli e la Pezzillo fossero stati presenti al momento dell'esplosione del colpo di pistola” - il Giudice di prime cure ha ritenuto che i predetti non fossero stati informati, da Antonio Ciontoli, dell'esatta causa del ferimento, ricondotto inizialmente a "un colpo d'aria”, una bolla d'aria che si era formata nella pistola.

Secondo la Corte di Assise, come riportato nella sentenza in commento, la responsabilità a titolo di colpa sarebbe comunque configurabile in quanto essi “omisero per un tempo apprezzabile di meglio verificare la causa del malessere di Marco Vannini, della cui ferita erano comunque consapevoli, avendo visto l'accappatoio e un' asciugamano macchiati di sangue, avendo rinvenuto il bossolo esploso ed essendo stati spettatori del progressivo peggioramento delle condizioni di salute della vittima, che per il dolore si lamentava ad alta voce(cfr. pgg 2-3 della sentenza).

In forza di tale motivazione, i Sig.ri Federico Ciontoli, Martina Ciontoli e Maria Pezzillo sono stati condannati, in primo grado, alla pena di anni tre di reclusione ciascuno.

Secondo una prima ricostruzione, pertanto, Antonio Ciontoli sarebbe responsabile di omicidio volontario, con dolo eventuale, per l'omissione di qualunque attività volta a tutelare l'integrità fisica del Vannini, mentre i suoi familiari sarebbero responsabili, a titolo di colpa, come concorrenti nel delitto perpetrato dal capofamiglia, per aver omesso di allertare i soccorsi, assecondato le tesi di Antonio Ciontoli e avallato le menzogne da quest'ultimo rappresentate ai paramedici.

La soluzione prospettata per la posizione di Federico e Martina Ciontoli e di Maria Pezzillo è stata confermata anche dalla Corte di Assise di Appello la quale ha, invece, riformato la sentenza del giudice di prime cure con riferimento alla posizione di Antonio Ciontoli.

In particolare, secondo il giudice di appello - pur essendo dimostrato che il Ciontoli abbia tenuto il comportamento omissivo nella consapevolezza di voler evitare conseguenze negative anche sotto il profilo lavorativo - non sarebbe comunque possibile ritenere sussistente il dolo, in quanto, come riportato nella sentenza in commento “Non è infatti sufficiente, per poter affermare la sussistenza del dolo, che si riscontri l'accettazione del rischio che l'evento si produca, occorrendo un quid pluris costituito dall'accertamento che l'agente non si sarebbe trattenuto dalla condotta illecita neppure se avesse avuto contezza della sicura verificazione dell'evento (cd. formula di Frank)” (cfr. pg. 5 della sentenza).

Tale sentenza è stata impugnata, oltre che dagli imputati, dal Procuratore Generale e dalle parti civili costituite e riformata dalla Corte di Cassazione la quale, senza mezzi termini “ha censurato quella di appello affermando che è stato fatto un uso non accorto delle indicazioni interpretative contenute nella sentenza delle Sezioni unite di questa Corte n. 38343 del 24/04/2014, P.G., R.C., Espenhahn e altri, Rv. 261105(cfr. pg. 6 della sentenza).

Nella sentenza rescindente, in particolare, è stato osservato che:

- tutti gli imputati hanno tenuto una condotta omissiva nel momento successivo all'esplosione del colpo d'arma da fuoco, incidendo sull'aggravamento delle condizioni del Vannini e sulla successiva morte del predetto;

- per oltre 110 minuti, la famiglia Ciontoli ha avuto “in cura” il Vannini senza agire nel suo interesse, ma solo al fine di coprire le tracce di quanto accaduto;

- «la "sequenza di azioni" rende chiaro che Antonio Ciontoli e i suoi familiari assunsero volontariamente rispetto a Marco Vannini, rimasto ferito nella loro abitazione, un dovere di protezione e quindi un obbligo di impedire conseguenze dannose per i suoi beni, anzitutto la vita» (cfr. pg. 6 della sentenza).

Sulla base dei principi indicati dalla Corte, il giudice del rinvio ha completamente rivalutato - alla luce della corretta interpretazione della sentenza Espenhahn - la posizione di Antonio Ciontoli, riconducendola nell'alveo dell'interpretazione fornita dal giudice di prime cure e qualificando la condotta posta in essere dal predetto imputato in termini di omicidio doloso (connotato sempre da dolo eventuale).

Per quanto riguarda, invece, i suoi familiari - pur non ritenendo integrabili, come sostenuto dalle difese, ipotesi di mero favoreggiamento e pur avendo individuato un apporto causale rilevante tra le loro omissioni e falsità e la morte del Vannini - secondo la Corte “il ruolo dei familiari concorrenti non consente di ravvisare, senza alcun ragionevole dubbio, l'elemento del dolo (eventuale) con riferimento alla morte del Vannini. Si è assunto, in particolare, che tali imputati, pur rendendosi conto della gravità della ferita inferta alla vittima e del peggioramento delle sue condizioni di salute, si siano prefigurati un evento meno grave rispetto a quello ravvisato ed accettato da Antonio Ciontoli, ossia quello delle lesioni gravi” (cfr. pg. 8 della sentenza).

La Corte d'Assise d'Appello ha pertanto ritenuto applicabile, agli stessi, l'art. 116 c.p.p., ed ha affermato la sussistenza del cd. “concorso anomalo”.

Si ha, quindi, un terzo tipo di interpretazione per quanto attiene alla posizione dei familiari, ovvero quello del concorso anomalo nell'omicidio doloso, in quanto, pur avendo i predetti agevolato la condotta del capofamiglia, il reato commesso è più grave di quello voluto.

La decisione della Cassazione

La Suprema Corte, nella sentenza in commento, ha preso in considerazione tutti i precedenti orientamenti ed ha deciso riprendendo, quasi integralmente, quanto statuito dal giudice del rinvio, discostandosene esclusivamente per quanto attiene alla valutazione della posizione dei familiari del Ciontoli.

Le osservazioni della Corte di Legittimità poggiano su due punti fermi:

- tutti gli imputati avevano una posizione di garanzia nei confronti del Vannini;

- alla luce di quelle che sono state le condotte di tutti gli imputatie in considerazione della loro finalità teleologica, l'elemento soggettivo deve essere qualificato come dolo, con delle differenziazioni che verranno a breve illustrate.

Partendo dall'analisi della posizione giuridica di garanzia, la Corte di Cassazione ha sostenuto che:

- nella sentenza rescindente e in quella emessa all'esito del giudizio di rinvio, la fonte della posizione di garanzia rivestita da tutti gli imputati è stata sostanzialmente individuata in una assunzione volontaria di un dovere di protezione nei confronti di Marco Vannini - rimasto ferito nella loro abitazione - e, quindi, di un obbligo di impedire conseguenze dannose per i beni di quest'ultimo, primo fra tutti, la propria vita;

- la problematica derivante dall'individuazione dell'obbligo di attivarsi, è data dal fatto che, nel caso di specie, la predetta obbligazione non ha natura normativa o contrattuale;

- in casi come quello che ci occupa, come è noto, soccorre la teoria dell'assunzione volontaria della posizione di garanziache“si inserisce nel solco di un consolidato orientamento giurisprudenziale volto a riconoscerne la validità anche quando nessuna norma o contratto preveda tale situazione (si veda tra le più recenti Sez. 5, 19 novembre 2020, n. 10972, non massimata)” (cfr. pg 24 della sentenza);

- non si può prescindere dal principio di tutela della vita e dell'incolumità individuale di particolari categorie di soggetti che versano in situazione di "debolezza", come nel caso del Vannini, ovvero in quei casi caratterizzati da una situazione di “minorazione” permanente o occasionale, che rende necessario – al fine di tutelare la propria incolumità - affidarsi ad un altro soggetto "capace", in considerazione di quello che, in dottrina, è stato definito un "rapporto di dipendenza a scopo protettivo;

- in tal senso assume rilevanza la tesi contenutistico-funzionale dell'assunzione volontaria della posizione di garanzia, unita a quella del contatto sociale. Per tali teorie, l'obbligo di attivarsi sussiste nel caso in cui la tutela del bene sia affidata, anteriormente alla posizione di pericolo, ad un terzo che assuma la funzione di garante e che sia in grado di intervenire sullo svolgimento del decorso causale.

Sulla base di tali considerazioni, la Corte ha ritenuto che è “dunque da individuarsi nell'ospitalità offerta a Vannini, nell'abitazione di cui avevano la disponibilità, l'assunzione di una posizione speciale di garanzia da parte dei Ciontoli. Tale posizione non sarebbe stata surrogabile con l'intervento di estranei, che non avrebbero potuto accedere all'abitazione stessa senza il consenso della famiglia Ciontoli. La posizione di garanzia, peraltro, è da correlarsi alla situazione che ha posto in pericolo la vita dell'ospitato, quando quest'ultimo, proprio per le sue condizioni, non era più in grado di richiedere autonomamente i soccorsi”. (cfr. pg. 27 della sentenza).

Secondo la Corte, infatti:

- il Vannini si fidava di quelle persone ed era spesso presente nella loro abitazione in considerazione del legame sentimentale che aveva con Martina Ciontoli;

- la valutazione della sussistenza della qualifica di "ospite" nell'abitazione dei Ciontoli, consente di attribuire al Vannini il diritto di soccorso da parte dei soggetti "ospitanti" in quanto “pacificamente titolari anche dello ius excludendi alios, nel senso che nessun altro sarebbe potuto intervenire a prestare soccorso senza il necessario consenso di questi ultimi” (cfr. pg. 28 della sentenza);

- il Vannini si è pertanto dovuto necessariamente affidare, per la tutela della sua vita, ai Ciontoli e per tale tutela “non poteva prescindersi dalla fattiva e tempestiva attivazione degli imputati; i soli in grado di rendersi conto della gravità della situazione di pericolo, di allertare i soccorsi e di consentirne l'accesso all'abitazione, fornendo ai sanitari informazioni corrette e fondamentali per la cura e, in definitiva, per la salvezza della persona offesa(cfr. pg. 28 della sentenza).

Proprio per tale motivo la Corte di legittimità ha ritenuto sussistere, in capo a tutti gli imputati, una posizione giuridica di garanzia derivante dal rapporto di ospitalità che gli stessi avevano nei confronti del Vannini, evidenziando come la sussistenza di tale posizione sia più che sufficiente ad escludere la possibilità di ricondurre le condotte perpetrate nell'alveo della semplice omissione di soccorso.

E ciò in quanto, come correttamente osservato dalla Corte di legittimità, nel reato di cui all'art. 593 c.p., il soggetto attivo "si imbatte" nell'oggetto del ritrovamento, mentre la sussistenza della posizione di garanzia postula l'esistenza di un obbligo di intervento, qualitativamente diverso dal mero obbligo di soccorso, in capo a soggetti selezionati.

Passando, invece, all'esame della motivazione sotto il profilo dell'elemento soggettivo, in ordine alla posizione di Antonio Ciontoli la sentenza riprende, fondamentalmente, quanto già osservato dal giudice di prime cure, dalla sentenza rescindente e da quella di rinvio, le cui motivazioni vengono, in sintesi, richiamate da quella in commento.

In particolare, a sostegno della sussistenza del dolo eventuale, la Corte di Assise di Appello ha osservato che:

- “le condotte omissive che determinano il nesso di causalità con l'evento morte iniziano subito dopo l'esplosione del colpo di arma da fuoco, proseguono anche con condotte attive per la durata come si è detto di circa un'ora e cinquanta minuti; da parte di Antonio Ciontoli prosegue anche con il medico del pronto soccorso, invitato a far passare sotto silenzio quanto realmente accaduto; continua anche dopo il decesso di Marco Vannini, con la concertazione tra gli imputati sul come aggiustare le loro dichiarazioni da rendere al P.M. e nel tacere il reale svolgimento dei fatti al fine di avvalorare la tesi dell'evento fortuito o al massimo dell'omicidio colposo ammannito da Antonio Ciontoli al P.M.(pag. 69 della sentenza di appello bis);

- sotto il profilo teleologico “non è un caso che egli si preoccupi delle eventuali reazioni all'accaduto nel suo ambiente considerandosi "spacciato" mentre la moglie appare più preoccupata delle conseguenze economiche negative più che per la morte di Marco Vannini. Non è vero che l'eventuale sopravvivenza del Vannini avrebbe costituito un elemento positivo per l'imputato e di contro che la morte avrebbe invece costituito un elemento negativo e ciò perché nessuno, a parte i componenti la famiglia Ciontoli, poteva e può riferire come effettivamente si siano svolti i fatti quella notte.

Il Ciontoli, nelle sue omissioni, nelle sue menzogne e nell'impartizione di univoci ordini e disposizioni ai suoi familiari, ha inteso “con coscienza e volontà” tutelare sé stesso e la sua famiglia a discapito del Vannini e con la consapevolezza ulteriore che quest'ultimo era l'unica persona che poteva rappresentare il reale svolgimento degli eventi.

Se, quindi, la posizione di Antonio Ciontoli è stata valutata, per tali motivi, come dolosa, quella dei suoi familiari è stata oggetto di ulteriori considerazioni rispetto a quelle formulate dai precedenti giudici.

In particolare, da un lato, si sono ritenute apprezzabili le valutazioni operate nella seconda sentenza della Corte di Assise di Appello, dall'altro è stata ritenuta incompatibile l'applicazione dell'art. 116 c.p. rispetto alle condotte perpetrate dagli imputati.

Sotto il primo profilo, la Corte di legittimità ha infatti osservato che:

correttamente la Corte territoriale ha ritenuto che i dati di pregnanza indiziaria per la ricostruzione dell'elemento soggettivo a carico di tutti gli imputati militino per la configurabilità del concorso nell'omicidio con dolo eventuale, essendo del tutto inverosimile che la Pezzillo, Federico e Martina Ciontoli potessero credere anche all'ulteriore mendacio che caratterizzò la condotta di Antonio Ciontoli, quando finalmente chiamò il 118 riferendo tuttavia che la ferita era stata provocata da un pettine a punta su cui Marco Vannini era scivolato;

- ancora di più in quel momento essi ebbero piena cognizione della gravità di quanto stava accadendo, con un padre evidentemente impegnato, in maniera pervicace e crudele, a ritardare un intervento di soccorso che potesse risultare adeguato a salvare la vita di Vannini. Essi rimasero ancora una volta inerti, non assumendo alcuna fattiva iniziativa per aiutare la persona offesa (…);

- il comportamento menzognero e reticente dei suddetti imputati è elemento sintomatico dell'atteggiamento psicologico di questi ultimi, obiettivamente incompatibile con una condotta colposa”. (cfr. pgg 45-47).

La prova dell'esistenza di un dolo eventuale, secondo la Corte, è pertanto ravvisabile nella scelta di Martina Ciontoli, Federico Ciontoli e Maria Pezzillo di non fare alcunché che potesse essere utile per scongiurare la morte del Vannini, non solo rappresentandosi tale evento, ma altresì accettando la verificazione dello stesso, all'esito di un infausto bilanciamento tra il bene della vita e l'obiettivo avuto di mira, ovvero evitare che emergesse la verità su quanto realmente accaduto.

Proprio tale scelta, attiva, di non fare alcunché per impedire l'evento, è per la Corte incompatibile con l'ipotesi difensiva di un semplice “favoreggiamento personale”.

Secondo la Cassazione, infatti, “sia la natura concorsuale delle condotte poste in essere dai ricorrenti (pur se variamente qualificate dai giudici di merito ), sia la circostanza che l'evento morte non fosse ancora intervenuto nel momento in cui i componenti della famiglia Ciontoli realizzavano i comportamenti loro ascritti (omessa attivazione dei soccorsi, occultamento dell'arma e del bossolo, modifiche della scena dove era accaduto il ferimento, reticenze e informazioni svianti rese al personale sanitario)”non consentono di ipotizzare neanche in astratto la sussistenza della meno grave ipotesi delittuosa.

Alla luce di tutte le predette considerazioni, nella pronuncia in commento, la Corte ha accolto tutte le osservazioni sull'elemento soggettivo poste alla base della sentenza impugnata, ma se ne è discostata per quanto attiene alla valutazione del concorso anomalo.

Secondo la Cassazione, infatti, l'applicazione dell'art. 116 c.p. si pone in netto contrasto con le indicazioni offerte dalla sentenza rescindente e anche con le stesse motivazioni della Corte di Assise di Appello (sentenza bis).

Secondo la Corte, infatti, “non è riscontrabile un mutamento nell'agire o nella volontà di Antonio Ciontoli tale che possa ritenersi applicabile l'art. 116 c.p.; non è riscontrabile un reato diverso scaturito dalla deviazione rispetto alla volontà dei compartecipi nolenti; non si verte in un caso in cui i concorrenti sono stati convinti di cooperare nel delitto concordato di lesioni, il quale poi è mutato per opera di un altro concorrente.

Non vi è, quindi, alcun mutamento prevedibile della condotta di Antonio Ciontoli, la cui colposa mancata previsione possa essere ascritta a titolo di dolo ai familiari concorrenti (cfr. pg. 54 della sentenza).

Ciononostante, tale mutamento non ha avuto effetti sulla pena concretamente irrogata dalla Corte di Assise di Appello, in quanto la Cassazione ha comunque ritenuto applicabile, ai familiari del Ciontoli, l'ipotesi di cui all'art. 114 c.p. terzo comma, “nella parte in cui fa riferimento al concorrente che "è stato determinato a commettere il reato o a cooperare nel reato, quando concorrono le condizioni stabilite" nel numero 3 del primo comma dell'articolo 112 cod. pen., che fa a sua volta riferimento a "chi, nell'esercizio della sua autorità, direzione o vigilanza, ha determinato a commettere il reato persone ad esso soggette" (cfr. pg. 56 della sentenza).

Nel caso di specie, infatti, secondo la Corte, “molteplici sono gli elementi valorizzati dalla Corte territoriale che depongono nel senso dell'esistenza di uno stato di soggezione psicologica in capo ai familiari di Antonio Ciontoli e che rendono pertanto applicabile l'ipotesi di cui all'art. 114 c.p.p. terzo comma con riferimento al n. 3 del primo comma dell'art. 112 c.p.

In conclusione

La sentenza in esame presenta, ictu oculi, evidenti profili di complessità, derivanti tanto dal lungo iter processuale che ha contraddistinto il caso oggetto della pronuncia della Corte, quanto dal numero di questioni che sono state enucleate alla luce dei molteplici orientamenti che si sono susseguiti nel corso dei diversi gradi di giudizio.

All'oggettiva complessità delle questioni affrontate dalla Cassazione, si contrappone un'encomiabile linearità nella risoluzione delle stesse, nel contesto di un iter logico-giuridico caratterizzato da estrema chiarezza e che lascia poco spazio ad interpretazioni di segno opposto che vengono, comunque, menzionate e recisamente rigettate.

In particolare, è di estremo interesse l'analisi operata dai Giudici di legittimità sulla posizione di garanzia che abbraccia tanto interpretazioni di stampo dottrinale, quanto espressioni, anche conflittuali, della giurisprudenza di legittimità.

A tal proposito, la chiave di volta dell'intera sentenza è l'individuazione della posizione di garanzia nella qualifica di soggetti “ospitanti” per i membri della famiglia Ciontoli e di “ospite” per il Vannini.

Tale rapporto “ospite/ospitante”, in virtù delle specifiche circostanze attinenti al caso di specie, ha comportato, secondo la Corte di Cassazione, da un lato, il diritto del Vannini di essere soccorso dai Ciontoli, non potendo tutelare da solo la propria incolumità e, dall'altro il dovere dei Ciontoli di attivarsi in considerazione sia dello ius excludendi alios, sia dell'affidamento riposto dal Vannini in persone che quest'ultimo reputava “di fiducia”.

L'origine di tale posizione, da cui discende l'obbligo di prestare soccorso, non può essere ovviamente di derivazione normativa o contrattuale e, per tali motivi, la Suprema Corte - facendo leva sul concetto di ospitalità - ricorre sia alla teoria del contatto sociale, sia a quella dell'assunzione volontaria della posizione di garanzia di origine giurisprudenziale, volta proprio a superare quelle situazioni in cui difetti una norma e/o un vincolo contrattuale che impongano un comportamento attivo.

Facendo ciò, la Suprema Corte supera, di fatto, anche il contrasto esistente in seno alla giurisprudenza tra teoria formalistica e contenutistica-funzionale dell'assunzione volontaria della posizione di garanzia, avallando quest'ultima con valutazioni incidenti anche sulla configurabilità dell'elemento soggettivo e riuscendo a respingere con fermezza la possibilità di ricondurre le condotte degli imputati nell'ipotesi di omissione di soccorso.

L'esistenza di tale posizione di garanzia, infatti, pone i Ciontoli in una situazione completamente diversa rispetto a quella di chi, incidentalmente, si trovi a dover soccorrere una persona e decida di omettere tale dovere imposto dalla legge.

Secondo la Corte, infatti, nel caso di specie preesiste un affidamento del Vannini ai Ciontoli del tutto incompatibile con la configurabilità della meno grave ipotesi di reato.

Allo stesso modo, secondo quanto statuito in sentenza, le condotte poste in essere da tutti i Ciontoli sono incompatibili con ipotesi meramente colpose.

Da un lato, per quanto attiene alla posizione di Antonio Ciontoli, giudicata colposa in sede di primo giudizio di appello, la Corte ha abbracciato quanto sostenuto dalla Corte di Assise di appello nel giudizio di rinvio, offrendo un'importantissima rivalutazione in negativo della cd.Formula di Frank”, osservando come essa non costituiscauno strumento affidabile di indagine quando il caso da esaminare si connota per un evento il cui verificarsi, pur messo in conto in modo calcolato, comporti per l'autore della condotta il sostanziale, più o meno integrale, fallimento del piano. L'evento collaterale è infatti, in tale ipotesi, in relazione di incompatibilità con il fine perseguito dall'agente” (cfr. pg. 40 della sentenza).

Dall'altro, per quanto attiene alla posizione dei familiari del Ciontoli, la Corte ha osservato che per quanto gli stessi fossero senz'altro “succubi” della forte personalità del capofamiglia - in modo tale da poter applicare al caso di specie la previsione dell'art. 114, comma 3, con riferimento al n. 3 del comma 1 dell'art. 112 - la loro condotta debba essere necessariamente ricondotta ad un concorso doloso, non potendosi configurare un concorso anomalo.

È questo l'unico elemento di discontinuità ravvisabile tra la sentenza in commento e quella emessa all'esito dell'appello-bis, in quanto la Corte di Cassazione, proprio sulla base delle motivazioni della Corte di Assise di Appello, ha ritenuto ravvisabili profili di contraddizione tra la valutazione delle condotte dei Ciontoli e le conclusioni in tema di concorso anomalo.

In particolare, secondo la Corte di legittimità “il coefficiente psicologico che ha caratterizzato le condotte tenute dai familiari di Antonio Ciontoli non è riconducibile al paradigma della colpa, in quanto nella situazione concretamente verificatasi innumerevoli elementi consentivano di desumere - come in effetti è stato fatto dalla Corte territoriale - la sussistenza del dolo eventuale in capo a tutti gli imputati, anche rispetto alla verificazione dell'evento morte” (cfr. pg. 55 della sentenza).

Tale discontinuità, in considerazione del riconoscimento dello stato di “sudditanza” nei confronti del capofamiglia, non ha però comportato alcuna modifica in termini di pena applicata ai familiari del Ciontoli, confermata in nove anni e quattro mesi di reclusione.

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