Casa familiare: cessazione del diritto di assegnazione ed effetti sui figli
03 Agosto 2021
Assegnazione della casa familiare
Come è noto, l'art. 337-sexies c.c. disciplina l'assegnazione della casa familiare nella crisi della coppia genitoriale. Essa deve essere disposta “tenendo prioritariamente conto dell'interesse dei figli”. È oramai principio acquisito quello per cui l'assegnazione risponde all'esclusiva esigenza di garantire ai figli di minore età, ovvero maggiorenni, ma non economicamente sufficienti, il mantenimento dell'habitat domestico. L'assegnazione, dunque, non è funzionale al mantenimento del coniuge separato o divorziato, non rappresentando uno strumento, integrativo o sostitutivo, degli assegni, previsti rispettivamente dagli artt. 156 c.c. e 5 l. 898/1970. Tanto è vero che, in mancanza di figli minorenni, ovvero maggiorenni non ancora autosufficienti, nessun'assegnazione della casa potrà essere disposta. Ad ogni buon conto, stante l'intrinseco valore patrimoniale rappresentato dal godimento della casa familiare, il giudice dovrà tener conto della relativa assegnazione, se disposta ricorrendo dei presupposti di legge, nella regolazione dei rapporti economici tra le parti, avuto riguardo al titolo del godimento medesimo. Le cause di cessazione del diritto
Il richiamato art. 337-sexies c.c., al comma 1, prevede che l'assegnazione venga meno per una serie di circostanze, rappresentative del mutamento di destinazione della casa familiare a far fronte dei bisogni dei figli. Si fa espresso riferimento così ai casi in cui l'assegnatario non abiti o cessi di abitare stabilmente in quell'immobile, o intraprenda una convivenza more uxorio, ovvero contragga nuovo matrimonio. È ben noto che la Corte costituzionale, con ordinanza 30 luglio 2008, n. 308, relativa al previgente art. 155-quater c.c. (il cui testo è stato trasfuso nell'attuale art. 337-sexies, a seguito del d.P.R. 154/2013 di riforma della filiazione) aveva dichiarato non fondata la questione di illegittimità della previsione, là dove riconduce automaticamente la decadenza dell'assegnazione all'instaurazione di una nuova famiglia (di fatto, ovvero fondata sul vincolo di matrimonio, ed oggi anche su un'unione civile) da parte del coniuge separato, ovvero divorziato. Si rende necessaria infatti un'interpretazione costituzionalmente orientata della norma, che salvaguardi il preminente interesse dei figli al mantenimento dell'habitat domestico. Per quanto la pronuncia della Consulta faccia riferimento all'art. 155-quater c.c., come si è anticipato, è innegabile che quanto deciso trovi applicazione anche all'attuale disciplina. In oggi, dunque, l'occupazione della casa familiare da parte di un nuovo nucleo (magari allietato dalla nascita di figli) potrebbe dar luogo alla perdita del diritto all'assegnazione, solo quando venga meno l'interesse del minore a continuare ad abitare con l'assegnatario (situazione, nella pratica, abbastanza difficile dal verificarsi). In questo caso, il coniuge (o ex coniuge) non assegnatario, che fosse proprietario o comproprietario della casa familiare, potrebbe al più agire per una eventuale riduzione del contributo al mantenimento dei figli (atteso che alla componente alloggiativa dell'assegno stesso dovrebbe contribuire il nuovo compagno o coniuge dell'assegnatario). Le nuove nozze dell'assegnatario, ovviamente divorziato, determineranno poi ex se la perdita dell'assegno ex art. 5 l. 898/1970, di cui fosse stato in precedenza beneficiato. Più complessa è la questione dell'incidenza di una convivenza more uxorio; la giurisprudenza con un percorso progressivo, aveva affermato la perdita (da accertarsi ovviamente dal giudice) sia dell'assegno divorzile, che di quello di mantenimento, senza possibilità di reviviscenza per il caso di cessazione di detta convivenza. La prima sezione della Corte di Cassazione, a seguito del revirement interpretativo quanto all'art. 5 l. 898/1970, ha peraltro richiesto l'assegnazione alle Sezioni Unite perché la questione sia rivalutata (Cass. 17 dicembre 2020, n. 28995). In ogni modo, l'elenco delle cause che determinano la cessazione del diritto all'assegnazione non è esaustivo; non si può dubitare infatti che, in ogni caso in cui l'assegnazione non sia più idonea a tutelare l'interesse della prole, o in cui tale interesse non meriti più tutela, il diritto debba estinguersi. Rilevano eventi come il raggiungimento dell'indipendenza economica da parte dei figli, o comunque la cessazione della coabitazione del figlio con l'assegnatario della casa, che potrebbe dipendere anche dalla scelta del figlio maggiorenne di convivere con l'altro genitore, o di vivere da solo, o anche dalla morte del figlio stesso. Può poi pensarsi ad un successivo provvedimento giudiziale che affidi (o collochi) la prole minorenne presso il genitore non affidatario, ma anche al venire meno dello stato di separazione tra i genitori a seguito di riconciliazione (cfr. per tutte Cass. 10 maggio 2013, n. 11218). In particolare: il trasferimento di abitazione
Già si è visto che, ove l'assegnatario cessi di abitare nella casa coniugale, viene meno il diritto all'assegnazione. Opportunamente l'art. 337-sexies c.c. fa riferimento ad una cessazione stabile; non rileveranno dunque allontanamenti temporanei, più o meno di lunga durata, specie se sorretti da ragioni di lavoro o di salute, quando risulti la permanente destinazione dell'immobile ad abitazione dell'assegnatario e della prole. In ogni modo, l'allontanamento potrebbe riguardare sia la persona dell'assegnatario (Cass 9 agosto 2012, n. 14348, che ha escluso la perdita del diritto per una madre che viveva per cinque giorni della settimana presso l'appartamento dei propri genitori, sito in vicinanza del luogo di lavoro, e tornava presso la casa familiare nei fine settimana, nei giorni festivi e nel periodo estivo) sia quella dei figli (i classici esempi sono i trasferimenti per motivi di studio, che non recidono il legame con la casa familiare, in caso di regolari ritorni nei fine settimane e durante la sospensione dei corsi: più di recente Cass. 17 giugno 2019, n. 16134 ha precisato che i rientri devono essere regolari e continuativi, non meramente lasciati alla discrezionalità del figlio, ma v. anche Cass. 27 ottobre 2020, n. 23473; nella giurisprudenza di merito, per tutte, Trib. Velletri 1° marzo 2019, ined.) La perdurante permanenza del figlio nella casa
Una fattispecie particolare si presenta quando l'affidatario cessi di abitare nella casa familiare, di proprietà comune o esclusiva dell'altro genitore, e qui vi rimangano i figli. Può trattarsi di un allontanamento volontario, ovvero involontario (si pensi ad un incidente che comporti un ricovero in struttura specializzata, senza possibilità di rientro in casa, quantomeno in un tempo ragionevole); rileva altresì il decesso dell'assegnatario. In una situazione di “normalità”, può ipotizzarsi che, previa un'eventuale dichiarazione di cessazione dell'assegnazione (salvo in caso in cui essa sia automatica, in conseguenza di un evento letale), il genitore non assegnatario prenda possesso dell'abitazione e conviva con i figli. Ma quegli potrebbe non avere tale intenzione o i figli (di regola, se maggiorenni) potrebbero non volere convivere con lui. Ci si chiede allora se beneficiari dell'assegnazione possano essere i figli stessi. La questione non è certo peregrina, essendosi già presentata all'esame della giurisprudenza, pure di legittimità. È da rammentare che l'assegnazione della casa, pur rispondendo ad esigenze personali dei figli, rappresenta uno speciale diritto di godimento attribuito al genitore. La specialità è desumibile dalla stessa trascrivibilità dell'assegnazione e comunque dall'opponibilità a terzi acquirenti o aventi causa jure successionis, tanto è vero che essa perdura pure quando cessi l'obbligo di mantenimento dei figli, a seguito della morte del coniuge onerato non assegnatario (Cass. 15 gennaio 2018, n. 772). Non è ammissibile la cessione della titolarità del diritto in questione, quando il soggetto assegnatario lo perda, per uno degli eventi sopra menzionati. Il figlio, beneficiario di fatto dell'assegnazione, non ha pertanto titolo per continuare ad abitare la casa jure proprio, in caso di cessazione dell'assegnazione. In tal senso v. Cass. 14 luglio 2015, n. 14727, che aveva respinto la domanda di una figlia maggiorenne, la quale chiedeva di poter continuare ad abitare nella casa del padre, dopo che la madre se ne era allontanata. Aggiunge la Suprema Corte che, se mai, la figlia avrebbe potuto richiedere un'integrazione del contributo al mantenimento al padre, per far fronte alle sopravvenute necessità abitative. Da tanto consegue come la permanenza del figlio in quella che una volta era la casa familiare, contro il volere del proprietario, può integrare gli estremi di un'occupazione senza titolo, suscettibile di cessazione attraverso il rito speciale ex art. 447-bis c.p.c.. In tal senso v. Trib. La Spezia 17 gennaio 2018 ined., resa in una fattispecie in cui una madre aveva comodato al proprio figlio l'appartamento destinato ad uso familiare, successivamente assegnato alla nuora in sede di separazione, siccome collocataria di prole minorenne. L'assegnataria si era allontanata dall'immobile, in cui aveva continuato ad abitare il figlio, nel frattempo divenuto maggiorenne, ma non autosufficiente. Precisa il tribunale che il diritto della comodante al rilascio da parte del nipote non poteva essere in alcun modo pregiudicato dal mancato adempimento dell'obbligo di mantenimento da parte dei genitori, ben potendo il giovane assumere le dovute iniziative in sede giudiziale. Conclusioni
Se pur l'assegnazione della casa familiare risponde all'esigenza di garantire ai figli il mantenimento dell'habitat domestico, gli stessi non sono titolari del diritto all'assegnazione, ma beneficiari di fatto. In caso di allontanamento o di decesso del genitore assegnatario, non è configurabile un diritto del figlio a continuare ad abitare nella casa stessa. Questi peraltro, nella ricorrenza dei presupposti per beneficiare del mantenimento nei confronti dei genitori, ben potrà richiedere un contributo tale da coprire sopravvenuti oneri alloggiativi. |