Blue whale challenge: è sempre istigazione al suicidio?
18 Agosto 2021
Massima
Le condotte poste in essere dai c.d. “curatori”, nell'ambito del gioco Blue Whale Challenge integrano il reato di violenza privata (art. 610 c.p.) e atti persecutori (art. 612-bis c.p.) e non il più grave reato di istigazione al suicidio ex art. 580 c.p. che opera solo laddove l'istigazione venga accolta o quantomeno il suicida, fallendo nel suo intento, si procuri una lesione grave o gravissima. Nel caso di specie, il giudice monocratico ha ritenuto che se da un lato le condotte realizzate dall'imputata possono ritenersi intrinsecamente finalizzate all'istigazione al suicidio - ciò proprio in ragione della struttura stessa della serie di “sfide” di cui è composta la Blue Whale Challenge, culminante nel suicidio del giocatore -, dall'altra parte tale istigazione non può dirsi accolta, non essendovi stato il suicidio della vittima, né dall'istigazione sono derivate lesioni gravi e gravissime.
Fonte: ilpenalista.it Il caso
Con la sentenza n. 5678/2021 la nona sezione penale del Tribunale di Milano si è pronunciata sul fenomeno della Blue Whale Challenge condannando una ragazza di circa 25 anni per i delitti di atti persecutori (art. 612 bis c.p.) e violenza privata (art. 610 c.p.), aggravati dall'asserita appartenenza, da parte della stessa, ad un'associazione criminosa internazionale (art. 339 c.p.). Secondo le accuse, la giovane imputata si era spacciata come “caratorlady”, ossia curatrice, e con minaccia aveva costretto via social una minorenne di Palermo - all'epoca dodicenne - a praticare atti di autolesionismo consistenti nell'incidersi alcuni tagli sul corpo e ad inviarle successivamente delle foto (come primo step delle 50 prove di coraggio contemplate dalla Blue Whale Challenge), nonché a non interrompere il gioco pena la sua morte, provocando nella stessa un perdurante e grave stato di ansia e di paura e un fondato timore per la propria incolumità. La vicenda trae origine da una denuncia contro ignoti sporta da una giornalista che apprendeva i fatti (denunciati) nel corso di un'inchiesta che la stessa svolgeva sul fenomeno della c.d. Blue Whale Challenge, ossia quel gioco di ruolo in cui dei ragazzini devono superare 50 prove di coraggio che vanno dal ripetuto autolesionismo al suicidio. La giornalista, fingendo di essere una minorenne, pronta ad affrontare e superare le 50 prove di coraggio, creava profili fittizi - sulle piattaforme social Instagram e Facebook - entrando, così, a in contatto con la vittima, la quale le riferiva di aver cominciato “realmente” a giocare con l'imputata. Secondo la ricostruzione degli inquirenti la giornalista, tra maggio e giugno del 2017, con la complicità di un ragazzo di origini russe, all'epoca dei fatti sedicenne, avrebbe contattato la vittima mediante profili Instagram e Facebook sostenendo di essere una dei “curatori” del gioco, indicandole e imponendole - in concorso con il ragazzo sedicenne- gli atti da compiere. L'imputata, dunque, prendendo parte al noto gioco della Blue Whale Challenge, inviava alla minorenne alcuni messaggi, tra cui uno che intimava alla vittima: “Se sei pronta a diventare una balena inciditi Yes sulla gamba, se non lo sei tagliati molte volte per autopunirti”. La stessa avrebbe, peraltro, reiterato le proprie minacce e la propria capacità intimidatoria avvertendo la persona offesa minorenne di conoscere il suo “indirizzo IP” di connessione, ossia il luogo da cui si connetteva, e quindi di poterla raggiungere e uccidere qualora avesse interrotto la partecipazione alla Blue Whale Challenge. A fronte dei predetti messaggi e delle prove dichiarative acquisite nel corso dell'istruttoria dibattimentale, secondo il giudice monocratico milanese, pur in assenza di una testimonianza diretta della persona offesa minorenne, ricorre la penale responsabilità dell'imputata, al di là di ogni ragionevole dubbio, per i reati alla stessa ascritti nei capi di imputazione. Quest'ultima veniva condannata alla pena della reclusione di 1 anno e 6 mesi con riconoscimento dei benefici della pena sospesa e non menzione nel casellario giudiziale. La questione
Il tribunale ordinario di Milano è chiamato a pronunciarsi sulla riconducibilità della condotta posta in essere dall'imputata nell'ambito del fenomeno della Blue Whale Challenge. Le soluzioni giuridiche
Partendo da quanto emerso in dibattimento, il giudice ha chiarito, in primo luogo che: «la Blue Whale Challenge consiste in un “gioco” online, nato probabilmente in Russia tra il 2015 e il 2016, che si è diffuso anche in altri Paesi, consistente in una serie di 50 “sfide” a carattere autolesionistico, culminanti con il suicidio del giocatore». «Il primo», prosegue il Tribunale, «essendo in qualche modo venuto a conoscenza del gioco e volendo parteciparvi, fa in modo di farsi contattare da un “curatore” inserendo sul proprio profilo Facebook o Instagram alcuni hashtag […], quali ad esempio “I'm a blu whale” o “Curatorfindme”, in modo tale che il curatore possa facilmente reperire le persone interessate a partecipare alla sfida. Il secondo, presentandosi come “curatore”, guida il giocatore nella serie di sfide autolesionistiche, dando al giocatore specifiche istruzioni su quali atti compiere e su come realizzarli, atti che dovrebbero culminare con il suicidio del giocatore». In secondo luogo, il giudice ha precisato che la Blue Whale Challenge non presenta «connotati di una stabile associazione di persone realmente esistente, ma sembra piuttosto atteggiarsi quale fenomeno sociale spontaneo sviluppatosi per emulazione, senza che vi sia un coordinamento a monte da parte di soggetti determinati». Calando quest'ultima riflessione nel caso sottoposto al suo giudizio, il decidente ha statuito come non vi fosse alcun elemento che facesse supporre una forma di coordinamento tra i soggetti “curatori” ma, bensì, è stata la stessa imputata ad autoattribuirsi tale ruolo, lasciando intendere alla vittima la reale esistenza di un simile coordinamento e per tale motivo ha ritenuto sussistente l'aggravante - così come contestata nei capi di imputazione - di cui all'art. 339 c.p. ossia della forza intimidatrice derivante dall'appartenenza ad una (supposta) organizzazione internazionale. Successivamente il giudice affronta la questione circa la rilevanza penale delle condotte e della loro corretta qualificazione giuridica, richiamando l'unico precedente giurisprudenziale concernente il fenomeno de quo, ossia la decisione n. 57503 del 23 novembre 2017 emessa dalla Corte Suprema di Cassazione a seguito di un ricorso in materia cautelare. In quel caso, la Suprema Corte ha dichiarato che il fenomeno della Blue Whale Challange potrebbe configurare il reato di istigazione al suicidio ex art. 580 c.p. «a condizione che la stessa (istigazione) venga accolta e il suicidio si verifichi o quantomeno il suicida, fallendo nel suo intento, si procuri una lesione grave o gravissima, escludendo la punibilità del tentativo poiché non è punibile neppure il più grave fatto dell'istigazione seguita da suicidio mancato da cui deriva una lesione lieve o lievissima». Fuoriescono da quella sfera le ipotesi di: istigazione non accolta; istigazione accolta ma non seguita dalla concretizzazione, a opera dell'istigato, di un tentativo di suicidio; nonché l'istigazione accolta, che sia però tale da comportare solo lesioni lievi o lievissime. Alla stessa stregua la Cassazione, sempre con la sentenza n. 57503/2017, si è soffermata sulla configurabilità di un ulteriore reato qual è quello dell'adescamento di minorenne di cui all'art. 609-undicies c.p. stabilendo che la condotta del “curatore” può essere riconducibile alla fattispecie de qua che testualmente recita: «per adescamento si intende qualsiasi atto volto a carpire, la fiducia del minore attraverso artifici, lusinghe o minacce posti in essere anche mediante l'utilizzo della rete internet o di altre reti o mezzi di comunicazione». Orbene, conformandosi ai predetti principi di diritto al caso di specie, il tribunale di Milano ha ritenuto corretta la qualificazione giuridica operata dalla Pubblica Accusa la quale ha inquadrato le condotte poste in essere dalla giovane imputata nel reato di atti persecutori di cui all'art. 612-bis c.p., non ritenendo operante (per i motivi che di seguito si esporranno) la clausola di riserva salvo che il fatto costituisca più grave reato e nel reato di violenza privata di cui all'art. 610 c.p. Secondo quanto motivato dal tribunale la correttezza di siffatta qualificazione trova riscontro, in primo luogo, nel fatto che, se da un lato, le condotte realizzate dall'imputata possono ritenersi “intrinsecamente” finalizzate all'istigazione al suicidio, ciò proprio in ragione della struttura stessa della serie di “sfide” di cui è composta la Blue Whale Challenge (culminante nel suicidio del giocatore), dall'altro lato, tale istigazione non può dirsi accolta, non essendovi stato il suicidio della vittima, né può dirsi che dalla medesima siano derivate lesioni grave o gravissime, posto che, secondo quanto emerso in dibattimento, la vittima si è procurata dei meri graffi superficiali. Allo stesso modo, continua il tribunale, non può ravvisarsi il reato di cui all'art. 609-undecies c.p., poiché seppur la condotta dell'imputata costituisca una forma di “adescamento” di minore (da intendersi nel senso sopra precisato), la stessa difetta del dolo specifico richiesto dalla norma ai fini della consumazione del reato. Si tratta, infatti, di un dolo specifico che consiste nel realizzare uno dei reati tassativamente previsti dalla norma incriminatrice (artt. 600, 600-bis, 600-ter, 600-quater, 600-quater, 600-quinquies, 609-bis, 609-quater, 609-quinquies e 609-octies c.p.), evidentemente carente nel caso oggetto del giudizio. In secondo luogo, trova riscontro nel fatto che le condotte poste in essere integrano tanto l'elemento oggettivo, quanto quello soggettivo dei reati di atti persecutori e violenza privata. Con riferimento alla prima fattispecie, com'è noto e come è delineato dalla giurisprudenza costante essa rappresenta una fattispecie di reato abituale ad evento di danno, che sanziona ogni caso di minaccia o molestia idonea a cagionare uno dei tre eventi, alternativi ,contemplati dalla norma: l'aver ingenerato nella vittima un perdurante e grave stato di ansia e di paura, ovvero un fondato timore per l'incolumità propria o di un prossimo congiunto, oppure ancora l'aver costretto la persona offesa ad alterare le proprie abitudini di vita (v. ex plurimis Cass. pen., Sez. V, 5 giungo 2012, n. 39519). Nel caso di specie, secondo quanto emerso dalle prove dichiarative e soprattutto documentali, l'imputata ha tenuto reiteratamente tanto una condotta minacciosa quanto una condotta molesta. Invero, dai diversi messaggi acquisiti, la stessa, con lo scopo di indurre la vittima a proseguire nello svolgimento delle prove autolesionistiche, la minacciava di conoscere il suo domicilio, cagionandole così un forte timore per la propria incolumità nonché, intromettendosi nella sua sfera personale, le arrecava “molestia” consistente nell'imporle di guardare alle ore 4.20 del mattino filmati ad alto contenuto violento e psichedelico e a provocarsi dei tagli in più parti del corpo. Il tutto, veniva, peraltro, realizzato nel breve arco temporale di quattro giorni, periodo ritenuto dal magistrato milanese idoneo ad integrare il requisito della “reiterazione delle condotte” in quanto per giurisprudenza consolidata il reato può dirsi integrato «anche quando le singole condotte sono reiterate in un arco temporale di tempo molto ristretto (anche nell'arco di una sola giornata), a condizione che si tratti di atti autonomi e che la reiterazione di questi, pur concentrata in un brevissimo arco temporale, sia la causa effettiva di uno degli eventi considerati dalla norma incriminatrice» (Cass. pen., Sez. V, 13 giugno 2016,n. 38306 e Cass. pen., Sez. V,3 gennaio 2018, n. 104). L'imputata, quindi, con la propria condotta realizzava due eventi tipici previsti dalla norma incriminatrice ai fini del perfezionamento del reato, cioè l'aver cagionato un perdurante e stato d'ansia o di paura e l'aver generato un fondato timore per la propria incolumità, provati dalla testimonianza de relato resa dalla giornalista e dai messaggi dal quale emergeva uno stato di ansia e timore della vittima (“mi ha fatto vedere video angoscianti […] Sto per piangere, ti prego aiutami. Ho paura. Mi sento male […] Io non voglio farlo. Non mi voglio più tagliare basta […] Mi fa fare delle cose assurde. È stato bruttissimo. […] Non so come fare, questa mi uccide, Sto Piangendo”). Sul punto a nulla rileva – ai fini della configurabilità del reato - la circostanza che la prova della sussistenza dei suddetti eventi lesivi emerga, non da una dichiarazione diretta della vittima ma, bensì, da un complesso di elementi fattuali altrimenti acquisiti, poiché secondo il Supremo Consesso «ai fini della configurabilità del reato di atti persecutori non è necessario che la vittima prospetti espressamente e descriva con esattezza uno o più degli eventi alternativi del delitto, potendo la prova di essi desumersi dal complesso degli elementi fattuali altrimenti acquisiti e dalla condotta stessa dell'agente» (Cass. pen., Sez. V, 8 ottobre 2018, n. 44952). Essendo state, poi, le condotte minacciose e moleste reiterate attraverso il sistema di messaggistica Messenger del social network Facebook, il giudice monocratico ha correttamente confermato e applicato l'aggravante dell'impiego del mezzo informatico di cui all'art. 612-bis, comma 2, c.p. Del pari, il giudice milanese ritiene sussistente il reato della violenza privata ex art. 610 c.p. in quanto le minacce prospettate dall'imputata, consistenti nel «costringere la persona offesa a compiere atti contrari alla propria volontà» (quali auto procurarsi lesioni cutanee, trasmettere le foto che provassero la lesione provocata e vedere filmati dal contenuto violento) hanno, senza alcun dubbio, determinato una compressione della libertà morale della stessa. Infatti, precisa il giudice, «deve osservarsi (nel caso di specie) che la violenza privata si è estrinsecata nella coartazione della volontà della vittima che, soggiogata dalla curatrice, si è vista costretta a trasmetterle le immagini attestanti il superamento della prova da lei richiesta (ciò indipendentemente dalla circostanza che le persone offese abbiano potuto reperire su internet quelle immagini, senza effettivamente compiere le azioni ivi raffigurate)». Entrambi i reati sono stati, altresì, ritenuti aggravati ex art. 339 c.p. dal fatto che l'imputata si sarebbe avvalsa della forza intimidatrice derivante da associazioni segrete: il dato è conforme alla giurisprudenza di legittimità secondo la quale «l'aggravante ricorre quando il reo abbia manifestato in qualsiasi modo la possibilità di far intervenire la vera o presunta associazione segreta così inducendo il timore di una rappresaglia da parte di quest'ultima, di qualsiasi genere» (Cass. pen., Sez. V, n. 10941/1986) nonché «diventa irrilevante l'esistenza effettiva o meno del vincolo con l'associazione e l'eventuale dissociazione della stessa, essendo, l'aggravante del tutto slegata dall'attività effettiva dell'associazione (Cass. pen., Sez. V, n. 25191/2012)». Opportunamente la decisione ritiene non assorbito il reato di violenza privata in quello di atti persecutori in quanto ivi opera l'istituto del concorso formale di reati. Invero, la decisione si conforma a quanto statuito sul punto dalla giurisprudenza di legittimità secondo la quale : «è configurabile il concorso tra il delitto di violenza privata e quello di atti persecutori non sussistendo tra i due un rapporto strutturale di specialità unilaterale ai sensi dell'art. 15 c.p., dal momento che il delitto di cui all'art. 612-bis c.p., diversamente dal primo non richiede necessariamente l'esercizio della violenza e contempla un evento – l'alterazione delle abitudini di vita della vittima - di ampiezza molto maggiore rispetto alla costrizione della vittima ad uno specifico comportamento, che basta ad integrare il delitto previsto dall'art. 610 c.p.»(Cass. pen., Sez. V, 18 aprile 1019, n. 22475. Si veda anche Cass. pen., Sez. V., 12 gennaio 2021, n. 1541).
Sul versante processuale la decisione si segnala per la mancata assunzione della testimonianza diretta da parte della persona offesa, sia nella fase delle indagini sia nella fase dibattimentale. Invero, l'impianto probatorio che ha consentito di giungere alla condanna dell'odierna imputata si basa su testimonianze de relato e precisamente sulla circostanza che le dichiarazioni della vittima attinenti le minacce e le molestie subite da parte del “curatore” sono entrate “indirettamente” nel compendio probatorio, attraverso il racconto offerto dal padre della vittima e dalla giornalista (entrambi sentiti in dibattimento) nonché mediante le emergenze documentali, costituite dalle chat intercorse tra la persona offesa e l'imputata. A parere del giudice monocratico, ciò non ha influito in alcun modo sul rispetto delle garanzie e dei diritti della difesa, in quanto, quest'ultima, non solo non ha ritenuto – in sede di formulazione delle richieste istruttorie - di dover sentire la persona offesa sui fatti di causa ma, nel corso dell'istruttoria dibattimentale, la stessa, non ha ritenuto necessario ascoltare ex art. 195 c.p.p. la persona offesa quale teste di riferimento delle dichiarazioni rese dal padre e dalla giornalista. A tal proposito va ricordato come costituisca principio pacifico in giurisprudenza quello per cui «sono utilizzabili, senza alcuna violazione dell'art. 195, comma 1, c.p.p., le dichiarazioni “de relato” qualora nel giudizio di primo grado la difesa non si sia avvalsa del diritto di esaminare la fonte della testimonianza indiretta» (Cass. pen., Sez. V, 22 ottobre 2014, n. 50346). Tuttavia, il giudicante ha tenuto conto di questa scelta difensiva valutandola come «espressione di una sensibilità giuridica e di una corretta interpretazione teleologica degli artt. 90-quater e 190-bis c.p.p. per cui è stata opportunamente salvaguardata l'esigenza di evitare la c.d. vittimizzazione secondaria della persona offesa, non ravvisandosi, anche a fronte di un quadro probatorio completo, la sussistenza di specifiche esigenze che avrebbero consigliato l'audizione in dibattimento della minore». Né tantomeno, per le medesime motivazioni, il giudice ha ritenuto necessario far ricorso ai poteri istruttori di cui all'art. 507 c.p.p. In conclusione, il decidente ha ritenuto sussistenti e correttamente qualificati i reati contestati, in quanto la vittima minorenne non si è determinata in modo autonomo nelle proprie scelte ma è stata vittima di indebite pressioni da parte dell'imputata la quale, in maniera lapalissiana, ha fatto leva sulla vulnerabilità e suggestionabilità della minore. Osservazioni
Negli ultimi anni stiamo assistendo ad un graduale sviluppo dei giochi mortali svolti via social. Fra questi rientra il c.d. Blue Whale Challenge che lavora sulla psiche degli adolescenti, trascinandoli in un vortice da cui uscirne fuori, sani e salvi, appare alquanto difficile, ma non impossibile. L'enorme rilievo sociale che ha assunto il fenomeno de quo ha richiamato l'attenzione nonché l'intervento anche della giurisprudenza che, sulla base del caso concreto alla stessa sottoposta, ha inquadrato il fenomeno in fattispecie di reato diverse. Invero, come premesso, se da un lato, la Corte Suprema di Cassazione, con la decisione n. 57503/2017, ha ricondotto il fenomeno nel reato di istigazione al suicidio ex art. 580 c.p. ovvero di adescamento di minore ex art. 609-undecies c.p., dall'altro lato, il tribunale di Milano con la sentenza oggetto d'esame (n. 5678/2021) ha ritenuto, invece, che se nel caso concreto non derivi l'evento più grave dell'istigazione al suicidio, allora il fenomeno ben potrebbe integrare gli estremi dei reati di atti persecutori ex art. 612-bis c.p. e/o di violenza privata ex art. 610 c.p. Come si comprende l'inquadramento del fenomeno in un'unica fattispecie di reato che riesca a garantire una piena tutela della vittima non è semplice. Verosimilmente l'ipotesi giudicata dal tribunale ambrogino sarebbe potuta rientrare nel reato di plagio ex art. 603 c.p. il quale stabiliva la pena della reclusione da 5 a 15 anni per «chiunque sottopone una persona al proprio potere in modo da ridurla in totale stato di soggezione». Come è noto, con la sentenza n. 96/1981, la Corte Costituzionale ha dichiarato l'illegittimità dell'ipotesi delittuosa indicata in quanto contrastante «con il principio di tassatività della fattispecie contenuto nella riserva assoluta di legge in materia penale, consacrato nell'art. 25 della Costituzione». Nello specifico, la Corte sancì l'indeterminatezza della formulazione della fattispecie adducendo «essenzialmente l'inverificabilità del fatto contemplato dalla fattispecie, l'impossibilità comunque del suo accertamento con criteri logico–razionali, l'intollerabile rischio di arbitri dell'organo giudicante». In altri termini, la sentenza affermava che i comportamenti descritti nel reato di plagio erano “irreali o fantastici o comunque non avverabili”, che dovevano considerarsi “inesistenti o non razionalmente accertabili” e che non era possibile constatare quando poteva dirsi raggiunto il totale stato di soggezione che qualificava questo reato. La previsione è stata censurata in quanto contemplava una sorta di “manipolazione mentale” che oggi trova, a parere di chi scrive, la sua essenza nei diversi giochi “mortali” eseguiti via social, tra cui quello oggetto di disamina (Blue Whale Challenge) la cui ratio è proprio quella di manipolare e deviare la mente dei giovanissimi convincendoli della loro inutilità e predestinazione al suicidio. In conclusione, è possibile affermare che le due vicende giunte all'attenzione dei nostri Giudici fanno emergere molteplici spunti sui quali poter iniziare a costruire una vera tutela nei confronti delle vittime di queste nuove forme di violenza psicologica basate essenzialmente sulla “vulnerabilità”, quale tratto comune di molti adolescenti. È chiaro che un ruolo fondamentale spetta al diritto che deve garantire quella funzione deterrente nei confronti di chiunque voglia soggiogare gli adolescenti fragili per spingerli a compiere gesti drammatici e a volte irreparabili. |