La singolare vicenda della “improcedibilità”

27 Agosto 2021

L'improcedibilità, introdotta nella proposta di riforma del processo penale, è frutto di un compromesso, volto a propiziare il consenso dei pentastellati. Sono previsti termini di durata massima per le fasi dell'appello e del ricorso in cassazione con un complesso regime di proroghe, differenziato per categorie di reati. Diversi profili critici rendono problematico il rapporto con i principi dell'obbligatorietà dell'azione penale, della ragionevole durata del processo e dell'uguaglianza tra imputati.
Abstract

L'improcedibilità, introdotta nella proposta di riforma del processo penale, è frutto di un compromesso, volto a propiziare il consenso dei pentastellati. Sono previsti termini di durata massima per le fasi dell'appello e del ricorso in cassazione con un complesso regime di proroghe, differenziato per categorie di reati. Diversi profili critici rendono problematico il rapporto con i principi dell'obbligatorietà dell'azione penale, della ragionevole durata del processo e dell'uguaglianza tra imputati.

L'ingrato compito della Commissione Lattanzi

Riepiloghiamo anzitutto le tappe in cui si è sviluppata, sul terreno della prescrizione, la riforma della ministra Marta Cartabia.

Il 16 marzo 2021 viene nominata una Commissione presieduta da Giorgio Lattanzi con un compito ambizioso, ma con mezzi decisamente limitati. Compito ambizioso perché l'obiettivo è di ridurre del 25% la durata del processo penale; mezzi limitati perché, nel dissesto in cui versa il codice di rito, ormai disarticolato e reso pressoché illeggibile da mille ritocchi e sentenze costituzionali, a realizzare quel fine servirebbe una legge-delega per la riforma globale del sistema processuale. Alla Commissione Lattanzi viene, invece, chiesto di intervenire attraverso emendamenti al disegno di legge, già presentato dall'ex ministro Bonafede (N. 2435-A - Delega al Governo per l'efficienza del processo penale e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari pendenti presso le corti d'appello - 13 marzo 2020), quindi con un metodo che ricorda più il bricolage che una riforma degna di questo nome.

Dopo breve tempo, il 24 maggio 2021, la Commissione presenta il proprio lavoro, prospettando, in tema di prescrizione, due ipotesi di riforma. La prima, ritenuta prioritaria, ripristina, con opportuni accorgimenti, la prescrizione già soppressa dall'ex ministro Bonafede dopo l'emanazione della sentenza di primo grado. La seconda, presentata come subordinata, prevede che la prescrizione del reato si interrompa definitivamente con l'esercizio dell'azione penale, a partire dal quale inizierebbe a decorrere, con termini articolati fase per fase, una prescrizione ‘processuale', tale cioè da determinare la fine del processo con una sentenza di improcedibilità.

La proposta di ripristino della prescrizione sostanziale

Qualche breve rilievo sulla proposta prioritaria. Il ripristino della prescrizione sostanziale, come causa estintiva del reato, appare del tutto ragionevole. La prescrizione è - e deve restare - una causa estintiva del reato, appartenente al diritto sostanziale e legata essenzialmente a due ragioni: da un lato, l'oblio, l'usura che il decorso del tempo provoca sulla memoria del reato; dall'altro, la funzione rieducativa della pena che sarebbe compromessa se la sua applicazione avvenisse a troppa distanza dal fatto. Come tale, deve operare dal momento della commissione del reato sino a quello della sentenza irrevocabile, perché è solo questa che accerta definitivamente il reato, giustificando l'applicazione della pena. Sopprimere la prescrizione a partire da una determinata fase equivale ad ammettere che da quel momento il processo possa indefinitamente protrarsi, frustrando entrambe le finalità appena ricordate; ed è ovvio che i relativi termini debbano variare a seconda della gravità del reato, che si riflette sugli scopi perseguiti dalla prescrizione.

Pur costituendo indirettamente una garanzia contro un processo senza fine, la prescrizione sostanziale non ha nulla a che vedere con l'impegno alla ragionevole durata del processo, contemplato nell'art. 111 comma 2 Cost. per almeno due ragioni. La prima è che, quando il precetto costituzionale parla di durata ragionevole del processo si riferisce ad interventi (organizzativi e processuali) volti a garantire una tempestiva risposta al tema aperto dall'accusa nel senso della colpevolezza o dell'innocenza; dichiarando estinto il reato, la prescrizione, pur perfettamente conforme alla Costituzione, apporta innegabilmente un forte limite alla funzione cognitiva del processo come strumento di verifica dell'accusa. La seconda è che i termini della prescrizione, calibrati sulle sue tipiche finalità (funzione rieducativa della pena e memoria del reato), difficilmente rispondono alle esigenze di durata ragionevole del processo, risultando ora troppo lunghi, quando il reato sia scoperto immediatamente, ora troppo brevi, quando lo sia tardivamente.

La sentenza che dichiara estinto il reato è qualificata dall'art. 531 c.p.p. come sentenza di non doversi procedere; ma, in realtà, appartiene al genere delle sentenze di proscioglimento, essendo costruita sul presupposto ipotetico che sussista il fatto del quale accerta il valore giuridico (F. Cordero [2012], 976,985). È una sentenza almeno parzialmente di merito, perché, se risulta evidente l'innocenza dell'imputato, il giudice, anziché dichiarare estinto il reato, deve pronunciare sentenza di assoluzione con la relativa formula, ai sensi dell'art. 129 comma 2 c.p.p. Se poi l'estinzione del reato sopraggiunge ad istruzione probatoria ormai conclusa, vi sono tutti i presupposti perché il giudice assolva l'imputato, ogni qualvolta non vi sia la prova oltre ogni ragionevole dubbio della colpevolezza; altrimenti, dichiarerà estinto il reato, anche se la sua sussistenza, spesso affermata in motivazione, non può giuridicamente dirsi ‘accertata' perché non espressa nel dispositivo (P. Ferrua, Il giusto processo tra governo della legge ed egemonia del potere giudiziario, in Diritto penale e processo, 2020, p. 9).

Contrariamente a quanto sostiene qualche autore (O. Mazza [2021], 2 s), non vi è nulla di singolare nella circostanza che la dichiarazione di estinzione del reato regga su un giudizio ipotetico. Anche altre formule di proscioglimento hanno la medesima struttura: ad esempio, la sentenza di proscioglimento perché il fatto non è preveduto dalla legge come reato non accerta la sussistenza del fatto, né questa figura nel dispositivo; ma nessuno pensa di sopprimere quel tipo di sentenza o di convertirla in una decisione di non doversi procedere. Proporre di sostituire l'improcedibilità alla dichiarazione di estinzione del reato è suggerimento suicida perché la "improcedibilità" prevale su ogni altra formula assolutoria, anche se vi fosse agli atti la prova evidente dell'innocenza.

Per il resto, gli emendamenti della Commissione Lattanzi si impegnano a ridurre i tempi della giustizia su due fronti. Il primo è rappresentato da una serie di restrizioni sul terreno dell'appello (soppressione dell'appello del pubblico ministero, riforma dell'appello dell'imputato secondo il modello dell'impugnazione ‘a critica vincolata', con predeterminazione legislativa dei motivi). Il secondo da una serie nutrita di misure volte a favorire, in vari tempi e modi, l'uscita dal processo, riducendo il più possibile il passaggio alla fase dibattimentale e, di conseguenza, il contraddittorio nella formazione della prova: modifica del presupposti per l'archiviazione e per la sentenza di non luogo a procedere nell'udienza preliminare, da emanare quando «gli elementi acquisiti […] non sono tali da determinare la condanna» (così l'art 3 lettere a) e i-bis) delle Proposte di emendamenti al Disegno di legge A.C. 2435, con una formula successivamente modificata in «ragionevole previsione di condanna»); riduzione fino alla metà della pena in caso di patteggiamento, archiviazione ‘meritata' (due innovazioni in seguito soppresse); estensione dell'ambito operativo per la messa alla prova e per la tenuità del fatto; e, infine, varie misure riparative.

Si realizza così un disegno di fuga dal dibattimento, rispetto al quale sarebbe stato di gran lunga preferibile un coraggioso programma di depenalizzazione, sicuramente più conforme alle esigenze di un processo accusatorio. Sarebbe tempo, infatti, di comprendere che il penale deve iniziare solo dove si ritenga del tutto insufficiente, ai fini della riparazione dell'offesa, il risarcimento del danno o altre sanzioni civili o amministrative. Non è un buon metodo quello di proseguire in una dissennata politica di penalizzazione, salvo offrire all'imputato la possibilità di uscire dal processo con misure riparative. Meno penale e più responsabilità civile, amministrativa e politica è l'obiettivo verso cui, a nostro avviso, ci si dovrebbe indirizzare. Purtroppo, la pan-penalizzazione risponde all'esigenza di appagare istanze punitive molto diffuse nella nostra società.

Alla ricerca dei sinonimi: via la prescrizione, benvenuta l'improcedibilità

Era prevedibile che il rispristino della prescrizione nel giudizio di appello e di cassazione non riuscisse gradito ai pentastellati, ai quali la sua definitiva interruzione dopo il primo grado, già operata dall'ex ministro Bonafede, appariva come un obiettivo irrinunciabile, un articolo di fede. Il tono delle dichiarazioni era più o meno di questo tenore: "non si parli di ritorno alla prescrizione!"; bando, dunque, tanto alla prescrizione sostanziale quanto a quella processuale.

Fu allora che qualcuno, non trovando nel repertorio degli argomenti nulla che potesse convincere i pentastellati ad accettare il ritorno alla prescrizione, ebbe una folgorante idea, volta a propiziare il loro ambito consenso. Trovare un'alternativa sul piano linguistico che non evocasse, nemmeno nell'etimo, l'idea della detestata prescrizione; in sostanza, pensare ad un gioco di parole in cui attirare i pentastellati, non propriamente definibili come raffinati cultori di teoremi giuridici.

La prescrizione sostanziale come causa estintiva del reato non si presta a questa soluzione, non potendo essere diversamente designata. La prescrizione "processuale", invece, sì, perché tronca il processo, senza estinguere il reato, con una sentenza di non doversi procedere. Dunque, può benissimo essere chiamata improcedibilità, amputando la parola prescrizione. E così avviene, perché da quel momento la prescrizione processuale – sino allora sempre chiamata prescrizione – si converte nominalmente in improcedibilità, pur restando strutturalmente tale e quale.

La prova riesce e al Consiglio dei ministri, convocato l'8 luglio 2021, i ministri pentastellati, sedotti dalla nuova denominazione, votano gli emendamenti, cadendo nell'illusione referenziale; o meglio, fingendo di cadere, perché verosimilmente, nell'intimo, hanno ben compreso che in realtà veniva loro offerta una prescrizione, forse più minacciosa ancora, per le sorti del processo, rispetto alla prescrizione sostanziale, come causa estintiva del reato. Importante, per non essere umiliati, è che sulla parola prescrizione cada una sorta di tabù, un biblico divieto di "nominazione".

Grande soddisfazione, per opposti motivi, da parte delle eterogenee forze di maggioranza. I pentastellati, esultanti per avere scongiurato il temuto ritorno alla prescrizione sostanziale già soppressa dal disegno di legge Bonafede; gli altri partiti, pronti a rivendicare il merito di avere finalmente attuato il principio costituzionale della ragionevole durata. Avvilente vicenda che vede la politica scendere al suo più basso livello, riducendo il processo a teatro delle ragioni di Stato. Mai la cinica ricerca del consenso, anche a costo dell'inganno, fu così teorizzata, glorificata e praticata.

Scrive su la Repubblica del 6 luglio 2021 Liana Milella: «Via quella parola – “prescrizione” – protagonista dell'ormai biennale diatriba sulla giustizia. Dalle stanze della ministra della Giustizia Marta Cartabia è uscito il nuovo vocabolo che dominerà il dibattito tra i partiti sulla riforma penale. La parola è “improcedibilità”. Si chiamerà così il meccanismo giuridico destinato a sostituire il “fine processo mai” dell'ex guardasigilli Alfonso Bonafede con la prescrizione bloccata in primo grado».

I termini di durata massima e la progressiva estensione delle proroghe

Nel testo approvato l'8 luglio 2021 dal Consiglio dei ministri la prescrizione sostanziale si interrompe definitivamente con la sentenza di primo grado; da quel momento subentra l'improcedibilità, i cui termini sono fissati in due anni per l'appello e in un anno per la cassazione. Tuttavia, «nei procedimenti per i delitti di cui all'articolo 407, comma 2, lettera a), e per i delitti di cui agli articoli 317, 318, 319, 319-bis, 319-ter, 319-quater, 320, 321, 322 e 322-bis del codice penale i termini di durata massima del processo possono essere prorogati con ordinanza del giudice procedente nel caso di giudizio particolarmente complesso, in ragione del numero delle parti o delle imputazioni o del numero o della complessità delle questioni di fatto o di diritto da trattare, per un periodo non superiore a un anno nel giudizio di appello e a sei mesi nel giudizio di legittimità».

La soluzione, condivisa dai vertici, incontra ostilità presso il popolo pentastellato, non così ingenuo da non percepire che l'improcedibilità altro non è che la prescrizione processuale. Dei malumori si fa subito interprete l'ex premier Giuseppe Conte che dapprima protesta vivamente (“Non possiamo consentire che possano svanire nel nulla centinaia di migliaia di processi e questo è un rischio concreto”: così il 20 luglio 2021, agenpress.it), poi inizia una trattativa per cercare un accordo che sottragga al rischio della improcedibilità i più gravi reati. A quel punto le altre forze della maggioranza, decise a non lasciare ai pentastellati il monopolio degli emendamenti, iniziano a suggerire modiche al testo già approvato, ora accodandosi alle richieste di Conte, ora prospettando nuove eccezioni da introdurre all'ordinario regime della improcedibilità. Un coro, insomma, di piccole e grandi signorie, politicamente assai distanti tra loro, ma unite nella determinazione a rivendicare la propria benefica impronta nel testo definitivo.

Si giunge così, nel Consiglio dei ministri del 29 luglio 2021, ad un faticoso e contorto compromesso, articolato in uno stillicidio di termini, proroghe disposte dal giudice ed esclusioni dal regime di improcedibilità: con il risultato che ogni forza politica rivendicherà, a suo esclusivo merito, questo o quel frammento della nuova disciplina. Il testo emendato dal governo viene approvato dalla Commissione giustizia e, infine, dalla Camera dei deputati il 3 agosto 2021 (Atto Camera n. 2435 - Delega al Governo per l'efficienza del processo penale nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari).

Ma, una volta aperta la via alle proroghe dei termini e alle deroghe al regime ordinario, tutto lascia prevedere che ad esse si continuerà a ricorrere ad ogni emergenza criminosa. Qualcuno sicuramente proporrà di estendere le proroghe o di escludere l'improcedibilità per tutti gli incidenti e le omesse cautele sul lavoro. Poi sarà la volta dei reati ambientali; poi di quelli informatici che mettono a rischio la sicurezza dei servizi offerti dallo Stato, e via di questo passo. E, a differenza di quanto accadeva con la prescrizione sostanziale, nessuno potrà invocare un precedente, più favorevole regime, perché le disposizioni in tema di improcedibilità trovano immediata applicazione secondo la regola del tempus regit actum.

Si proseguirà su questo metro sino a quando, in un lampo di lucidità, non apparirà chiaro che è delirio la pretesa di fissare per legge tempi massimi di svolgimento dei processi. Forse allora - dico forse'- si capirà che è mille volte meglio tornare alla prescrizione sostanziale come causa estintiva del reato, che non ha la pretesa di garantire la ragionevole durata del processo, ma obbedisce ad altri fini (funzione rieducativa della pena, oblio sulla memoria del reato).

Il nuovo regime della improcedibilità

Nel disegno di legge destinato all'esame del Senato (S.2353), la nuova improcedibilità è così disciplinata:

a) il regime ordinario dei termini di durata massima resta definito in due anni per l'appello e in uno per la cassazione; in caso di giudizi particolarmente complessi, i termini sono prorogabili, con ordinanza motivata del giudice procedente, ricorribile in cassazione, per un periodo non superiore a un anno per l'appello e sei mesi per il giudizio di cassazione;

b) ulteriori proroghe della medesima durata, che non possono superare complessivamente tre anni nel giudizio di appello e un anno e sei mesi nel giudizio di cassazione, possono essere disposte «per i delitti aggravati ai sensi dell'articolo 416-bis primo comma del codice penale»;

c) ulteriori proroghe della medesima durata, senza un limite temporale massimo, possono essere disposte «per i delitti commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell'ordinamento costituzionale per i quali la legge stabilisce la pena della reclusione non inferiore nel minimo a cinque anni o nel massimo a dieci anni, per i delitti di cui agli articoli 270, terzo comma, 306, secondo comma, 416-bis, 416-ter, 609-bis, nelle ipotesi aggravate di cui all'articolo 609-ter, 609-quater e 609-octies del codice penale, […] e per il delitto di cui all'articolo 74 del testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309»;

d) l'improcedibilità per superamento dei termini di durata massima è esclusa per i reati punibili con l'ergastolo.

Dubbi legittimità costituzionale: l'impegno della legge alla ragionevole durata e l'esercizio obbligatorio dell'azione penale

La disciplina appena esposta può essere criticata da due distinti punti di vista:

a) sotto il profilo della inammissibilità della prescrizione processuale (o improcedibilità), comunque sia regolata, nel nostro sistema costituzionale, con particolare riguardo agli artt. 111 comma 2 e 112 Cost.;

b) sotto il profilo della scarsa coerenza del regime congegnato nel disegno di legge in esame.

Iniziando dal primo profilo, analizziamo anzitutto il rapporto tra la prescrizione processuale e il principio costituzionale della ragionevole durata. A questo riguardo la prescrizione processuale vive una sostanziale contraddizione che emerge bene dal raffronto con la prescrizione sostanziale, rimasta in vita sino alla conclusione del giudizio di primo grado. Mentre, per le ragioni già esposte, la prescrizione sostanziale non pretende in alcun modo di garantire la ragionevole durata del processo, essendo funzionale ad altri scopi (v. retro), la improcedibilità è inevitabilmente proiettata verso questo fine, sia per contrasto con la prescrizione sostanziale, sia perché calibrata sulle fasi del processo; né si vede a quale altro fine potrebbe corrispondere. Nello stesso tempo appare del tutto inidonea a realizzare in concreto tale obiettivo per almeno due ragioni.

Anzitutto, quando l'art. 111 comma 2 Cost. assegna alla legge il compito di assicurare la ragionevole durata del processo, si riferisce palesemente ad interventi volti ad accelerare il corso del processo così da giungere in tempi ragionevoli ad una decisione sul merito dell'accusa; non certo a troncarlo con una sentenza di improcedibilità che segna la più nichilistica e vuota fra le possibili conclusioni del processo. In secondo luogo, i termini fissati per legge risultano inevitabilmente troppo lunghi o troppo brevi. Troppo lunghi quando siano prudenzialmente fissati in modo da garantire al processo di giungere ad un accertamento nel merito dell'accusa; troppo brevi, se misurati su quella che sarebbe, in un sistema ideale di giustizia, la ragionevole durata di un processo.

Ancora più problematico è il rapporto con l'art. 112 Cost. Dichiarare obbligatorio l'esercizio dell'azione penale ha un senso in quanto alla domanda del pubblico ministero sia data - per lo meno sino a che l'ipotesi di reato resta in vita - una risposta che l'accolga o la respinga. Sarebbe contraddittorio imporre l'esercizio dell'azione penale e, al tempo stesso, consentire che essa resti senza risposta. Questo, naturalmente, non esclude che, se interviene una causa estintiva del reato (come nel caso della prescrizione sostanziale), la si dichiari con una sentenza che contiene un accertamento di merito, seppure limitato perché formulato in termini ipotetici.

Ciò che, invece, appare inammissibile, e puntualmente si verifica con la improcedibilità, è che ad estinguersi per decorso del tempo non sia il reato o, se si preferisce, la sua ipotesi - come avviene con la prescrizione sostanziale - ma direttamente il processo con una sentenza di non doversi procedere; la quale, proprio per la sua natura di improcedibilità, preclude ogni accertamento, quindi, anche la pronuncia dell'assoluzione quando già ne sussistessero i presupposti ai sensi dell'art. 129 comma 2 c.p.p.; e, per di più, con l'assurda conseguenza che, se l'improcedibilità sopraggiungesse pendente l'appello o il ricorso del pubblico ministero contro un'assoluzione, l'imputato vedrebbe questa convertita nella meno favorevole sentenza di non doversi procedere. Straordinaria reformatio in peius per decorso del tempo!

Si obietterà che il sistema processuale prevede varie condizioni di procedibilità, riconosciute come legittime dalla Corte costituzionale; genere al quale apparterrebbe anche la qui criticata prescrizione processuale. È vero, ma le condizioni di procedibilità si giustificano solo in particolari situazioni, per lo più legate alle modalità o alla tipologia del reato, mentre il decorso del tempo esplica già il suo effetto negativo sull'interesse persecutorio sotto il profilo della prescrizione del reato; e non è corretto duplicarne la rilevanza, erigendolo anche a causa di improcedibilità. Si aggiunga che sarebbe frutto di un'evidente inversione metodologica interpretare i precetti della Costituzione alla luce delle disposizioni dettate dalla legge ordinaria.

Quando la risposta giudiziaria tardi oltre il limite del ragionevole e non sopraggiunga la prescrizione del reato, si possono prevedere misure risarcitorie e riparatorie per l'imputato, sanzioni per i magistrati negligenti e vari altri rimedi; e si può persino stabilire che, se la sentenza di merito interviene dopo un certo termine, il processo prosegua in grado di impugnazione solo nell'interesse dell'imputato (il che equivarrebbe a rendere inappellabile l'assoluzione e insuscettibile di riforma in peggio la condanna). Ma, sino a quando non si modifichi l'art. 112 Cost., non è ammissibile che, perdurando la punibilità del reato, il processo svanisca nel nulla con una sentenza di non doversi procedere. In regime di azione penale obbligatoria, l'evaporazione del processo a reato non estinto è un'anomalia senza precedenti, una figura contraddittoria, in-classificabile nel senso letterale della parola, perché ribelle a ogni inquadramento giuridico. Che il decorso del tempo possa estinguere il reato, segnando la fine del processo, è plausibile; che estingua direttamente il processo, lasciando in vita il reato, è abnorme (P. Ferrua [2012], 117 s.; ID. [2020], 978 s.).

In sintesi. Se l'azione penale è stata validamente esercitata e il reato non è estinto, il principio, rectius, la regola della obbligatorietà esige che all'accusa formulata dal pubblico ministero sia data una risposta nel merito che affermi o neghi la colpevolezza; ed essendo la condanna il termine ‘marcato' del processo, vale a dire quello che contiene la proposizione da provare, l'assoluzione, che è il termine ‘consequenziale', deve essere disposta ogni qualvolta la colpevolezza non sia provata sino all'ultima molecola. Di queste quattro proposizioni – l'azione penale è obbligatoria, l'azione penale è validamente esercitata, il reato non è estinto, il processo si estingue – almeno una dev'essere invalida; e qui evidentemente è tale l'ultima. Costruire il decorso del tempo come sopravvenuta condizione di improcedibilità, nell'attuale assetto processuale e costituzionale, equivale ad aprire una via legale al diniego di giustizia.

Non so se la Corte costituzionale censurerà una disciplina alla cui definizione ha contributo in prima linea una Presidente emerita della stessa Corte. Il mio timore, se questa disciplina sopravviverà a lungo, è che sui precetti degli artt. 111 comma 2 e 112 Cost. si abbatta un gran discredito che finirebbe per coinvolgere l'intera disciplina costituzionale del processo. Non mi riferisco ai giuristi, abbastanza scaltri da discernere l'abisso che può separare i principi costituzionali dalle leggi che dovrebbero attuarli e che, invece, ne sono l'anamorfosi, la deplorevole deformazione. Mi riferisco al comune cittadino che, sovrapponendo i due piani normativi o leggendo in essi un rapporto di causa-effetto, imputerà ai precetti costituzionali i disastri che derivano dalla loro infedele attuazione.

Discriminazioni tra imputati

Seri dubbi di legittimità costituzionale, specie sotto il profilo dell'art. 3 Cost., si addensano, infine, su singoli aspetti della disciplina assegnata alla improcedibilità.

Primo. Non esiste alcun ragionevole motivo – se non quello, puramente strumentale, di assecondare gli ultimatum dei pentastellati – perché sino alla conclusione del giudizio di primo grado debba operare la prescrizione sostanziale, per poi bruscamente convertirsi in improcedibilità in sede di impugnazione; quasi che, nel passaggio dal primo ai successivi gradi di giudizio, qualcosa mutasse sul piano delle finalità a cui obbediscono i due istituti.

Secondo. Se i termini fissati a pena di improcedibilità sono funzionali alla ragionevole durata del processo – come è nella logica (per me viziata alla radice) di questa riforma - allora vanno garantiti a tutti gli imputati, nessuno escluso, dato che il principio contemplato dall'art. 111 comma 2 Cost. non consente discriminazioni. Non si dimentichi che anche gli imputati dei più gravi reati, per i quali è inapplicabile l'improcedibilità o le proroghe sono illimitate, potrebbero essere innocenti, ingiustamente accusati. Contemplare termini di durata massima del processo e poi consentire che questo possa potenzialmente protrarsi all'infinito per certi reati appare difficilmente conciliabile con gli artt. 3 e 27 comma 2 Cost.

Terzo. La divisione dei reati in ben quattro categorie, con termini variabili di durata massima, appare decisamente arbitraria, a fronte degli artt. 3 e 111 comma 2 Cost. I tempi necessari a definire un processo mutano a seconda della complessità del caso e sono definibili solo in concreto, in base all'evidenza disponibile. In altre parole, la scala di gravità dei reati non corrisponde a quella dei tempi del processo. La tipologia del reato è, senza dubbio, in correlazione con l'allarme sociale generato dal mancato accertamento delle responsabilità, ma non incide minimamente sul diritto dell'imputato ad una tempestiva giustizia. Diverso è il discorso per la prescrizione sostanziale, le cui specifiche finalità (relative alla memoria del reato e alla funzione rieducativa della pena) impongono termini variabili a seconda della gravità del reato.

Quarto. Il sistema delle proroghe è stato criticato per la impropria, pesante responsabilità a cui si trova esposto il giudice nel disporle e definirne la durata (N. Rossi [2021]); nonché per il prevedibile aggravio di lavoro che deriva alla Cassazione davanti alla quale sono impugnabili le proroghe. Critiche più che fondate, perché affidare ai giudici il potere di disporre o no le proroghe equivale a renderli arbitri della decisione se consentire o precludere la prosecuzione dell'azione penale, consegnando così alla giurisdizione scelte di politica criminale che non le competono, relative alla perseguibilità dei reati. Ma non è affidando interamente alla legge l'individuazione dei tempi di durata massima che si risolverebbe il problema. L'impegno della legge ad assicurare la ragionevole durata del processo si esercita positivamente con misure atte a garantire una tempestiva risposta alla domanda di giustizia; non certo negativamente troncando il corso del processo, quando superi un prefissato termine. Irragionevole è il fatto in sé di contemplare, a pena di improcedibilità, tempi di durata massima del processo, a poco rilevando che dipendano dalla legge o dalle proroghe disposte dal giudice.

L'improcedibilità al vaglio delle Corti europee

Può essere – anzi si spera - che l'improcedibilità, data l'ampiezza dei termini previsti, rimanga di fatto inoperante o quasi; il che peraltro non esclude che possa esercitare un effetto più insidioso e paradossale, quello di decelerare, in un buon numero di casi, il corso dei processi, convertendo i tempi ‘+massimi in tempi medi. L'esperienza insegna che, quando si fissano termini per il compimento di una determinata attività, quei termini diventano non solo il tempo sufficiente ma anche il tempo necessario; pressappoco come il tempo occorrente per scrivere un saggio corrisponde al tempo fissato per la sua consegna.

A prescindere dalle eventuali censure della Corte costituzionale, è altamente prevedibile che sul meccanismo della improcedibilità intervengano le due Corti europee.

Come nel caso della sentenza Taricco, è probabile che la Corte di giustizia, interpellata da qualche giudice nazionale, autorizzi la disapplicazione delle norme sulla improcedibilità, ogniqualvolta escano lesi gli interessi europei (e lo saranno quanto più spesso ci si avvalga di fondi europei). Trattandosi di norme processuali, non soggette al precetto dell'art. 25 comma 2 Cost., ma alla regola del tempus regit actum, non sarà possibile invocare il più favorevole regime della improcedibilità vigente al momento della commissione del fatto; esattamente come non lo sarà nel caso di una legge che provveda ad aumentare i termini fissati a pena di improcedibilità. Il che, sia detto di sfuggita, apre la via al rischio o all'opportunità - a seconda dell'angolo visuale – di ripetuti interventi legislativi volti ad aumentare i termini massimi in prossimità della loro scadenza nei processi su cui più si concentra l'attenzione dei mass-media.

Qualche autore è di contrario avviso sulla base del rilievo che anche le disposizioni sulla improcedibilità si tradurrebbero nella non punibilità dell'imputato e quindi dovrebbero ritenersi soggette, come le disposizioni penali sostanziali, alla disciplina imposta dall'art. 25 comma 2 Cost.

Sul piano propriamente giuridico il discorso non convince. A differenza della prescrizione sostanziale, che si risolve in una causa di non punibilità per estinzione del reato, l'improcedibilità si limita a troncare il processo, senza affrontare il tema della punibilità, non essendo il giudice investito del potere di decidere nel merito. È vero che non sarà più possibile condannare l'imputato perché alla ripresa del processo si oppone il ne bis in idem (salvo - come si vedrà - il caso di sopravvenienza della condizione di procedibilità). Ma tanto il ne bis in idem quanto la improcedibilità restano disposizioni ad ogni effetto processuali, perché né il primo né la seconda riguardano la punibilità, ma soltanto la possibilità o l'impossibilità di procedere, la processabilità, se è consentita la parola: non si confonda il ne bis in idem processuale, qui pertinente, con quello sostanziale, relativo al concorso apparente di norme.

La regola applicabile per ogni disposizione processuale – e tale resta l'improcedibilità - è, dunque, il tempus regit actum; allo stesso modo in cui il tempus commissi delicti è la regola per ogni disposizione sostanziale, salva la retroattività della norma più favorevole. Così almeno secondo i principi fondamentali del diritto. Che poi, sulla base di un generico favor rei o per considerazioni di equità, qualcuno voglia estendere il più favorevole regime delle disposizioni sostanziali anche a quelle processuali che, indirettamente e sul piano pratico, si risolvono nella sottrazione dell'imputato alla pretesa punitiva, è ampiamente prevedibile; né può escludersi che si trovi qualche appiglio nel mare magnum delle interpretazioni, non di rado tra loro contraddittorie, della Corte europea dei diritti dell'uomo. Di certo non sarebbe né la prima né l'ultima interpretazione ‘creativa'.

Probabile è anche l'intervento della Corte di Strasburgo, quando dall'improcedibilità derivi un rilevante danno per la vittima del reato. L'art. 2 comma 2 lettera b) della riforma Cartabia cerca di arginare il possibile pregiudizio per la parte civile, inserendo nell'art. 578 c.p.p. il seguente comma 1-bis: «Quando nei confronti dell'imputato è stata pronunciata condanna, anche generica, alle restituzioni o al risarcimento dei danni cagionati dal reato, a favore della parte civile, il giudice di appello e la Corte di cassazione, nel dichiarare improcedibile l'azione penale per il superamento dei termini di cui ai commi 1 e 2 dell'articolo 344-bis, rinviano per la prosecuzione al giudice civile competente per valore in grado di appello, che decide valutando le prove acquisite nel processo penale».

Si tratta di una disciplina decisamente svantaggiosa per la parte civile rispetto a quanto avviene con la prescrizione del reato, in presenza della quale il giudice penale dell'impugnazione è autorizzato a decidere «sull'impugnazione ai soli effetti delle disposizioni e dei capi della sentenza che concernono gli interessi civili» (art. 578 c.p.p.); non foss'altro che per il disagio e la perdita di tempo connessi al trasferimento dell'azione nella sede civile.

L'interpretazione della norma resta, d'altronde, decisamente problematica. Non è chiaro, infatti, se il giudice civile d'appello decida ex novo o come giudice dell'impugnazione rispetto alle statuizioni civili contenute nella sentenza penale. L'espressione prosecuzione potrebbe orientare nel secondo senso, ma la circostanza che il giudice civile decida «valutando le prove acquisite nel processo penale» lascia supporre che a sopravvivere non siano le disposizioni civili contenute nella sentenza impugnata, ma soltanto le prove già raccolte, delle quali il giudice terrà conto nell'emettere il suo autonomo giudizio. Altrettanto incerte le regole probatorie da seguire davanti al giudice civile, non essendo specificato se valgano quelle del processo penale o del processo civile.

Quid iuris, infine, quando successivamente emerga che il fatto, in rapporto al quale è stata dichiarata l'improcedibilità, costituisce in realtà un reato soggetto a termini di durata massima assai più ampi? Stante il regime previsto per la sopravvenienza delle condizioni di procedibilità dal combinato disposto degli artt. 345 e 649 c.p.p., non è chiaro se sia o no consentita la ripresa del procedimento. La circostanza che l'art. 345 c.p.p. continui a riferirsi alle originarie condizioni di procedibilità, senza includere la nuova ‘improcedibilità', indurrebbe a negare la possibilità di riprendere l'esercizio dell'azione penale. In senso contrario, tuttavia, va osservato che, essendo la regola del ne bis in idem dettata solo con riguardo alle sentenze di proscioglimento e di condanna (art. 649 c.p.p.), la sentenza di improcedibilità vi si sottrae e non dovrebbe, pertanto, precludere la riapertura del procedimento al sopravvenire della condizione di procedibilità. Nell'incertezza, è opportuno che il legislatore intervenga specificando espressamente il regime applicabile al caso in esame.

In conclusione

Nata da un compromesso tra le forze di maggioranza, la prescrizione processuale, denominata improcedibilità presenta numerosi profili di criticità, anche dal punto di vista costituzionale. La pretesa di regolare per legge la durata massima del processo, troncandone il decorso con una decisione di improcedibilità contraddice il senso dell'art. 111 comma 2 Cost. che vuole la conclusione del processo con una decisione sul merito dell'accusa in tempi ragionevoli. La circostanza che il processo svanisca nel nulla, pur non essendo estinta, ma ancora in vita l'ipotesi di reato, appare inoltre difficilmente compatibile con l'art. 112 Cost. relativo all'esercizio obbligatorio dell'azione penale. Infine, la circostanza che per una serie di reati le proroghe possano essere disposte ad libitum, senza un limite massimo, si risolve in una ingiustificata diseguaglianza tra imputati, nei cui confronti dovrebbe indiscriminatamente valere la non presunzione di colpevolezza.

L'auspicio è che nel prosieguo del cammino parlamentare si corregga la scelta, puramente strumentale, della improcedibilità, sostituendovi quella più coerente della prescrizione sostanziale come causa estintiva del reato.

Guida all'approfondimento

In dottrina sul tema:

Cordero F. [2012], Procedura penale, IX ed., Giuffrè, Milano, 2012, 976, 985;

Ferrua P. [2020], La prescrizione del reato e l'insostenibile riforma ‘Bonafede', in Giur.it., 2020, 978 s.;

ID. [2012], Il giusto processo, III ed., Zanichelli, Bologna, 2012, 117 s.;

ID. [2021], Improcedibilità? Una pessima trovata per provare ad accontentare i 5Stelle, in Il Dubbio, 21 luglio 2021;

Mazza O. [2021], A Midsummer Night's Dream: la riforma Cartabia del processo penale (o della sola prescrizione?), in Archivio penale, 2021, n. 2, 1 s.;

Orlandi R. [2021], Riforma della giustizia penale: due occasioni mancate e una scelta ambigua in tema di prescrizione, in Discrimen, 16 luglio 2021;

Rossi N. [2021], Lasciar decidere il giudice sulla durata dei processi: cancellate quest'assurdità, in Il Dubbio, 3 agosto 2021;

Scalfati A. [2021], La durata del processo non può dipendere dalla qualità del delitto, in Il Dubbio, 29 luglio 2021;

Spangher G. [2021], Improcedibilità: perché si è scelta la via scartata dai saggi?, in Il Dubbio, 11 agosto 2021.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.

Sommario