Cessazione degli effetti civili del matrimonio concordatario e delibazione della sentenza canonica di nullità matrimoniale

Vincenzo Fasano
30 Agosto 2021

La sentenza in commento rientra fra quei pronunciamenti che chiariscono la portata del riconoscimento dell'efficacia della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio concordatario, intervenuto dopo il passaggio in giudicato della pronuncia di cessazione degli effetti civili, ma prima che sia divenuta definitiva la decisione in ordine alle relative conseguenze economiche.
Massima

La delibazione della sentenza canonica di nullità del matrimonio concordatario, intervenuta dopo il passaggio in giudicato della pronuncia di cessazione degli effetti civili, ma prima che sia divenuta definitiva la decisione in ordine alle relative conseguenze economiche, non comporta la cessazione della materia del contendere, ed il giudizio civile può proseguire ai fini dell'accertamento della spettanza e della liquidazione dell'assegno divorzile.

Il caso

Le parti contrassero matrimonio concordatario il 30 luglio 1977. La convivenza matrimoniale cessò dopo breve tempo ed il 1° dicembre 1981 fu depositato ricorso per separazione dei coniugi. Trattandosi di un matrimonio concordatario, fu adito anche il Tribunale Ecclesiastico Regionale Etrusco che, con sentenza del 28 marzo 1995, ne dichiarò la nullità.

Il Tribunale di Lucca pronunziò la cessazione degli effetti civili del matrimonio concordatario con sentenza del 14 gennaio 2013 e confermò l'obbligo per l'uomo di corrispondere un assegno mensile a favore della donna, che adeguò all'importo di € 450,00, da rivalutarsi annualmente secondo l'indice ISTAT. L'uomo propose appello presso la Corte di Appello di Firenze, impugnando esclusivamente l'imposizione dell'assegno divorzile, ma le sue doglienze furono rigettate con sentenza del 4 novembre 2013. La Corte di Appello di Firenze confermò l'imposizione dell'assegno divorzile sul presupposto che fosse stata dimostrata l'indisponibilità di risorse da parte della donna, la sua indigenza, nonché la sua impossibilità a procurarsi i mezzi economici necessari per migliorare la propria condizione. La Corte di Appello ritenne ininfluenti le dichiarazioni rese dalla donna nel procedimento di nullità matrimoniale relativamente alla breve durata della convivenza coniugale, così come ritenne parimenti ininfluente la ridotta capacità reddituale dell'uomo rispetto all'epoca della separazione.

Il ricorrente propose ricorso per cassazione contro la sentenza della Corte di Appello di Firenze, precisando la propria posizione attraverso tre motivi: 1) violazione e falsa applicazione dell'art. 347, ultimo comma, c.p.c. perché la Corte di Appello trascurò elementi decisivi per la definizione del giudizio, desumibili dal procedimento di primo grado; 2) violazione e falsa applicazione dell'art. 5 della legge 1° dicembre 1970, n. 898 (Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio) e dell'art. 2697 c.c. perché la Corte d'Appello attribuì alla convivenza coniugale una rilevanza contrario ai principi dell'ordinamento, in quanto la breve durata del coniugio non avrebbe potuto consentire aspettative ad un determinato tenore di vita; 3) violazione e falsa applicazione degli artt. 2730 e 2735 c.c. e degli artt. 115 e 116 c.p.c. in quanto la Corte d'Appello non attribuì valenza confessoria alle dichiarazioni rese dalla donna in foro canonico, mentre ritenne incontestate le circostanze riferite dalla medesima donna in foro civile, sebbene contrastanti con quelle precedentemente rese.

La causa fu avviata alla trattazione in camera di consiglio dinanzi alla Sesta sezione civile che, con ordinanza del 9 dicembre 2016 la rinviò alla pubblica udienza della Prima sezione civile, avendo rilevato che il ricorrente, unitamente alla memoria prevista dall'art. 380-bis c.p.c., depositò la sentenza dell'11 luglio 2016 della Corte di Appello di Firenze con la quale si riconobbero gli effetti nell'ordinamento italiano della sentenza di nullità del matrimonio emessa dal Tribunale Ecclesiastico Regionale Etrusco il 28 marzo 1995, presumibilmente ratificata dal Tribunale Ecclesiastico Regionale Flaminio ai sensi dell'abrogato can. 1682 § 2 del Codice di diritto canonico, e resa esecutiva con decreto del Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica del 7 luglio 2014.

L'intervenuta sentenza della Corte di Appello di Firenze dell'11 luglio 2016, avendo riconosciuto l'efficacia nell'ordinamento italiano della sentenza canonica di nullità del matrimonio, permise all'uomo ricorrente di chiedere la cessazione della materia del contendere. Stante la delicatezza giuridica della richiesta, la Prima sezione rimise gli atti al Primo Presidente che dispose l'assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite per la risoluzione di un contrasto di giurisprudenza, avente ad oggetto la seguente questione: «Se il giudicato interno (per effetto di sentenza parziale o capo autonomo non impugnato della sentenza) che dichiari la cessazione degli effetti civili del matrimonio concordatario sia idoneo a paralizzare gli effetti della nullità del matrimonio, dichiarata con sentenza ecclesiastica successivamente delibata dalla corte d'appello (con sentenza passata in giudicato), solo in presenza di statuizioni economiche assistite dal giudicato o anche in assenza di dette statuizioni, con l'effetto (nel secondo caso) di non precludere al giudice civile il potere di regolare, secondo la disciplina della legge n. 898/1970 e succ. mod., i rapporti patrimoniali tra gli ex coniugi il cui vincolo sia consacrato in un atto matrimoniale nullo».

La questione

La delibazione della sentenza canonica di nullità del matrimonio concordatario, intervenuta dopo il passaggio in giudicato della pronuncia di cessazione degli effetti civili (sullo status), ma prima che sia divenuta definitiva la decisione in ordine alle relative conseguenze economiche, comporta la cessazione della materia del contendere?

Le soluzioni giuridiche

Coi Patti lateranensi dell'11 febbraio 1929 lo Stato italiano e la Chiesa cattolica, attraverso la previsione della possibile attribuzione di effetti civili ai matrimoni contratti in forma canonica, evitarono agli sposi cattolici l'onere di una doppia celebrazione nuziale. Il sistema delineato dall'art. 34 del Concordato lateranense, secondo cui il riconoscimento del matrimonio canonico era subordinato all'effettuazione delle pubblicazioni civili e alla trascrizione dell'atto di matrimonio nei registri di stato civile, prevedeva anche l'accettazione della giurisdizione ecclesiastica da parte dello Stato, il quale si dichiarava privo di competenza in ordine ai giudizi sulla validità originaria dei matrimoni canonici trascritti, impegnandosi nel contempo ad attribuire efficacia civile alle pronunce di nullità del vincolo emanate dai Tribunali ecclesiastici. La disposizione prevedeva, infatti, che tali pronunce, munite del Decreto del Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica attestante il rispetto della normativa processuale canonica e l'esecutorietà della sentenza canonica, fossero trasmesse d'ufficio, pertanto senza necessità di un impulso di parte, alla Corte d'Appello competente per territorio, la quale con ordinanza emessa in camera di consiglio ne attribuiva efficacia civile. Il giudice statale non era né tenuto né legittimato a compiere valutazioni di merito, dovendo limitarsi a prendere atto dell'esistenza della dichiarazione ecclesiastica di nullità relativa ad un matrimonio trascritto, con l'obbligo di attribuirne rilevanza civile. Il sistema, così come inizialmente delineato, comportava il riconoscimento nello Stato di tutte le pronunce ecclesiastiche di nullità matrimoniale, e tale disciplina, unitamente alla possibilità di richiedere la trascrizione tardiva del matrimonio da parte di chiunque vi avesse interesse, serviva ad assicurare l'uniformità di status del fedele/cittadino nei due ordinamenti, in quanto ad ogni dichiarazione di nullità del vincolo pronunciata dalla Chiesa corrispondeva necessariamente il venir meno dello stato coniugale anche nell'ordinamento civile.

L'art. 34, comma 4, del Concordato lateranense introdusse pertanto una riserva esclusiva di giurisdizione in materia matrimoniale a favore dell'autorità ecclesiastica stabilendo, in sintesi, che a) le cause concernenti la nullità di matrimoni canonici erano riservate alla competenza dei tribunali ecclesiastici; b) tali cause dovevano svolgersi secondo le norme canoniche, sia sostanziali che procedurali; c) che le sentenze ecclesiastiche emanate in tale materia avrebbero avuto effetto nell'ordinamento italiano, a seguito di uno speciale procedimento innanzi la Corte d'Appello. La riserva a favore della giurisdizione ecclesiastica nelle cause concernenti la nullità dei matrimoni canonici che avessero conseguito, con la trascrizione, effetti civili, era di carattere assoluto nel senso che riguardava tutti i matrimoni contratti secondo la disciplina canonica e trascritti in Italia nei registri dello stato civile. Va sottolineato che all'epoca la Corte di Cassazione più volte ribadì il principio che «il matrimonio concordatario assoggetta alla giurisdizione ecclesiastica entrambi i coniugi, siano essi italiani o stranieri» (Cass. civ., sent. n. 1786/1967). Il carattere assoluto o di ordine pubblico di una tale riserva comportava che in materia matrimoniale concordataria nessuna pronuncia di altra autorità giudicante potesse avere valore nel nostro ordinamento sia che tale pronuncia fosse emanata dal giudice italiano, sia che fosse emanata da un giudice straniero e le si volesse dare esecuzione in Italia attraverso un giudizio di delibazione.

La situazione mutò quando la Corte costituzionale, con sentenza Corte cost. 2 febbraio 1982 n. 18, stabili che la Corte d'Appello competente per territorio non poteva limitarsi ad un esame di regolarità formale della sentenza ecclesiastica, ma doveva accertare che essa non contenesse disposizioni contrarie all'ordine pubblico interno e che nel procedimento dinanzi ai tribunali ecclesiastici fosse stato assicurato alle parti il diritto di agire e resistere in giudizio a difesa dei propri diritti. Recependo tale principio, l'Accordo di revisione del Concordato del 18 febbraio 1984 segnò di fatto la fine della riserva di giurisdizione ecclesiastica in materia di cause di nullità del matrimonio canonico con effetti civili. Conseguentemente il procedimento diretto a conferire effetti civili alle sentenze ecclesiastiche di nullità del matrimonio perse l'automatismo tipico del Concordato del 1929, avvicinandosi nelle linee essenziali al procedimento di delibazione delle sentenze straniere, così come regolato dagli artt. 796 e ss.c.p.c. Oggi, nonostante l'abrogazione degli artt. 796 e 797 c.p.c. (cf. art. 73, l. 218/1995 sulla riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato), il riferimento deve considerarsi come fatto sempre a tali norme.

La Corte di Cassazione a Sezioni unite, con sentenza Cass. n. 1824/1993, affermò che, con l'Accordo del 1984, era da considerarsi implicitamente abrogata, ai sensi dell'art. 13, la disposizione contenuta nell'art. 34 del Concordato del 1929, che sanciva il carattere esclusivo della giurisdizione ecclesiastica, in materia matrimoniale. Infatti, l'art. 8, n. 2 dell'Accordo di revisione riproduce, sia pure con rilevanti modificazioni, le disposizioni dell'art. 34 relative alla delibazione, ma non anche quella contenente la riserva di giurisdizione ai tribunali ecclesiastici delle cause concernenti la nullità del matrimonio. Di conseguenza, l'eventuale concorso tra giurisdizione italiana e giurisdizione ecclesiastica andava risolto da quel momento mediante il criterio della prevenzione, che dava prevalenza al giudizio che avesse avuto inizio per primo. Alcune sentenze della Cassazione, successive al 1993, tesero ad interpretare il criterio a senso unico a favore della giurisdizione civile in quanto la pendenza di un giudizio civile avrebbe impedito la delibazione della sentenza ecclesiastica, mentre il giudice civile avrebbe potuto essere paralizzato soltanto dall'avvenuta delibazione della sentenza ecclesiastica.

Al riguardo, la Corte di Cassazione, con le sentenze Cass. n. 1526/2013 e Cass. n. 21331/2013, ribadì che tra il giudizio di nullità del matrimonio concordatario e quello avente ad oggetto la cessazione degli effetti civili del medesimo matrimonio non sussisteva alcun rapporto di pregiudizialità, tale che il secondo devesse essere necessariamente sospeso a causa della pendenza del primo ed in attesa della sua definizione, dal momento che trattavasi di procedimenti autonomi, non solo sfocianti in decisioni di differente natura (e con peculiare e specifico rilievo in ordinamenti diversi, tanto che la decisione ecclesiastica solo a seguito di un eventuale giudizio di delibazione, e non automaticamente, poteva produrre effetti nell'ordinamento italiano), ma anche aventi finalità e presupposti differenti.

Nell'ipotesi che al passaggio in giudicato della sentenza di cessazione degli effetti civili del matrimonio concordatario segua temporalmente la delibazione della sentenza di nullità del matrimonio emessa dai tribunali ecclesiastici, la Corte di Cassazione, Cass. n. 21331/2013, dichiarò che la sentenza italiana di esecutorietà civile della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio non costituisce un elemento di fatto sopraggiunto legittimante la revisione del provvedimento economico contenuto nella sentenza di cessazione degli effetti civili. Sulla scia di precedenti pronunce (cf. ad esempio Cass., sentenza del 24 luglio 2012 n. 12989) si ribadì che la sentenza di cessazione degli effetti civili ha causa petendi e petitum diversi da quelli della domanda di nullità del matrimonio canonico, investendo il matrimonio-rapporto e non l'atto col quale si costituì il vincolo tra i coniugi. In conseguenza, qualora nel giudizio di cessazione degli effetti civili non si sia espressamente statuito in ordine alla validità del matrimonio, non è impedita la delibazione della sentenza del tribunale ecclesiastico che abbia dichiarato la nullità del matrimonio concordatario; ma ciò non comporta il venir meno delle statuizioni economiche della sentenza di cessazione degli effetti civili del matrimonio concordatario.

La sentenza in commento rientra fra quei pronunciamenti che chiariscono la portata del riconoscimento dell'efficacia della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio concordatario, intervenuto dopo il passaggio in giudicato della pronuncia di cessazione degli effetti civili, ma prima che sia divenuta definitiva la decisione in ordine alle relative conseguenze economiche. Il verificarsi di tale ipotesi, pertanto, non comporta la cessazione della materia del contendere nel giudizio civile avente ad oggetto la cessazione degli effetti civili del matrimonio concordatario, il quale può proseguire ai fini dell'accertamento della spettanza e della liquidazione dell'assegno divorzile. Nella situazione concreta esaminata dalla sentenza si stabilisce che la produzione della sentenza, divenuta definitiva, con cui fu dichiarata efficace nell'ordinamento italiano la sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio contratto dalle parti è inidonea a precludere la prosecuzione del giudizio, perché la sentenza di primo grado fu impugnata solo nella sola parte in cui riconobbe il diritto della donna alla corresponsione dell'assegno divorzile. Il passaggio in giudicato della pronuncia di cessazione degli effetti civili del matrimonio (sullo status), verificatosi a seguito della proposizione dell'appello e quindi in data anteriore alla delibazione della sentenza ecclesiastica, esclude l'operatività di quest'ultima, non solo ai fini dell'esistenza del vincolo coniugale, ma anche in ordine alla determinazione delle relative conseguenze economiche.

Osservazioni

L'efficacia della sentenza ecclesiastica che dichiara nullo il matrimonio canonico e che la Corte d'Appello rende esecutiva, retroagisce alla data di celebrazione del matrimonio: essendosi accertato che il vincolo matrimoniale non si è mai costituito, scompare, da quella data, ogni effetto, personale o patrimoniale, da esso derivante. Il matrimonio rimane un semplice fatto e produce soltanto gli effetti che a tale fatto la legge espressamente collega. L'art. 18 della Legge matrimoniale (Legge 27 maggio 1929, n. 847, Disposizioni per l'applicazione del Concordato dell'11 febbraio 1929 tra la Santa Sede e l'Italia, nella parte relativa al matrimonio) prevede che, nel caso in cui sia resa esecutiva la sentenza che dichiari la nullità del matrimonio celebrato davanti al ministro cattolico, è applicabile la disposizione dell'art. 128 c.c. circa il “matrimonio putativo”. In questo caso, gli effetti del matrimonio si producono in favore dei coniugi fino alla sentenza che pronunzia la nullità, quando i coniugi lo hanno contratto in buona fede, oppure quando il loro consenso è stato estorto con violenza o determinato da timore di eccezionale gravità derivante da cause esterne agli sposi. Gli effetti si producono anche rispetto ai figli nati e concepiti durante il matrimonio dichiarato nullo, nonché rispetto ai figli nati prima del matrimonio e riconosciuti anteriormente alla sentenza che dichiarò la nullità. Se le condizioni indicate si verificano per uno solo dei coniugi, gli effetti valgono soltanto in suo favore e dei figli. Il matrimonio contratto in malafede da entrambi i coniugi produce effetti soltanto rispetto ai figli.

A tal proposito, la Corte di Appello può, nella sentenza intesa a rendere esecutiva la sentenza canonica, statuire provvedimenti economici provvisori a favore di uno dei coniugi il cui matrimonio sia stato dichiarato nullo. Si tratta di provvedimenti di natura strumentale ed anticipatoria fondati sull'accertamento del fumus boni iuris nonché del periculum in mora. Spetterà poi al giudice del merito attribuire a favore del coniuge che ne abbia diritto le indennità spettanti a norma degli artt. 129 e 129-bis c.c. (cf. art. 8, n. 2, comma 2, della Revisione del Concordato). Si tratta, rispettivamente, dell'obbligo di corrispondere per un periodo non superiore a tre anni somme periodiche di denaro, in proporzione alle sostanze dell'uno a favore dell'altro coniuge, ove questi non abbia redditi adeguati e non sia passato a nuove nozze; e dell'obbligo a versare una congrua indennità a favore del coniuge in buona fede a carico del coniuge cui sia stata addebitata la nullità del matrimonio, per un periodo di mantenimento non superiore a tre anni, nonché dell'obbligo degli alimenti.

La tesi proposta dalla sentenza suscita perplessità perché permette la costituzione di rendite inopportune, soprattutto con riferimento a vicende coniugali di così breve durata ed interrottesi quando le parti erano ancora in giovanissima età. L'indirizzo metodologicamente più appropriato sarebbe stato invece quello di riferirsi all'applicazione di istituti di lunga tradizione giuridica come quello del matrimonio putativo.

Riferimenti

C. Marvasi, I disaccordi nei rapporti personali fra coniugi nel diritto vivente”, Santarcangelo di Romagna, 2011, 75-103.

M. Canonico, Delibazione di sentenze ecclesiastiche, ovvero il cammello per la cruna dell'ago, in “Stato, Chiese e pluralismo confessionale”, in www.statoechiese.it, n. 25/2015, 13 luglio 2015.

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