Risarcimento del danno parentale ai nipoti: per la Cassazione la convivenza non è determinante
02 Settembre 2021
Introduzione
L'ordinanza della Corte di Cassazione n. 8218/2021 si è pronunciata favorevolmente sul risarcimento del danno parentale in capo a congiunti (nella specie i nipoti), anche se non conviventi con il danneggiato.
In particolare, la Suprema Corte ha rilevato che, sebbene occorra evitare il pericolo di un ampliamento ingiustificato dei soggetti danneggiati secondari, tuttavia, il dato esterno ed oggettivo della convivenza non può costituire elemento di discrimine, giustificando l'aprioristica esclusione, nel caso di non sussistenza della convivenza, della possibilità di provare, in concreto, l'esistenza di rapporti costanti e caratterizzati da reciproco affetto e solidarietà con il familiare defunto non convivente.
La pronuncia in esame tratta il delicato tema della risarcibilità del danno non patrimoniale (art. 2059 c.c.) da perdita parentale, affrontando la questione dell'estensione del risarcimento ai parenti non conviventi col danneggiato.
Il quadro di riferimento è essenzialmente giurispridenziale. Come noto, il danno da perdita parentale rappresenta il danno subito dai familiari della vittima per le sofferenze psicofisiche patite a causa del decesso del congiunto (iure proprio). Tale pregiudizio iure proprio, viene definito “danno da perdita parentale”, o più comunemente “danno parentale”, e comporta un risarcimento a favore di ciascun familiare che avesse, con il congiunto, un rapporto stabile, giuridicamente rilevante e prolungato nel tempo.
La Suprema Corte di Cassazione - già con le sentenze gemelle del 2003 (n. 8827/2003, e n. 8828/2003), e successivamente, con le Sezioni Unite di San Martino del 2008 (Cass. civ., Sez. Un., 11 novembre 2008, n. 26972), aveva affermato che il soggetto, il quale chieda iure proprio il risarcimento del danno subìto in conseguenza della uccisione di un congiunto per la definitiva perdita del rapporto parentale, lamenta l'incisione dell'interesse alla intangibilità della sfera degli affetti e alla reciproca solidarietà nell'ambito della famiglia, che rappresenta anche il luogo ove trova spazio la libera e piena esplicazione delle attività realizzatrici della persona umana, la cui tutela, come particolare formazione sociale, è ricollegabile agli artt. 2, 29 e 30 Cost.
Trattasi di un interesse di rilievo costituzionale, non avente natura economica, la cui lesione comporta la riparazione ai sensi dell'art. 2059 c.c. In particolare, nella pronuncia del 2008 le Sezioni Unite, in virtù del principio della tutela minima risarcitoria spettante ai diritti costituzionali inviolabili, hanno esteso la tutela ai casi di danno non patrimoniale prodotto dalla lesione di diritti inviolabili della persona riconosciuti dalla Costituzione e, per effetto di tale estensione, hanno ricondotto nell'ambito dell'art. 2059 c.c., anche la tutela riconosciuta ai soggetti che abbiano visto lesi i diritti inviolabili della famiglia (artt. 2, 29 e 30 Cost.) con la precisazione che il danno non patrimoniale da perdita, o compromissione del rapporto parentale, nel caso di morte o di procurata grave invalidità del congiunto, consiste nella privazione di un valore non economico, ma personale, costituito della irreversibile perdita del godimento del congiunto, dalla definitiva preclusione delle reciproche relazioni interpersonali, secondo le varie modalità con le quali normalmente si esprimono nell'ambito del nucleo familiare; perdita, privazione e preclusione che costituiscono conseguenza della lesione dell'interesse protetto (v. in particolare sentenze n. 8827 e n. 8828/2003). Pertanto, in caso di fatto illecito plurioffensivo, ciascun danneggiato è titolare di un autonomo diritto all'integrale risarcimento del pregiudizio subìto, comprensivo sia del danno morale (da identificare nella sofferenza interiore soggettiva patita sul piano strettamente emotivo, non solo nell'immediatezza dell'illecito, ma anche in modo duraturo, pur senza protrarsi per tutta la vita), che di quello “dinamico-relazionale” (consistente nel peggioramento delle condizioni e abitudini, interne ed esterne, di vita quotidiana (cfr. Cass. civ., n. 9231/2013, secondo cui è condivisibile il punto 10 dell'ordinaza “decalogo” della Cassazione - ord. n. 7513/2018 - in cui si precisa che “il danno non patrimoniale non derivante da una lesione della salute, ma conseguente alla lesione di altri interessi costituzionalmente tutelati, va liquidato, non diversamente che nel caso di danno biologico, tenendo conto tanto dei pregiudizi patiti dalla vittima nella relazione con se stessa - la sofferenza interiore e il sentimento di afflizione in tutte le sue possibili forme, id est il danno morale interiore - quanto di quelli relativi alla dimensione dinamico-relazionale della vita del soggetto leso. Nell'uno come nell'altro caso, senza automatismi risarcitori e dopo accurata ed approfondita istruttoria”).
Ciascuno dei familiari superstiti ha, quindi, diritto ad una liquidazione comprensiva del complessivo danno non patrimoniale subìto, in proporzione alla durata ed intensità del vissuto, nonché alla composizione del restante nucleo familiare, avuto riguardo all'età della vittima e a quella dei familiari danneggiati, alla personalità individuale di costoro, alla loro capacità di reazione e sopportazione del trauma e ad ogni altra circostanza del caso concreto; il danneggiato è, tuttavia, tenuto ad allegare e provare tutte queste circostanze (anche presuntivamente, secondo nozioni di comune esperienza), spettando, di contro, alla controparte la prova contraria di situazioni che compromettano l'unità, la continuità e l'intensità del rapporto familiare. Il danno da perdita del rapporto parentale non può, infatti, considerarsi in re ipsa, l'allegazione necessaria a fini risarcitori deve essere circostanziata, non potendo risolversi in mere enunciazioni di carattere del tutto generico e astratto, eventuale ed ipotetico (cfr. anche Cass., n. 16992/2015).
Per quantificare l'entità del risarcimento vengono utilizzate le Tabelle sul danno parentale. I fattori che influiscono sull'entità del danno parentale sono: l'età della vittima e del congiunto, il grado di parentela, la convivenza e l'assenza o meno di altri familiari. Oltre a questi danni di natura non patrimoniale, ai familiari della vittima spetta anche il risarcimento di tutti i pregiudizi economici e reddituali sofferti a causa del decesso del proprio congiunto (Cass., n. 12146/2016). Questi pregiudizi rientrano nella categoria dei danni patrimoniali da lucro cessante e danno emergente.
Nell'edizione 2018 delle Tabelle milanesi si afferma quanto segue: “Anche nell'ipotesi di danno non patrimoniale derivante da grave lesione del rapporto parentale, l'Osservatorio ribadisce quanto già esposto dal 2004: la misura del danno non patrimoniale risarcibile alla vittima secondaria è disancorato dal danno biologico subito dalla vittima primaria. Infatti, pur essendo la gravità di quest'ultimo rilevante per la stessa configurabilità del danno al familiare, pare opportuno tener conto nella liquidazione del danno al familiare essenzialmente della natura e intensità del legame tra vittime secondarie e vittima primaria, nonché della quantità e qualità dell'alterazione della vita familiare (da provarsi anche mediante presunzioni). La difficoltà di tipizzazione delle infinite variabili nei casi concreti suggerisce l'individuazione solo di un possibile tetto massimo della liquidazione, pari al tetto massimo per ciascuna ipotesi di cui al paragrafo che precede (da applicare solo allorché sia provato il massimo sconvolgimento della vita familiare), non essendo possibile ipotizzare un danno non patrimoniale “medio”. Ad esempio, il Giudice, per il danno non patrimoniale subito dalla madre in conseguenza della macro-lesione del figlio, potrà liquidare da zero ad Euro 331.920,00, corrispondente al massimo sconvolgimento della vita familiare (che potrebbe in ipotesi sussistere se la madre avesse lasciato il lavoro per dedicare tutta la propria vita all'assistenza morale e materiale del figlio). Circa i soggetti legittimati, gli oneri di allegazione e prova gravanti sulle parti e l'obbligo di motivazione del Giudice, si richiamano le considerazioni innanzi esposte in relazione al danno da perdita del rapporto parentale”. I soggetti destinatari del risarcimento: la intervenuta rilevanza del rapporto di convivenza
Va precisato che, secondo la giurisprudenza più recente, il fatto illecito costituito dalla uccisione del congiunto dà luogo a un danno non patrimoniale consistente nella perdita del rapporto parentale, qualora colpisca soggetti legati da un vincolo parentale “stretto”, la cui estinzione lede il diritto all'intangibilità della sfera degli affetti reciproci e della scambievole solidarietà che connota la vita familiare nucleare. Affinché, invece, possa ritenersi leso il rapporto parentale di soggetti al di fuori di tale nucleo (nonni, nipoti, genero, nuora), la giurisprudenza ritiene generalmente necessario il rapporto di convivenza, quale connotato minimo attraverso cui si esteriorizza l'intimità dei rapporti parentali. Solo in tal modo, infatti, si sostiene, il rapporto tra danneggiato primario e secondario assume rilevanza giuridica ai fini della lesione del rapporto parentale, venendo in rilievo la comunità familiare come luogo in cui, attraverso la quotidianità della vita, si esplica la personalità di ciascuno (Cass. n. 4253/2012). Alcune pronunce hanno, tuttavia, disatteso tale orientamento, consentendo la prova di intensi rapporti tra vittima primaria e secondaria, anche prescindendo dalla materiale convivenza tra le stesse (Cass. n. 21230/2016). In detti recenti provvedimenti viene superato il principio della risalente Cassazione n. 4253/2012, che riteneva la convivenza un presupposto essenziale per il riconoscimento del danno. Il requisito della convivenza veniva dettato dall'esigenza di evitare il pericolo di una dilatazione ingiustificata dei soggetti danneggiati secondari. Il più recente orientamento di legittimità per il quale, se da un lato, occorre certamente evitare il pericolo di una dilatazione ingiustificata dei soggetti danneggiati secondari, dall'altro, è anche vero che l'assenza di un rapporto di convivenza non può costituire, di per sé solamente, elemento idoneo a giustificare l'aprioristica esclusione della possibilità di provare in concreto l'esistenza di rapporti costanti e caratterizzati da reciproco affetto e solidarietà con il familiare defunto. Si è, infatti, rilevato che non è condivisibile limitare la “società naturale” della famiglia, cui fa riferimento l'art. 29 della Costituzione, all'ambito ristretto della sola cosiddetta “famiglia nucleare”, incentrata su coniuge, genitori e figli. Del resto, sotto un diverso profilo, “ben possono ipotizzarsi convivenze non fondate su vincoli affettivi, ma determinate da necessità economiche, egoismi o altro; e ‘non convivenze' determinate da esigenze di studio o di lavoro o non necessitate da bisogni assistenziali e di cura ma che non implicano, di per, sé, carenza di intensi rapporti affettivi o difetto di relazioni di reciproca solidarietà. La convivenza, dunque, escluso che possa assurgere a connotato minimo mediante il quale si esteriorizza l'intimità dei rapporti parentali, ovvero a presupposto dell'esistenza del diritto in parola, costituisce elemento probatorio utile, unitamente ad altri elementi, a dimostrare l'ampiezza e la profondità del vincolo affettivo che lega tra loro i parenti ed a determinare il quantum debeatur. Peraltro, la stessa Corte ha riconosciuto il risarcimento del danno non patrimoniale slegato dalla convivenza, in favore del coniuge, ancorché separato legalmente, purché si accerti che l'altrui fatto illecito abbia provocato quel dolore e quelle sofferenze morali che solitamente si accompagnano alla morte di una persona cara, pur essendo necessario, a tal fine, dimostrare che, nonostante la separazione, sussistesse ancora un vincolo affettivo particolarmente intenso (Cass. 17/01/2013, n. 1025), precisando ulteriormente che lo status di coniuge separato non è, in astratto, incompatibile con la posizione di danneggiato secondario (Cass. 12/11/2013, n. 25415). La convivenza, dunque, è la misura, un parametro, per dimostrare l'ampiezza e la profondità del vincolo affettivo che lega tra loro i parenti e a determinare il quantum debeatur, ma non certamente un limite. Ad ogni modo, al fine di scongiurare la paventata estensione ingiustificata dei soggetti danneggiati, è sufficiente che sia fornita la prova rigorosa degli elementi idonei a provare la lamentata lesione e l'entità dei danni subiti. Considerazioni queste ultime che hanno trovato piena conferma di recente nei recenti arresti di Cass. n. 29332/2017; n. 18069/2018; n. 7743/2020. In questo panorama giuridico è intervenuta la Suprema Corte con il provvedimento in esame che, valutando l'aspetto della convivenza, ha enunciato i principi che seguono. Con l'accoglimento della richiesta di risarcimento danni da lesione del rapporto parentale patiti da tre nipoti per la morte della zia, investita mentre attraversava la strada, il Supremo Collegio conferma che si possa essere risarciti anche se non si è conviventi con la vittima.
La Suprema Corte, con la pronuncia in commento, si pone, quindi, in linea con i più recenti orientamenti, e, infatti, menziona il precedente di Cass. n. 28989/2019, che ricomprende il legame parentale tra zio e nipote, di per sé e indipendentemente dalla effettiva convivenza, tra le circostanze che possono giustificare meccanismi presuntivi utilizzabili al fine di apprezzare la gravità o l'entità effettiva del danno, attraverso il dato della maggiore o minore prossimità formale del legame parentale (coniuge, convivente, figlio, genitore, sorella, fratello, nipote, ascendente, zio, cugino). Ciò, secondo una progressione che, se da un lato, trova un limite ragionevole nell'ambito delle tradizionali figure parentali nominate, dall'altro, non può che rimanere aperta alla libera dimostrazione della qualità di rapporti e legami parentali che, benché di più lontana configurazione formale (o financo di assente configurazione formale: si pensi, a mero titolo di esempio, all'eventuale intenso rapporto affettivo che abbia a consolidarsi nel tempo con i figli del coniuge o del convivente), si qualifichino (ove rigorosamente dimostrati) per la loro consistente e apprezzabile dimensione affettiva e/o esistenziale.
La decisione rileva, inoltre, che occorre superare il paradigma rappresentato dal ristretto ambito della sola “famiglia nucleare”, basata sui coniugi, genitori e figli, dovendosi apprezzare, valutare ed approfondire quei rapporti laddove le relazioni affettive, o di reciproca solidarietà, siano effettivamente sussistenti e veritiere. In conclusione
In conclusione, sembra ormai consolidato l'orientamento secondo cui, in tema di risarcimento del danno da lesione del rapporto parentale, non possa essere esclusa a priori la legittimazione del familiare (rectius congiunto) in ragione della mera mancanza di un rapporto di convivenza, qualora l'intensità della relazione sia stata provata in giudizio. La famiglia naturale non può costituire, dunque, l'unico discrimine per l'individuazione esteriore dei rapporti parentali vincolati da affectio familiaris. Si ritiene, conclusivamente, come questo precedente, che rafforza ulteriormente gli analoghi principi già precedentemente affermati dalla Corte, potrà essere utile fondamento per la proposizione di giudizi risarcitori aventi ad oggetto situazioni analoghe a quella trattata.
Riferimenti
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