I riti speciali nella riforma Cartabia: un'occasione mancata?

Alessandra Bassi
06 Settembre 2021

Il DDL n. 2354 (Delega al Governo per l'efficienza del processo penale nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari), approvato alla Camera dei deputati il 3 agosto e ora in attesa dell'esame al Senato, contiene all'art. 1, comma 10, la delega al Governo volta ad apportare alcune modifiche alla disciplina dei giudizi alternativi, nell'auspicata prospettiva di incentivarne l'attrattiva per gli imputati e di rivitalizzarne la natura di strumenti deflattivi, di garanzia per la sostenibilità del rito accusatorio nel sistema giustizia.
Abstract

Il DDL n. 2354 (Delega al Governo per l'efficienza del processo penale nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari), approvato alla Camera dei deputati il 3 agosto e ora in attesa dell'esame al Senato, contiene all'art. 1, comma 10, la delega al Governo volta ad apportare alcune modifiche alla disciplina dei giudizi alternativi, nell'auspicata prospettiva di incentivarne l'attrattiva per gli imputati e di rivitalizzarne la natura di strumenti deflattivi, di garanzia per la sostenibilità del rito accusatorio nel sistema giustizia.

In estrema sintesi, le principali innovazioni sono volte: a) ad ampliare l'ambito della negoziazione fra le parti funzionale al patteggiamento ed a limitare l'efficacia extra-penale della sentenza di applicazione della pena; b) a modificare il parametro di ammissibilità del giudizio abbreviato condizionato ed a disincentivare, con uno sconto di pena ulteriore rispetto a quello già previsto per il rito, le impugnazione avverso le sentenze rese all'esito di giudizio abbreviato; c) a rendere possibile, in caso di giudizio immediato, la formulazione di un'ulteriore richiesta di patteggiamento o di giudizio abbreviato semplice nell'ipotesi in cui la prima opzione in rito formulata dall'imputato sia risultata non praticabile; d) ad incentivare l'acquiescenza al decreto penale di condanna nonché il pagamento della sanzione pecuniaria in esso determinata; e) ad adeguare il codice di rito ai reiterati interventi della Corte costituzionale in tema di rimessione dell'imputato in termini ai fini della richiesta di un rito alternativo in caso di nuova contestazione dibattimentale.

Introduzione

Il complessivo intervento riformatore tratteggiato nel disegno di legge n. 2354 approvato dalla Camera e a breve all'esame del Senato - nelle due componenti di delega al Governo e di disposizioni immediatamente vigenti – risulta sorretto dal dichiarato intento di imprimere un'accelerazione ai tempi di definizione dei procedimenti penali. Ciò in attuazione della condizione imposta dalla Commissione Europea per il rilascio delle rilevanti risorse finanziarie del Next Generation EU (NGEU) e, comunque, nella prospettiva di dare finalmente una concreta implementazione al principio costituzionale della ragionevole durata del processo, armonizzandone la tempistica ai parametri fissati dalla legge 24 marzo 2001, n. 89 (nota come legge Pinto).

In tale quadro d'intervento un ruolo centrale assumono i riti alternativi.

Sin dalla fase gestazionale, il legislatore del 1988 ha impostato la disciplina del nuovo processo penale nella consapevolezza che il rito accusatorio – con il riconoscimento all'imputato del diritto a difendersi provando e ad essere giudicato sulla base di prove assunte nel contraddittorio, con la conseguente maggiore complessità dell'accertamento e dilatazione dei tempi di celebrazione delle cause rispetto al previgente, e più sbrigativo, rito inquisitorio - avrebbe potuto funzionare, id est essere “sostenibile” per il sistema giustizia, soltanto se una percentuale limitata di processi fosse pervenuta al dibattimento (si auspicava non più del 10%). In tale ottica, sono stati dunque previsti i riti speciali, i quali – nel tracciare percorsi processuali alternativi al dibattimento, variamente congegnati, ciascuno in grado di offrire soluzioni più idonee, calibrate, alle situazioni sub iudice, in cambio di specifici vantaggi per l'imputato – avrebbero dovuto rappresentare uno strumento fondamentale di deflazione dibattimentale e, dunque, di garanzia di “sopravvivenza” del sistema.

Purtroppo, i trenta anni di storia del rito accusatorio hanno certificato il fallimento degli auspici del legislatore. Il diritto vivente ci consegna un'immagine sbiadita del modello processuale posto a base del codice di procedura penale, là dove attesta la scarsa attrattiva dei percorsi alternativi di definizione dei procedimenti e la netta propensione degli imputati verso il rito ordinario, con l'inevitabile (e prevedibile) sovraccarico degli uffici giudiziari e dilatazione dei tempi di celebrazione dei processi.

Plurime ed eterogenee sono le cause di tale clamoroso insuccesso: l'indubbia novità di tali strumenti e la conseguente resistenza, diffidenza culturale, di tutti gli operatori del mondo giustizia a farvi ricorso; le – indubbie - maggiori garanzie difensive offerte dal processo dibattimentale e lo scarso appealing delle premialità offerte quale contropartita all'imputato rispetto al percorso processuale ordinario; non ultima, la prospettiva, non remota, di ottenere l'estinzione del reato per prescrizione conseguente dalla lentezza del giudizio dibattimentale causata anche – con un evidente quanto drammatico circolo vizioso – dalla stessa crisi dei rito alternativi.

Negli anni, la disciplina dei procedimenti speciali ha subito importanti interventi di restyling sulla struttura, sui presupposti e sulle regole di funzionamento, ad opera sia del legislatore sia del Giudice costituzionale, alcuni dei quali chiaramente tesi ad aumentarne l'attrattiva ed incidenti profondamente sulla filosofia di fondo degli istituti. Si pensi - solo per ricordare le modifiche più significative – all'ampliamento della soglia di pena patteggiabile fino a cinque anni di reclusione (il c.d. patteggiamento allargato); alla trasformazione del giudizio abbreviato c.d. secco (cioè non condizionato a supplementi istruttori) da rito negoziato fra le parti e subordinato al vaglio del giudice a diritto soggettivo pieno dell'imputato, in quanto attivabile a sua sola richiesta; ancora, al riconoscimento della possibilità di arricchire la piattaforma probatoria del rito abbreviato a certe condizioni, su iniziativa dell'imputato (subordinatamente all'ammissione del giudice) ovvero su disposizione dello stesso decidente.

Nonostante tali importanti innovazioni, i riti alternativi hanno continuato a suscitare scarso interesse nell'utenza vedendo nel tempo addirittura ridurre in termini rilevanti le percentuali di scelta (tanto che, negli ultimi anni, la definizione dei procedimenti con il patteggiamento ed il rito abbreviato non supera il 20% dei procedimenti).

Con la legge delega di prossima approvazione, il legislatore tenta ancora una volta di rendere maggiormente appetibili i riti alternativi, nella prospettiva di realizzare lo sperato effetto deflattivo del rito dibattimentale. Tuttavia, come si vedrà nel disaminare le specifiche innovazioni tratteggiate nel comma 10 dell'art. 1, il disegno di legge fa proprie soltanto parte delle proposte delineate dalla Commissione ministeriale presieduta da Giorgio Lattanzi e, soprattutto, non recepisce quelle indicazioni che avrebbero potuto incidere più profondamente sulla struttura e sui presupposti dei procedimenti speciali.

L'applicazione della pena su richiesta

In materia di applicazione della pena su richiesta, la lett. a) del comma 10 dell'art. 1, al punto 1), prevede che, quando la pena detentiva da applicare supera i due anni, l'accordo tra imputato e pubblico ministero possa estendersi alle pene accessorie e alla loro durata e che, in tutti i casi di applicazione della pena su richiesta, l'accordo tra l'imputato ed il pubblico ministero possa estendersi alla confisca facoltativa e alla determinazione del suo oggetto ed ammontare.

La novella è tesa ad ampliare l'ambito della negoziazione fra le parti, consentendo loro di definire - già in fase di confezionamento del patto - l'intero quadro delle conseguenze sanzionatorie derivanti dalla sentenza e, dunque, di scongiurare statuizioni introdotte in via officiosa dal giudice, sebbene in applicazione di specifiche previsioni normative. La possibilità di concordare non solo la pena principale ma anche gli effetti secondari del reato, riducendo correlativamente gli spazi di discrezionalità del giudice, e la conseguente prevedibilità del dispositivo della sentenza dovrebbero fungere – secondo il disegno del legislatore delegante – da incentivo alla definizione delle procedure con il rito patteggiato.

Nel caso in cui il patto includa anche le pene accessorie e/o la confisca, gli spazi valutativi riservati al giudice su detti punti verranno ad essere ridotti, analogamente a quanto accade in relazione alla pena principale: il decidente investito della richiesta di applicazione della pena si troverà infatti dinanzi all'alternativa decisoria “secca” di recepire nella sentenza l'accordo in forma integrale, cioè inclusivo di tutte le componenti di pena principale, di pene accessorie e confisca, ovvero di rigettare tout court la richiesta (Cass. sez. unite, 26 settembre 2019, n. 21368, Savin, Rv. 279348-02).

Il disegno della legge delega approvato alla Camera riconosce alle parti la possibilità di concordare le pene accessorie nel solo caso di applicazione di una pena superiore ai due anni di reclusione. Detta delimitazione si raccorda al disposto dell'art. 445 comma 1 c.p.p., là dove esonera espressamente l'imputato dall'applicazione delle pene accessorie in caso di patteggiamento ad una pena non superiore a due anni.

La negoziazione in punto di pene accessorie assumerà ovviamente una declinazione diversa a seconda se si tratti di pene accessorie previste come facoltative ovvero come obbligatorie anche in caso di applicazione della pena su richiesta. Nel primo caso, l'accordo potrà investire sia l'an sia il quantum della pena accessoria, mentre nel secondo caso potrà riguardare soltanto la durata della conseguenza secondaria, ove essa non sia già stabilita dalla legge. Si pensi, ad esempio, alle pene accessorie da applicare obbligatoriamente anche in caso di sentenza ex art. 444 c.p.p. previste dall'art. 609-nonies c.p. In tale caso, occorrerà distinguere le pene accessorie obbligatorie di durata predeterminata (perpetua o per cinque anni, di cui al primo e secondo comma del citato art. 609-nonies), in relazione alle quali non vi sarà spazio per alcuna negoziazione, dalle pene accessorie la cui durata deve essere determinata discrezionalmente dal giudice avendo riguardo al caso di specie (con una durata minima di un anno, di cui al terzo comma dello stesso art. 609-nonies), ipotesi – quest'ultima – nella quale le parti potranno invece predefinire, se non l'an, almeno il quantum (cioè il periodo di applicazione)della pena accessoria conseguente dal delitto.

Giova rammentare che il codice di rito prevede la possibilità per le parti di concordare l'esclusione delle pene accessorie (e dunque di condizionare a tale esclusione la richiesta) anche in caso di patteggiamento ad una pena non superiore ai due anni, nei procedimenti per taluni dei delitti contro la pubblica amministrazione, nell'ipotesi prevista dal combinato disposto del comma 3-bis dell'art. 444 c.p.p. e dell'ultima parte del comma 1 e del comma 1-ter dell'art. 445 c.p.p. (disposizioni introdotte con la legge 9 gennaio 2019, n. 3).

Il disegno della legge delega delimita il campo del patto alle sole “pene accessorie”, dunque agli effetti del reato previsti dagli artt. 19 e seguenti c.p., dalle disposizioni di parte speciale del codice penale (come appunto quelle di cui al testé ricordato art. 609-nonies c.p.) ovvero da leggi speciali (quali le pene accessorie previste in materia di bancarotta fraudolenta).

Continuano invece a rimanere fuori dal perimetro dell'accordo le “sanzioni amministrative accessorie” (quali, ad esempio, la sospensione della patente di guida). Per giurisprudenza consolidata, tali effetti – di natura squisitamente amministrativa - non sono negoziabili fra le parti, conseguono de iure dal reato e legittimamente possono essere applicati ex officio da parte del giudice anche in caso di patteggiamento (in questo senso, Cass. sez. unite, 26 settembre 2019, n. 21369, Melzani, Rv. 279349-01; Cass. sez. fer., 20 agosto 2020, n. 24023, Rv. 279635-01; Corte cost. ordinanze nn. 25 e 264 del 1999).

Quanto alla confisca, il disegno della legge delega attribuisce alle parti la facoltà di accordarsi in ordine alla confisca facoltativa e alla determinazione del suo oggetto e ammontare, in tutti i casi di applicazione della pena su richiesta, dunque tanto in caso di patteggiamento “ordinario” (cioè con applicazione di una pena non superiore a due anni di reclusione), quanto in caso di c.d. patteggiamento allargato (cioè con applicazione di una pena non superiore a cinque anni della reclusione). Viene così codificata una prassi assai diffusa ed ammessa dal diritto vivente, secondo cui, nel patteggiamento, l'accordo delle parti può avere ad oggetto anche l'applicazione delle misure di sicurezza, personali e patrimoniali (Cass. sez. unite, 26 settembre 2019, n. 21368, Savin, cit.).

Va ricordato che, a mente del comma 1 dell'art. 445 c.p.p., l'applicazione di una pena non superiore a due anni non comporta l'applicazione delle misure di sicurezza, «fatta eccezione della confisca nei casi previsti dall'art. 240 del codice penale». Spiace che il legislatore delegante non stia cogliendo l'occasione per dare una definitiva soluzione al nodo ermeneutico se, con la sentenza exart. 444 c.p.p. applicativa di una pena non superiore a due anni, possa essere comunque ordinata – e, in tale caso, negoziata - la misura di sicurezza patrimoniale della confisca prevista da leggi speciali – dunque al di fuori dei casi di cui all'art. 240 c.p. -, qualora il legislatore non ne abbia espressamente prevista l'applicazione anche in caso di patteggiamento (in passato, in relazione alla formulazione originaria dell'art. 445 c.p.p., le Sezioni unite hanno escluso tale possibilità, v. Cass. sez. unite, 15 dicembre 1992, n. 1811, Bissoli, Rv. 192494-01).

Come si è già rilevato, per espressa previsione, l'accordo delle parti potrà avere ad oggetto soltanto la “confisca facoltativa” e, a seconda della situazione sub iudice, essa potrà essere disposta in forma diretta (c.d. confisca di proprietà) ovvero - in caso di impossibilità dell'aggressione in forma specifica - per equivalente (c.d. confisca di valore).

Nonostante la delimitazione della negoziabilità alla sola confisca facoltativa, v'è nondimeno da chiedersi se, in caso di confisca obbligatoria, non possa comunque ritenersi legittimo l'accordo fra le parti che abbia ad oggetto, ovviamente non l'an della misura di sicurezza patrimoniale, ma il quantum dell'ablazione. La possibilità di definire l'ambito dell'aggressione patrimoniale prevista come conseguenza obbligatoria - soprattutto nei casi in cui sia controverso l'esatto ammontare del prezzo o del profitto del reato e l'aggressione concerna somme rilevanti o beni di cospicuo valore – potrebbe invero rappresentare un significativo incentivo all'opzione per il rito alternativo, consentendo all'imputato di proteggersi da ablazioni disposte ex officio di entità indeterminata e non prevedibile. Praticabilità di tale via, d'altronde, non esclusa, nell'iter argomentativo a sostegno della decisione, nel recente arresto delle Sezioni unite (Cass. sez. unite, 26 settembre 2019, n. 21368, Savin, cit.).

È bene rimarcare come, dall'accordo fra le parti sulla confisca (facoltativa) - previsto nel disegno della legge delega –, discendano nondimeno dei limiti al ricorso per cassazione avverso la sentenza di applicazione della pena. Come il più ampio consesso della Corte Suprema ha avuto modo di chiarire, la sentenza di patteggiamento che abbia applicato una misura di sicurezza è ricorribile per cassazione negli stretti termini di cui all'art. 448 comma 2-bis c.p.p. ove la misura sia stata oggetto dell'accordo tra le parti, mentre è ricorribile ai sensi della disciplina generale prevista dall'art. 606 c.p.p. – dunque con più ampi margini di scrutinio - ove si tratti di statuizione extra pactum (Cass. sez. unite, 26 settembre 2019, n. 21368, Savin, Rv. 279348-01).

Al punto 2) della lett. a) del medesimo comma 10, il legislatore delega il Governo a ridurre gli effetti extra-penali della sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti, prevedendo che questa non abbia efficacia di giudicato nel giudizio disciplinare e in altri casi.

Giova rammentare che, a mente dell'art. 445 comma 1-bis c.p.p. la sentenza di applicazione della pena non ha efficacia nei giudizi civili o amministrativi. Come la Cassazione civile ha avuto modo di ribadire recentemente, la sentenza penale di patteggiamento nel
giudizio civile di risarcimento e restituzione non ha efficacia di vincolo, non ha efficacia di giudicato, e non inverte l'onere della prova; la sentenza penale di patteggiamento per il giudice civile non è un atto, ma un fatto e come qualsiasi altro fatto del mondo reale può costituire un indizio, utilizzabile solo insieme ad altri indizi e se ricorrono i tre requisiti di cui all'art. 2729 c.c. (Cass. civ. sez. III11 marzo 2020, ord. n. 7014).

Nondimeno, giusta l'espresso richiamo all'art. 653 comma 1-bis c.p.p., detta sentenza ha efficacia di giudicato nel giudizio per responsabilità disciplinare limitatamente «all'accertamento della sussistenza del fatto, della sua illiceità penale ed all'affermazione che l'imputato lo ha commesso». Proprio tale estensione degli effetti del patteggiamento - possibile deterrente alla scelta del rito - il legislatore delegato sarà chiamato a correggere.

Vista l'ampiezza e la genericità dell'espressione in altri casi, il legislatore delegato avrà l'opportunità di precisare specifici ulteriori ambiti di operatività della regola ovvero negare tout court valore di giudicato alla sentenza ex art. 444 c.p.p., a qualunque effetto extra-penale.

Alla luce del disegno della delega, non viene toccata la regola affermata in via giurisprudenziale, secondo cui la sentenza di patteggiamento può essere acquisita ed utilizzata a fini probatori in altro procedimento penale, ai sensi dell'art. 238-bisc.p.p., stante l'equiparazione legislativa della sentenza ex art. 444 c.p.p. ad una sentenza di condanna (Cass. sez. unite, 29 novembre 2005, n. 17781, Diop, Rv. 233518-01; da ultimo, Cass. sez. V, 5 dicembre 2017, n. 12344).

Il punto 3) della lett. a) del comma 10 dell'art. 1 sollecita il legislatore delegato ad assicurare il coordinamento tra l'art. 446 c.p.p. e la disciplina adottata in attuazione del comma 12 dello stesso art. 1, riguardo al termine per la formulazione della richiesta di patteggiamento.

Al richiamato comma 12, si è difatti previsto che, nei procedimenti a citazione diretta di cui all'art. 550 c.p.p., prima di dare avvio al dibattimento, si svolga un'udienza pre-dibattimentale in camera di consiglio – cioè un'udienza filtro davanti ad un giudice diverso da quello che dovrà, eventualmente, celebrare il giudizio - e che in tale fase siano formulate le eventuali richieste di definizione del processo con un rito alternativo. Esigenze di natura sistematica impongono, pertanto, l'armonizzazione del termine per proporre la richiesta di patteggiamento alla nuova struttura – bifasica – del procedimento a citazione diretta, prescrivendo che la richiesta ex art. 444 c.p.p. sia presentata nella fase pre-dibattimentale, a pena di decadenza.

Come si è anticipato, il legislatore delegante non sta recependo le proposte più incisive della Commissione Lattanzi.

In particolare, la delega così scritta non fa proprie le proposte: a) di prevedere la possibilità di ridurre la pena sino alla metà, fermo restando il tetto massimo di cinque anni di reclusione; b) di eliminare le preclusioni soggettive e oggettive alla fruibilità del rito abbreviato c.d. allargato previste dal comma 1-bis dell'art. 444 c.p.p. (previste, ad esempio, in caso di procedimento per taluno dei gravi delitti di cui all'art. 51, commi 3-bis e 3-quater, c.p.p. o in caso di soggetti dichiarati delinquenti abituali, professionali o per tendenza ovvero recidivi reiterati ai sensi dell'art. 99 comma quarto c.p.). Proposte che, nel consentire di raggiungere un accordo sulla pena anche in relazione ad ipotesi delittuose connotate da sanzioni edittali assai elevate nonché da parte di soggetti con una importante carriera criminale alle spalle, avrebbero, tuttavia, potuto rappresentare un fortissimo incentivo alla scelta del rito.

Il giudizio abbreviato

Al punto 1) dellalett. b) del comma 10 dell'art. 1, il legislatore introduce una modifica in ordine alle condizioni per l'accoglimento della richiesta di giudizio abbreviato subordinata ad un supplemento istruttorio di cui all'art. 438 comma 5 c.p.p., prevedendo che detta forma di abbreviato possa essere ammessa se l'integrazione risulta necessaria ai fini della decisione e se il procedimento speciale produce un'economia processuale in rapporto ai tempi di svolgimento del giudizio dibattimentale.

Mentre rimane inalterato il primo dei presupposti per l'accesso al rito abbreviato condizionato – id est quello relativo alla necessità del supplemento istruttorio ai fini della decisione – viene emendato il secondo presupposto, sostituendo il parametro – assoluto - della compatibilità «con le finalità di economia processuale proprie del rito» con il criterio - di natura relativistica – che il rito speciale consenta di ottenere un risparmio dei tempi processuali rispetto al giudizio ordinario.

A ben vedere, l'innovazione codificherebbe un principio di diritto già affermato nel diritto vivente, precisamente l'autorevole indicazione della Corte costituzionale che, pronunciandosi con la sentenza del 7 maggio 2001 n. 115 sul rito abbreviato novellato dalla legge c.d. Carotti, aveva evidenziato che, ai fini della valutazione sulla compatibilità con le esigenze di economia processuale, il nuovo giudizio abbreviato «va posto a raffronto con l'ordinario giudizio dibattimentale, e non con il rito esclusivamente e rigorosamente limitato allo stato degli atti previsto dalla precedente disciplina» (principio ribadito nella sentenza n. 169/2003). Sviluppando tale ragionamento, la Consulta aveva difatti rilevato come non sia “producente” il confronto tra il giudizio abbreviato puro, accompagnato dalla mera eventualità di integrazione probatoria disposta ex officio, ed il giudizio condizionato dalla richiesta dell'imputato di integrazione probatoria, rimarcando come il giudizio abbreviato, anche con un'integrazione probatoria, realizza comunque un «minor dispendio di tempo e di energie processuali rispetto al procedimento ordinario».

La ratio della modifica – id est quella di allargare la maglia del filtro di accesso al rito abbreviato condizionato rapportandone l'economicità alla tempistica del giudizio ordinario – rischierebbe nondimeno di naufragare là dove, come si vedrà infra, il testo della delega, già approvata alla Camera, non recepisce integralmente la proposta della Commissione Lattanzi che riservava la possibilità di instaurare il giudizio abbreviato condizionato alla fase dibattimentale, davanti ad un giudice certamente più propenso del giudice dell'udienza preliminare a concederlo, vista la prospettiva di celebrare, in alternativa, il processo con le ben più gravose forme del dibattimento.

Restando immutata la prima condizione per il giudizio abbreviato condizionato (id est la necessità della prova ai fini della decisione), rimane valido l'insegnamento della Corte di cassazione secondo cui la prova sollecitata dall'imputato deve essere integrativa e non sostitutiva rispetto al materiale già raccolto ed utilizzabile e può considerarsi "necessaria" quando risulta indispensabile ai fini di un solido e decisivo supporto logico-valutativo per la deliberazione in merito ad un qualsiasi aspetto della regiudicanda (Cass. sez. unite, 27 ottobre 2004, n. 44711, Wajib, Rv. 229175-01; Cass, sez. I, 13 luglio 2018,n. 10016, Rv. 274920-01).

Il punto 2) della lett. b) dello stesso comma 10 prevede che la pena inflitta con la sentenza di primo grado all'esito del giudizio abbreviato sia ulteriormente ridotta di un sesto nel caso di mancata proposizione dell'impugnazione da parte dell'imputato, stabilendo che la riduzione sia applicata dal giudice dell'esecuzione.

La disposizione è chiaramente volta a disincentivare le impugnazioni avverso la sentenza pronunciata all'esito del giudizio abbreviato assicurando all'imputato uno sconto “secco” di un sesto di pena qualora rinunci al controllo dei giudici superiori. Viene così introdotta una compensazione - ragionevole e certamente compatibile con il dettato costituzionale - fra la rinuncia dell'imputato, consapevole e volontaria, all'esercizio del diritto di difesa come declinato nei giudizi impugnatori ed il rilevante vantaggio sul piano sanzionatorio da egli conseguibile, per avere reso possibile un risparmio di tempi e risorse.

Infine, al punto 3) della medesima lett. b), si prevede l'abrogazione del comma 3 dell'art. 442 c.p.p. e dell'art. 134 disp. att. c.p.p., là dove prevedono che la sentenza sia notificata per estratto all'imputato che non sia comparso unitamente all'avviso di deposito della sentenza medesima. Aggiustamenti coerenti con la riscrittura della disciplina in tema di notificazioni e, soprattutto, di processo in assenza (art. 1, commi 6, 7 e 13 del disegno della legge delega) là dove potenziano gli strumenti atti a dare certezza del fatto che l'imputato assente sia a conoscenza della pendenza del procedimento e che ciò sia dovuto ad una sua scelta volontaria e responsabile, introducono regole tese a rendere più celere ed efficiente il sistema delle notificazioni (imponendo l'elezione o la dichiarazione di domicilio, incentivando le notifiche telematiche e potenziando l'onere informativo del difensore all'assistito) e, soprattutto, prevedono l'onere a carico dell'imputato, presente o assente, di dichiarare o eleggere il domicilio per il giudizio di impugnazione ai fini della notificazione del relativo atto introduttivo.

Non può, in ogni caso, sottacersi come le Sezioni Unite della cassazione avessero di recente affermato che la sentenza emessa nel giudizio abbreviato non deve essere notificata per estratto all'imputato assente, essendo state le disposizioni di cui agli artt. 442 comma 3 c.p.p. e 134 disp. att., già tacitamente abrogate dalla legge 16 dicembre 1999, n. 479 che, estendendo al giudizio abbreviato l'istituto della contumacia, ne ha determinato la sostituzione con la previsione dell'art. 548, comma 3, c.p.p., in seguito espressamente abrogata dalla disciplina del processo in absentia, introdotta con legge 28 aprile 2014, n. 67 (Cass. pen. sez. unite, 24 ottobre 2019, n. 698, Sinito, Rv. 277470-01).

Come anticipato, il legislatore delegante non implementa invece la proposta della Commissione Lattanzi tesa ad una ristrutturazione più radicale dei due riti abbreviati contemplati dal codice di rito con una netta distinzione delle fasi processuali di possibile rispettiva instaurazione.

Secondo il disegno della Commissione, il rito abbreviato “secco” (cioè non condizionato ad un supplemento istruttorio) avrebbe potuto essere richiesto dall'imputato soltanto nella fase dell'udienza preliminare e nella fase pre-dibattimentale dei giudizi a citazione diretta, consentendo di ottenere uno sconto di pena di un terzo (come nella formulazione attualmente vigente). Il rito abbreviato condizionato avrebbe invece potuto essere instaurato soltanto dinanzi al giudice del dibattimento, subordinatamente alla valutazione circa l'economicità processuale di tale percorso alternativo rispetto al rito ordinario, consentendo all'interessato di fruire in tale caso di una riduzione di pena “fino ad un terzo”. Soluzione processuale che, ove recepita nella delega, potrebbe effettivamente imprimere una forte spinta alla definizione dei processi con il rito condizionato ex art. 438, comma 5, c.p.p., in considerazione dei “vantaggi” sia per l'imputato, visto lo sconto di pena conseguibile, sia per il giudice, vista la prospettiva di una definizione del processo più agevole e rapida rispetto al giudizio ordinario in procinto di essere celebrato dinanzi al medesimo.

Mette conto di rimarcare come il disegno della legge delega non tocchi la preclusione all'accesso al rito abbreviato in relazione ai delitti puniti con l'ergastolo, introdotta con la legge 19 aprile 2019, n. 33, preclusione recentemente giudicata compatibile con il dettato costituzionale dal Giudice delle Leggi (con la sentenza n. 260 del 2020).

Il giudizio immediato

In materia di giudizio immediato, il legislatore delegante sta lasciando invariato l'originario disegno di legge “Bonafede”.

In particolare, la lett. c) del comma 10 dell'art. 1 prevede, al punto 1), che in caso di rigetto da parte del giudice delle indagini preliminari della richiesta di giudizio abbreviato subordinata ad un'integrazione probatoria formulata a seguito di notificazione del decreto di giudizio immediato, l'imputato possa proporre la richiesta di giudizio abbreviato di cui all'art. 438 comma 1 c.p.p. oppure la richiesta di applicazione della pena ai sensi dell'art. 444 stesso codice; al punto 2), che, a seguito di notificazione del decreto di giudizio immediato, nel caso di dissenso del pubblico ministero o di rigetto da parte del giudice delle indagini preliminari della richiesta di applicazione della pena ai sensi dell'art. 444 c.p.p., l'imputato possa proporre la richiesta di giudizio abbreviato.

Le modifiche normative sono volte a superare lo sbarramento processuale - segnatamente il termine, a pena di decadenza, di quindici giorni dalla notifica del decreto di giudizio immediato previsto dal combinato disposto degli artt. 456 comma 2 e 457 comma 1 c.p.p. - ai fini della presentazione di, ulteriori, richieste di giudizio abbreviato o di applicazione della pena su richiesta, nella specifica ipotesi in cui la prima opzione in rito formulata dall'imputato non sia andata a buon fine (per il rigetto della richiesta di giudizio abbreviato condizionato ovvero di patteggiamento da parte del Gip ovvero per il dissenso del P.M. alla richiesta di patteggiamento). La riforma così scritta consentirà, pertanto, all'imputato di essere rimesso in termini per la proposizione di una nuova richiesta di definizione del procedimento con un rito alternativo diverso da quello originariamente indicato all'esito della notifica del decreto di giudizio immediato, allorquando la prima opzione formulata sia risultata non praticabile, ampliando significativamente l'ambito delle facoltà difensive di accesso ai riti speciali.

Viene così eliminato un - poco ragionevole - ostacolo alla definizione del giudizio immediato con un rito alternativo, causa di forti criticità nella prassi applicativa, cui la giurisprudenza aveva cercato di ovviare in via interpretativa, ora riconoscendo – ferma la non convertibilità dell'originaria scelta per il giudizio abbreviato in una richiesta di patteggiamento – la legittimità della formulazione ab origine di una richiesta principale e di una o più richiesta subordinate, attivabili in caso di mancato accoglimento della prima istanza in rito (Cass. sez. III, 29 gennaio 2015, n. 21456, Rv. 263747-01); ora ritenendo non tardiva la richiesta - e dunque ammissibile - la richiesta di rito abbreviato semplice formulata all'udienza camerale di cui all'art. 458 comma 2 c.p.p. all'esito del rigetto della richiesta di rito abbreviato condizionato, tempestivamente presentata e respinta dal giudice per le indagini preliminari (da ultimo Cass. pen., sez. I, 3 aprile 2019, n. 21439, Rv. 275812–01).

Il procedimento per decreto

Modesti sono i ritocchi che la “riforma Cartabia” sta apportando allalett. d) del comma 10 dell'art. 1 dell'originario disegno di legge Bonafede” in materia di procedimento per decreto.

In particolare, rimangono immutate le indicazioni date al legislatore delegato di prevedere, al punto 1), chela richiesta di decreto penale di condanna possa essere formulata dal pubblico ministero entro il termine di un anno dalla data di iscrizione del nome della persona indagata nel registro delle notizie di reato ai sensi dell'art. 335 c.p.p.; al punto 2), che, nei casi previsti dall'art. 460 comma 5 c.p.p., ai fini dell'estinzione del reato sia necessario il pagamento della pena pecuniaria. È invece emendato il punto 3), allungando da dieci a quindici giorni il termine decorrente dalla notificazione del decreto penale di condanna, entro il quale il condannato, rinunciando a proporre opposizione, possa pagare la pena pecuniaria in misura ridotta di un quinto.

La modifica concernente il termine per la presentazione della richiesta del provvedimento monitorio a carico dell'inquirente - quello di un anno in luogo del termine di sei mesi previsto dal vigente art. 459 comma 1 c.p.p. – si raccorda direttamente alla riforma dei termini di durata delle indagini exart. 405 c.p.p. prevista dalla lett. c) del comma 9 dell'art. 1 del disegno della legge delega. A mente di tale ultima disposizione, la durata delle indagini viene difatti diversamente modulata a seconda se si tratti di contravvenzioni, per le quali il termine delle indagini è di sei mesi dalla data di iscrizione nel registro ex art. 335 c.p.p.; dei gravi delitti di cui all'art. 407 comma 2 c.p.p., per i quali il termine è di un anno e sei mesi, ovvero dei restanti delitti - sui quali più incide la possibilità di definizione con il procedimento monitorio - per i quali il termine è appunto di un anno.

La delega, così scritta, dunque non prende nondimeno posizione in ordine alla natura di tale termine e, per quanto più rileva, alle conseguenze processuali in caso di omesso rispetto dello stesso.

Al riguardo, la giurisprudenza di legittimità maggioritaria è orientata nel senso di ritenere che il termine per la richiesta del P.M. di decreto penale di condanna abbia natura soltanto ordinatoria e che, tuttavia, il relativo omesso rispetto legittimi il non accoglimento della richiesta da parte del giudice e la restituzione degli atti all'inquirente (Cass. sez. III, 21 marzo 2001, n. 16446, Rv. 219513-01; Cass. Sez. V, 22 aprile 2005, n. 41146, Rv. 232541–01; contra, secondo cui il provvedimento di rigetto del Gip è abnorme Cass. Sez. I, 21 gennaio 2004, n. 5566, Rv. 227853-01).

La modifica all'art. 460 comma 5 c.p.p., nel subordinare l'effetto estintivo del reato al pagamento della pena pecuniaria, è chiaramente volta ad assicurare effettività e cogenza al decreto penale, consentendo all'interessato di avvalersi del beneficio soltanto a fronte del compiuto adempimento della statuizione in esso contenuta.

Infine, la previsione di uno sconto significativo di pena (quello di un quinto) nel caso in cui, nel termine di quindici giorni dalla notificazione del provvedimento, il condannato provveda al pagamento della sanzione pecuniaria (appunto ridotta) con rinuncia a proporre opposizione (dunque all'instaurazione del giudizio ordinario o di un rito speciale), introduce un incentivo all'acquiescenza rispetto al provvedimento monitorio.

Come si è già osservato in relazione alla riduzione di pena in caso di rinuncia all'impugnazione avverso la sentenza resa all'esito del giudizio abbreviato, il legislatore delegante compensa la consapevole e volontaria rinuncia dell'interessato ad esercitare il diritto di difesa nel successivo sviluppo del procedimento - e l'economia processuale che ne deriva – riconoscendo a quest'ultimo un'importante riduzione sanzionatorio, realizzando un ragionevole equilibrio fra le diverse esigenze in gioco, certamente compatibile con i principi costituzionali.

Come ha rilevato correttamente il CSM nel parere espresso sulla riforma, sarebbe stata peraltro opportuna la previsione di un termine più ampio di quello di quindici giorni, così da consentire all'interessato di reperire le risorse necessarie per fare fronte al pagamento della sanzione.

Le nuove contestazioni dibattimentali

Alle lett. e) ed f) del comma 10 dell'art. 1 il legislatore delega il Governo, da un lato, a coordinare la disciplina delle nuove contestazioni in dibattimento con la disciplina dei termini per la presentazione della richiesta di procedimenti speciali; dall'altro lato, a prevedere che, in caso di nuove contestazioni ai sensi del Libro VII, Titolo II, Capo IV, del codice di procedura penale, l'imputato possa chiedere la definizione del processo ai sensi degli artt. 444 e seguenti o 458 e seguenti del medesimo codice, prevedendo altresì che tale facoltà possa essere esercitata nell'udienza successiva a quella in cui è avvenuta la nuova contestazione.

Le innovazioni sono tese a codificare le regole introdotte dalla Corte costituzionale con i plurimi arresti in tema di nuove contestazioni dibattimentali ai sensi degli artt. 516 e 517 c.p.p. (con le sentenze nn. 265/1994, 530/1995, 333/2009, 237/2012, 139/2015, 194/2014, 273/2014, 206/2017, 141/2018, 82/2019 e 14/2020). Nel tempo, il Giudice delle leggi ha invero dichiarato l'incostituzionalità delle citate disposizioni del codice di rito nella parte in cui non consentono all'imputato la presentazione della richiesta di un rito alternativo (di patteggiamento e di giudizio abbreviato, ma anche di oblazione e di sospensione del procedimento con messa alla prova, come nei casi decisi dalla Corte costituzionale nn. 530/1995 e 14/2020) allorché, nel corso del giudizio, l'inquirente proceda alla contestazione di un “fatto diverso” exart. 516 c.p.p. ovvero di un “reato concorrente” o di una “circostanza aggravante” ex art. 517 c.p.p. Ciò tanto nel caso di c.d. contestazione patologica, cioè concernente un fatto, un reato o un elemento circostanziale che già risultava dagli atti d'indagine al momento dell'esercizio dell'azione penale e che, per inerzia della pubblica accusa, non sia stato contestato (come nei casi decisi dalla Corte costituzionale nelle sentenze n. 265/1994 e n. 333/2009), quanto nel caso di c.d. contestazione fisiologica, cioè concernente un fatto, un reato o un elemento circostanziale che si emerso soltanto nel corso dell'istruzione dibattimentale (come nel caso deciso dalla Corte costituzionale n. 206/2017 n. 82/2019).

Il legislatore delegato dovrà dunque disciplinare nel codice di rito in modo espresso la facoltà dell'imputato di presentare - cioè di essere rimesso in termini per presentare - la richiesta di un giudizio speciale in ordine al reato come modificato dal pubblico ministero, al reato concorrente ovvero al reato come diversamente circostanziato, a prescindere dal fatto che si tratti di contestazione patologica o fisiologica, armonizzando tale previsione con la regolamentazione della tempistica ordinaria di presentazione delle richieste di definizione del processo con un rito alternativo.

Il Governo dovrà altresì tenere conto dell'indicazione secondo cui l'imputato, rimesso in termini per proporre la richiesta di un rito alternativo, sarà nondimeno tenuto ad esercitare tale facoltà soltanto entro l'udienza successiva a quella in cui è stata elevata la nuova contestazione. Sbarramento che si giustifica in ragione della necessità di evitare inutili dilatazioni della tempistica processuale.

Stante per ora il silenzio della delega sul punto, sarà destinato a rimanere invariato il principio di diritto ormai consolidato secondo cui, in caso di contestazione di un reato concorrente, l'imputato è legittimato all'esercizio della facoltà di richiedere un rito alternativo esclusivamente con riguardo al nuovo reato contestato, senza possibile estensione ai reati precedentemente e correttamente contestati e per i quali l'imputato non abbia, pertanto, tempestivamente richiesto i riti alternativi, accettando il dibattimento. (Cass. sez. V, 29 aprile 2014, n. 23595, Rv. 260574-01).

In conclusione

Tirando le fila delle considerazioni sopra svolte, il legislatore delegante, pur introducendo innovazioni utili ad ampliare il campo di operatività dei riti alternativi, sta tuttavia perdendno l'occasione per tradurre in norma quelle indicazioni della Commissione Lattanzi che avrebbero potuto incidere più profondamente sulla struttura e sui presupposti dei procedimenti speciali – in particolare, del patteggiamento e dell'abbreviato – e rafforzarne l'attrattiva per gli imputati.

La novella che sarà ora all'esame del Senato interviene difatti su aspetti tutto sommato marginali della disciplina dei riti alternativi, in talune parti recepisce regole già affermatesi nel diritto vivente (segnatamente ad opera della giurisprudenza costituzionale e di legittimità) o si limita a adeguare le regole in materia alle novelle concernenti altri settori della procedura penale. In altre parole, la riforma non tocca gli aspetti di fondo – alcuni dei quali indubbiamente divisivi sul piano politico e sui quali risultava pertanto difficile trovare una convergenza – e realizza timidi aggiustamenti della materia, che difficilmente potranno, almeno non da soli, comportare un incentivo significativo alla definizione dei processi con i riti alternativi.

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