Rimessione in termini

10 Settembre 2021

Lo spostamento, ad opera della l. 69/2009, della disciplina della rimessione in termini, dall'art. 184-bis c.p.c., all'art. 153, comma 2, c.p.c., è indice dell'avvenuta generalizzazione dell'istituto in esame, ovvero della sua estensione rispetto all'assetto precedente e, di conseguenza, dell'ampliamento del suo ambito di applicazione, non più limitato alle sole decadenze interne al singolo grado di giudizio.
Inquadramento

L'istituto della rimessione in termini era disciplinato dall'art. 184-bis c.p.c., il quale, nonostante il tenore apparentemente generale, rimaneva una previsione collocata nel titolo I del libro II del codice di procedura civile, relativo al procedimento davanti al tribunale. Per tale ragione, la prevalente giurisprudenza di legittimità aveva più volte ribadito che l'art. 184-bis c.p.c. era una norma riferibile alle sole decadenze concernenti la fase istruttoria del processo di primo grado e, tramite il rinvio operato dall'art. 359 c.p.c., del secondo grado, non estensibile, però, in virtù del suo carattere eccezionale, alle c.d. situazioni esterne. La suddetta limitazione aveva posto non pochi problemi: infatti, alcuni autori non avevano esitato ad evidenziare che, ai fini di un adeguato rispetto del diritto di difesa, garantito dall'art. 24, comma 2, Cost., sarebbe stato opportuno ammettere la restituzione nel termine per proporre impugnazione tutte le volte in cui il mancato rispetto del suddetto termine non fosse dipeso dalla responsabilità della parte onerata (Caponi, La rimessione in termini nel processo civile, Milano, 1996, 119 ss.). Tuttavia, nella prevalente giurisprudenza di legittimità si era affermata la più rigorosa posizione, secondo la quale la disciplina della rimessione in termini posta dall'art. 184-bis c.p.c. concerneva solo la fase istruttoria e non era applicabile anche alla fase di proposizione delle impugnazioni (Asprella – Giordano, La riforma del processo civile, dal 2005 al 2009, in Giust. civ., 2009, suppl. al n. 6, 27). L'inapplicabilità dell'istituto della rimessione in termini ai c.d. poteri esterni era da ricondurre all'esigenza di assicurare la certezza e la stabilità delle situazioni giuridiche ed al timore che l'introduzione di una generale possibilità di rimessione in termini avrebbe fatto pagare un prezzo troppo alto alla certezza dei risultati del processo, la cui definitività ed immutabilità si sarebbero sempre potute rimettere in discussione. Questa prudenza, però, era stata anche criticata dalla dottrina, la quale aveva osservato che se si dà rilievo alla causa non imputabile per rimettere la parte in termini, non c'è ragione per ritenere che ciò sia possibile all'interno del processo e durante l'istruzione della causa e non anche quando si è fuori dalla fase istruttoria (Verde, Diritto processuale civile. Vol. 1: Parte generale, Bologna, 2010, 259).

La l. 69/2009 si è resa interprete di tali esigenze: essa, infatti, ha abrogato l'art. 184-bis c.p.c. ed ha aggiunto un secondo comma all'art. 153 c.p.c. in cui è disciplinato l'istituto della rimessione in termini.

Pur se il contenuto è pressoché il medesimo, è possibile notare che nella norma non si parla più di giudice istruttore, ma di giudice tout court. Si tratta di una differenza rilevante: l'espressione giudice istruttore, infatti, permetteva di sostenere l'applicabilità della rimessione in termini alle sole decadenze che si verificavano all'interno dell'attività istruttoria e che riguardavano, quindi, poteri processuali interni al singolo grado di giudizio. L'espressione attuale, invece, è sintomo del carattere generale assunto dalla nuova disciplina della rimessione in termini. Il cambiamento, solo apparentemente innocuo, rivela il movente della modifica legislativa, il quale si innesta sulla diversa collocazione dell'istituto della rimessione in termini all'interno del codice di procedura civile e sulle conseguenze che derivano da questa nuova collocazione (Panzarola, Sulla rimessione in termini ex art. 153 c.p.c., in Riv. dir. proc., 2009, 1637; Salvaneschi, La riduzione del tempo del processo nella nuova riforma dei primi due libri del codice di rito, in Riv. dir. proc., 2009, 1575).

Lo spostamento, quindi, della disciplina della rimessione in termini, dall'art. 184-bis c.p.c., sito nel libro II, relativo al processo di cognizione, all'art. 153, comma 2, c.p.c., posto, invece, nel libro I, relativo alle disposizioni generali, nel titolo VI, relativo agli atti processuali, al capo II, dedicato ai termini, è indice dell'avvenuta generalizzazione dell'istituto in esame, ovvero della sua estensione rispetto all'assetto precedente e, di conseguenza, dell'ampliamento del suo ambito di applicazione, non più limitato alle sole decadenze interne al singolo grado di giudizio (D'Adamo, Prime riflessioni sulla nuova rimessione in termini, in Riv. dir. proc., 2010, 386; Boccagna, sub art. 153, par. 4, in Codice di procedura civile commentato. La riforma del 2009, a cura di Consolo, Milano, 2009, 115; Boccagna – De Santis, sub art. 153, in Codice di procedura civile. Commentario, a cura di Consolo, Milano, 2018, 1752 ss.).

L'avvenuta generalizzazione dell'istituto della rimessione in termini testimonia l'avvenuta recezione nel nostro ordinamento del modello dell'autoresponsabilità per colpa della parte e, quindi, il passaggio da un sistema improntato all'autoresponsabilità da decadenza su fondamento oggettivo ad uno improntato all'autoresponsabilità da decadenza sul fondamento della colpa. Inoltre, l'inserimento della disciplina dell'istituto della rimessione in termini al secondo comma dell'art. 153 c.p.c., che disciplina l'improrogabilità dei termini perentori, permette di affermare che l'improrogabilità dei termini perentori cede se la decadenza è dovuta ad una causa non imputabile alla parte: in questo modo, si prevede una deroga espressa al principio dell'improrogabilità dei termini (Caponi, Rimessione in termini: estensione ai poteri di impugnazione (art. 153, comma 2, c.p.c.), in Foro it., 2009, V, 283; Id., voce Rimessione in termini nel processo civile, in Digesto civile, Aggiornamento, Torino, 2009, 468).

L'ambito applicativo: il processo di cognizione

Il predetto spostamento nel secondo comma dell'art. 153 c.p.c., all'interno del libro I, come già preannunciato, incide sostanzialmente sull'ambito di applicazione della disciplina della rimessione in termini ampliandolo rispetto alla normativa previgente.

Certamente la nuova disposizione si applica alle decadenze che già rientravano nell'ambito applicativo dell'ormai abrogato art. 184-bis c.p.c., ovvero a tutte le decadenze maturate a carico delle parti durante lo svolgimento del singolo grado del giudizio. Pertanto, troverà sicuramente applicazione in relazione: alle decadenze legate al termine prescritto per la costituzione tempestiva del convenuto, ovvero per la proposizione delle eccezioni in senso stretto, delle domande riconvenzionali e della dichiarazione di voler chiamare in causa terzi (art. 167 c.p.c.) e per la formulazione delle eccezioni di incompetenza (art. 38 c.p.c.) e, più in generale, a tutte attività da compiere, a pena di decadenza, nella comparsa di risposta tempestivamente depositata; alle decadenze aventi ad oggetto il compimento di tutte le attività assertive e probatorie che si maturano nella fase di trattazione, ai sensi dell'art. 183 c.p.c., ovvero per la proposizione da parte dell'attore delle domande ed eccezioni che siano conseguenza della domanda riconvenzionale o delle eccezioni del convenuto, per la richiesta da parte dell'attore di essere autorizzato a chiamare terzi in causa a seguito delle difese del convenuto, per la proposizione e modificazione, ad opera di entrambe le parti, di domande, eccezioni e conclusioni già formulate, per la replica, ad opera di entrambe le parti, alle domande ed eccezioni nuove o modificate dell'avversario, per la proposizione delle eccezioni che siano la conseguenza delle domande ed eccezioni medesime, per l'indicazione dei mezzi di prova, per la richiesta della relativa prova contraria, per l'indicazione dei mezzi di prova che si rendano necessari in relazione a quelli eventualmente disposti d'ufficio dal giudice e per il deposito della relativa memoria di replica; alle decadenze relative al termine per il deposito delle comparse conclusionali e del fascicolo di parte eventualmente ritirato ex art. 169, comma 2, c.p.c., (CAPRIO, Perentorietà del termine per la restituzione del fascicolo precedentemente ritirato e (ri)produzione in appello, in giustiziacivile.com), nonché delle memorie di replica (art. 190 c.p.c.); alle decadenze previste dalla legge per l'interventore ed il terzo chiamato ai sensi degli artt. 268 e 269 c.p.c.

In evidenza

Il differimento della prima udienza ex art. 168-bis, comma 5, c.p.c. intervenuto dopo la scadenza del termine per la costituzione del convenuto ex art. 166 c.p.c. non determina la rimessione in termini dello stesso convenuto ai fini della sua tempestiva costituzione e, di conseguenza, restano ferme le decadenze già maturate a suo carico ai sensi dell'art. 167 c.p.c. (Cass. 3 febbraio 2020, n. 2394).

La rimessione in termini è certamente applicabile anche alle decadenze relative al grado di appello, cui era già ammessa l'estensione ex art. 359 c.p.c. e più precisamente: alla decadenza per mancata tempestiva formulazione delle domande ed eccezioni non riproposte in appello ex art. 346 c.p.c.; alla decadenza dal termine per proporre appello incidentale ex art. 343 c.p.c.; alla decadenza legata al termine per la costituzione dell'appellante ex art. 347 c.p.c.: infatti, se l'appellante non si costituisce nei termini l'appello è dichiarato improcedibile ex art. 348 c.p.c. (Caporusso, Sull'improcedibilità dell'appello per tardiva costituzione dell'appellante, in Foro it., I, 2010, 616).

Va, poi, sottolineato che la parte può incorrere in decadenza non solo per il mancato esercizio del potere processuale nel termine stabilito, ma anche per il mancato corretto esercizio del potere. In entrambi i casi, non si perfeziona la fattispecie cui la legge collega il prodursi dell'effetto. Il riferimento è ovviamente all'atto compiuto tempestivamente ma invalidamente ed alla possibilità o meno per il giudice di disporne la rinnovazione dopo che sia scaduto il termine previsto per il suo compimento. Ci si è chiesti, allora, se la rinnovazione dell'atto sia possibile anche dopo la scadenza del termine prescritto per il suo compimento ed al riguardo si è affermato che, in un sistema processuale ispirato al principio dell'autoresponsabilità per colpa, la rinnovazione, ed in generale la sanatoria, dell'atto nullo è ammessa anche dopo che si è verificata la decadenza, se la nullità non è imputabile alla parte. Tuttavia, esistono «ipotesi significative in cui, al contrario, è dato alla parte di allontanare da sé le conseguenze pregiudizievoli della decadenza anche se è in colpa». Le ipotesi in questione sono disciplinate dagli artt. 102, 164, comma 2, e 291, comma 1, c.p.c., relative all'integrazione del contraddittorio, alla rinnovazione dell'atto di citazione nullo per vizi della vocatio in ius e della notificazione dell'atto di citazione. A tali ipotesi, in seguito alla riforma del 2009, si è aggiunta quella disciplinata dall'art. 182, comma 2, c.p.c., in tema di sanatoria del difetto di rappresentanza, assistenza o per il rilascio delle autorizzazioni e della procura alle liti o per la rinnovazione della stessa. Si tratta, dunque, di due tecniche ben distinte: una consiste nel concedere la rimessione in termini in caso di decadenza per il mancato esercizio del potere processuale nel termine stabilito dovuta ad una causa non imputabile; l'altra consiste nel dare alla parte la possibilità di rinnovare l'atto compiuto nel termine ma invalidamente, anche se è in colpa (Caponi, La rimessione in termini nel processo civile, cit., 341 ss.).

L'istituto della rimessione in termini trova, inoltre, applicazione anche nei riguardi della parte che sia incolpevolmente decaduta dall'onere di specifica contestazione dei fatti allegati, previsto, in seguito alla riforma del 2009, dall'art. 115, comma 1, c.p.c.

Come già accennato, l'avvenuta generalizzazione dell'istituto ha permesso di estendere quest'ultimo anche alle decadenze dai poteri esterni al processo, come il potere di impugnazione ed il potere di proseguire o riassumere il processo. Si è sostenuto, infatti, che la diversa collocazione è indice della volontà di estendere il rimedio anche a tali poteri (Bove, La riforma della procedura, in Bove - Santi, Il nuovo processo civile tra modifiche attuate e riforme in atto, Macerata, 2009, 51 ss.; Bucci, in Bucci - Soldi, Le nuove riforme del processo civile, Padova, 2009, 92; Briguglio, Le novità sul processo ordinario di cognizione nell'ultima, ennesima riforma in materia di giustizia civile, in www.judicium.it, § 6; Ricci, La riforma del processo civile. Legge 18 giugno 2009, n. 69, Torino, 2009, 27 ss.; Cecchella, Il nuovo processo civile, Milano, 2009, 60). Per quanto riguarda i termini di impugnazione, mentre non sembrano porsi problemi per il termine breve di cui all'art. 325 c.p.c. decorrente dalla notificazione della sentenza ad istanza di parte (art. 326 c.p.c.), qualche dubbio si è posto per il c.d. termine lungo di cui all'art. 327 c.p.c. decorrente dalla pubblicazione della sentenza. Qui il passaggio in giudicato della sentenza è collegato al mero decorso del tempo decorrente da un evento univocamente accertabile quale la pubblicazione della sentenza, indipendentemente da qualsiasi considerazione di carattere soggettivo. Si presume, data l'ampiezza del termine, che la parte, che sia a conoscenza del processo, sia in grado, con l'ordinaria diligenza, di venire a conoscenza della sentenza in tempo utile per proporre impugnazione. Si è tuttavia obiettato che si tratta pur sempre di una massima di esperienza, che non può essere spinta fino al punto di legittimare una presunzione assoluta di colpevolezza per l'inosservanza del termine lungo. Laddove, infatti, una simile presunzione si riveli infondata per qualsiasi motivo, la garanzia costituzionale del diritto di difesa impone la predisposizione di un apposito rimedio restitutorio che consenta alla parte incolpevolmente decaduta di proporre impugnazione nonostante il decorso del termine. A ciò si aggiunge anche che l'istituto della rimessione in termini non esaurisce la sua rilevanza nell'ambito della disciplina dei termini processuali, ma trova applicazione in «tutte quelle numerose situazioni processuali che, riconducendosi al comune effetto di perdita del potere di compiere l'atto per non averlo compiuto nel tempo previsto, possono essere ricondotte nella più vasta categoria della decadenza processuale» (Balbi, Legge 2 dicembre 1995, n. 534. Interventi urgenti sul processo civile, sub art. 6 (Rimessione in termini), in Nuove leggi civili commentate, 1996, 621). Pertanto, sembra prevalere l'idea che:

In evidenza

L'inosservanza del termine breve e di quello lungo producono l'identico effetto della decadenza dal potere d'impugnare, per cui non è possibile sostenere che il diverso momento iniziale e la maggior ampiezza del termine lungo rispetto al termine breve siano in grado di escludere il termine lungo dall'ambito applicativo del rimedio restitutorio (Briguglio, Le novità sul processo ordinario di cognizione nell'ultima, ennesima riforma in materia di giustizia civile, cit., § 6).

La parte potrà, quindi, ottenere la restituzione nel termine lungo di impugnazione dimostrando, non semplicemente la mancata conoscenza della sentenza, ma, l'esistenza di particolari circostanze, come la mancata annotazione dell'avvenuta pubblicazione della sentenza nell'apposito registro di cancelleria, lo smarrimento o la distruzione dell'originale del provvedimento, che le abbiano impedito di venire a conoscenza della sentenza mediante l'impiego dell'ordinaria diligenza o di non essere stata, materialmente, in grado di impugnare la sentenza nel termine lungo.

In evidenza

L'istituto della rimessione in termini, previsto dall'art. 153, comma 2, c.p.c., come novellato dalla l. 69/2009, opera anche con riguardo al termine per proporre impugnazione e richiede la dimostrazione che la decadenza sia stata determinata da una causa non imputabile alla parte, perché cagionata da un fattore estraneo alla sua volontà che presenti i caratteri dell'assolutezza e non della mera difficoltà (Cass. civ., 3 dicembre 2020, n. 27726; Cass. civ., 27 settembre 2019, n. 24180).

Oltre ai termini, breve e lungo, per proporre impugnazione, la rimessione in termini si applica: anche alla decadenza dal termine per l'integrazione del contraddittorio in cause inscindibili di cui all'art. 331 c.p.c., in riferimento al quale la giurisprudenza aveva già mostrato delle aperture (Cass. civ., sez. un., 21 gennaio 2005, n. 1238, in Foro it., 2005, I, 2401, con nota di Caponi, Un passo delle sezioni unite della Cassazione verso la rimessione nei termini di impugnazione); alla decadenza relativa al termine per proporre impugnazione incidentale ex art. 333 c.p.c.; alla decadenza per mancata tempestiva formulazione della riserva di ricorso in cassazione ex art. 361, comma 1, c.p.c.; alla decadenza dal termine previsto dall'art. 369 c.p.c. per il deposito del ricorso; alla decadenza dal termine ex art. 370 c.p.c. per il deposito del controricorso; alla decadenza legata al termine per proporre ricorso incidentale ex art. 371 c.p.c.; alla decadenza relativa al termine per l'integrazione del contraddittorio in cassazione di cui all'art. 371-bis c.p.c.; alla decadenza dal termine per la correzione degli errori materiali ovvero per la revocazione delle decisioni della cassazione ex art. 391-bis, comma 1, c.p.c.; alla decadenza dal termine per il deposito dell'atto di revocazione di cui all'art. 399 c.p.c.

In evidenza

Il tardivo deposito, unitamente al ricorso per cassazione, della copia autentica del provvedimento impugnato e degli atti processuali e sostanziali sui quali il ricorso si fonda, comporta, ai sensi dell'art. 369 c.p.c., l'improcedibilità dello stesso, che è rilevabile d'ufficio e non è esclusa dalla circostanza che il controricorrente non abbia formulato apposita eccezione. Il ricorrente, tuttavia, ove il mancato tempestivo deposito sia dovuto a causa a esso non imputabile, può evitare la declaratoria di improcedibilità chiedendo, non appena l'impedimento sia cessato, la rimessione in termini, ai sensi dell'art. 153, comma 2, c.p.c. e provvedendo a depositare contestualmente l'atto non potuto depositare nei termini (Cass. civ., 17 aprile 2020, n. 7899 e n. 7897; Cass. civ., 7 gennaio 2020, n. 104).

Il rimedio restitutorio è applicabile anche ad altri poteri c.d. esterni, come il potere di riassumere o di proseguire il processo interrotto o sospeso. La rimessione in termini può, quindi, essere invocata dalla parte che, senza sua colpa, non ha potuto rispettare il termine entro cui il processo doveva essere proseguito o riassunto, sia perché non ne ha avuto tempestiva conoscenza, sia perché, pur avendone avuto conoscenza, non ha materialmente potuto esercitare il potere nel termine indicato a causa di altri eventi incolpevoli. Sarà, pertanto, applicabile: alla decadenza dal termine ex art. 297 c.p.c. entro cui le parti devono chiedere la fissazione della nuova udienza per la prosecuzione del processo che era stato sospeso; alla decadenza dal termine previsto dall'art. 305 c.p.c. entro cui il processo deve essere proseguito o riassunto; alla decadenza dal potere di riassumere il processo davanti allo stesso giudice ex art. 307 c.p.c. o davanti al primo giudice a seguito di rimessione ex art. 353 c.p.c.; alla decadenza dal termine previsto dall'art. 392 c.p.c. per la riassunzione del processo davanti al giudice di rinvio.

Applicabilità dell'istituto ai processi civili diversi da quello di cognizione

La rimessione in termini c.d. generale risulta, poi, applicabile anche ai processi civili diversi da quello di cognizione. Più precisamente si ritiene che sia sicuramente applicabile al processo del lavoro e, di conseguenza, ai procedimenti speciali a cui si applicano le norme proprie del rito del lavoro, come le controversie previdenziali ed agrarie. Già prima dell'introduzione della norma generale di rimessione in termini si era sostenuta, infatti, l'estensione per analogia dell'art. 184-bis c.p.c. al rito del lavoro: l'estensione era ammessa stante il duplice presupposto della sussistenza dell'identità di ratio, dovuta al fatto che la norma da estendere, il suo contesto ed il sistema chiamato a riceverla affondano le radici nella medesima concezione di politica del processo, e dell'assenza di incompatibilità tecnica, visto che entrambi i sistemi sono ordinati su una scansione di preclusioni (De Santis, La rimessione in termini nel processo civile, Torino, 1997, 327 ss.).

Pertanto, si ritiene che, laddove la parte dimostri che la decadenza in cui è incorsa è dovuta alla sussistenza del presupposto della causa non imputabile, sia applicabile anche: alla decadenza legata al termine entro cui il convenuto ex art. 416 c.p.c. deve costituirsi e proporre le domande riconvenzionali e le eccezioni processuali e di merito non rilevabili d'ufficio, prendere posizione circa i fatti affermati dall'attore e proporre tutte le sue difese ed indicare specificamente i mezzi di prova di cui intende avvalersi; alla decadenza relativa al termine entro cui il terzo chiamato in causa deve costituirsi ex art. 420, comma 10, c.p.c.; alla decadenza dal termine per l'integrazione degli atti introduttivi di cui all'art. 426 c.p.c.; alla decadenza dal termine per la riassunzione del processo di cui agli artt. 427 e 428 c.p.c.; alla decadenza legata al termine per la costituzione dell'appellato di cui all'art. 436 c.p.c.; alla decadenza dal termine per la riassunzione del processo sospeso per la presentazione del ricorso in sede amministrativa ex art. 443 c.p.c.

La nuova disposizione risulta, altresì, applicabile al procedimento sommario di cognizione, disciplinato agli artt. 702-bis ss. c.p.c., considerato anche il fatto che il suddetto procedimento è modellato sul processo ordinario di cognizione. Sarà perciò applicabile: alla decadenza relativa al termine entro cui il ricorso deve essere notificato al convenuto, unitamente al decreto di fissazione dell'udienza; alla decadenza dal termine entro cui il convenuto deve costituirsi depositando la comparsa di risposta, nella quale ha l'onere di sollevare le eccezioni processuali e di merito non rilevabili d'ufficio, di proporre le eventuali domande riconvenzionali e di dichiarare di voler chiamare in causa un terzo chiedendo al giudice lo spostamento dell'udienza; alla decadenza relativa al termine entro cui il terzo chiamato in causa deve costituirsi; alla decadenza dal termine per proporre appello avverso l'ordinanza ex art. 702-quater c.p.c. (Tedoldi, Il nuovo procedimento sommario di cognizione, Bologna, 2013, 249 ss.).

L'ambito di applicazione della nuova rimessione in termini risulta peraltro ancora più ampio: è possibile estenderlo anche al di fuori del processo di cognizione e, dunque, anche al processo esecutivo ed ai procedimenti speciali disciplinati rispettivamente nel libro III e IV del codice di procedura civile (Boccagna, sub art. 153, par. 22, cit., 124 ss.; Asprella – Giordano, La riforma del processo civile, dal 2005 al 2009, cit., 27; Punzi, Le riforme del processo civile e degli strumenti alternativi per la soluzione delle controversie, cit., 1215; Id., Novità legislative e ulteriori proposte di riforma in materia di processo civile, cit., 1200; Panzarola, Sulla rimessione in termini ex art. 153 c.p.c., cit., 1641).

L'estensione dell'istituto della rimessione in termini al processo esecutivo pone, però, qualche problema in più rispetto al processo ordinario di cognizione ed al processo del lavoro. Ciò è dovuto al fatto che le conseguenze che possono derivare dall'inizio dell'esecuzione sono più incisive; inoltre diventa rilevante chiedersi fino a quando è possibile ottenere di essere rimessi in termini, visto che la concessione del rimedio de quo influisce notevolmente nella sfera giuridica della controparte e non solo: occorre, infatti, tener conto anche dell'incidenza che esso avrebbe sui terzi.

Di certo, la rimessione in termini è applicabile al termine di cui all'art. 481 c.p.c. entro cui deve essere iniziata l'esecuzione: laddove, infatti, la parte dimostri di non aver potuto iniziare l'esecuzione per causa a lei non imputabile potrà evitare che il precetto perda efficacia a seguito del decorso del termine prescritto.

Altro termine da considerare è quello sancito all'art. 495 c.p.c. per la richiesta di conversione del pignoramento: la parte che intende usufruire di questa possibilità deve depositare l'istanza in cancelleria unitamente ad una somma non inferiore ad un sesto dell'importo del credito, prima che sia disposta la vendita o l'assegnazione. Se la parte dimostra di non aver potuto proporre l'istanza per causa a lei non imputabile potrà chiedere di essere rimessa in termini: occorre tuttavia tener conto del momento in cui viene formulata la richiesta. Se, infatti, è già stata disposta la vendita o l'assegnazione deve esserne garantita la stabilità della procedura e, pertanto, non sarà più possibile concedere la rimessione in termini.

La rimessione in termini sarà altresì applicabile nel caso in cui la parte non abbia potuto, sempre per causa a lei non imputabile, chiedere l'assegnazione o la vendita entro il termine di cui all'art. 497 c.p.c.: in questo modo, la parte potrà evitare che il pignoramento perda efficacia. Tuttavia, problemi possono sorgere nel caso in cui il debitore, una volta che il pignoramento ha perso efficacia in virtù del fatto che la parte non ha chiesto l'assegnazione o la vendita entro il termine prescritto, abbia alienato il bene, ritenendolo non più soggetto a pignoramento, a terzi di buona fede. La funzione del pignoramento, com'è ben noto, consiste nell'assoggettare i beni pignorati ad un vincolo di indisponibilità. Si tratta, però, di un regime non di indisponibilità assoluta, ma di inefficacia relativa: gli atti di disposizione giuridica posti in essere dal debitore non sono né nulli né inefficaci erga omnes, ma solo inefficaci in pregiudizio del creditore pignorante e dei creditori che intervengono nell'esecuzione (art. 2913 c.c.). Sono, tuttavia, fatti salvi gli effetti del possesso di buona fede per i beni mobili ex art. 1153 c.c.: ciò dovrebbe spingere a negare la possibilità per il creditore di ottenere la rimessione in termini nel caso in cui il debitore abbia già alienato il bene mobile a terzi di buona fede.

Altro limite alla possibilità di essere rimessi in termini si pone nel caso in cui sia stata dichiarata l'estinzione del processo esecutivo ex art. 630 c.p.c., dato che con la medesima ordinanza con cui dichiara l'estinzione il giudice dispone anche che sia cancellata la trascrizione del pignoramento (art. 562 c.p.c.). Una volta, quindi, venuta meno anche la trascrizione del pignoramento il debitore è libero di alienare i beni non più vincolati e, di conseguenza, deve ritenersi che se il debitore ha già alienato il bene in questione ed il terzo acquirente abbia trascritto il suo acquisto il creditore non potrà più essere rimesso in termini. In caso contrario, invece, il creditore potrà proporre reclamo avverso l'ordinanza di cui all'art. 630 c.p.c. e chiedere di essere rimesso in termini adducendo la causa non imputabile.

Altro dubbio riguarda il termine previsto dagli artt. 499 e 525 c.p.c. per l'intervento dei creditori, che per essere tempestivo deve avvenire prima che sia disposta la vendita o l'assegnazione. Il problema ovviamente riguarda i soli creditori chirografari, per i quali rileva la tempestività dell'intervento: essi, infatti, se sono tardivi possono concorrere soltanto alla distribuzione della somma ricavata che sopravanza, mentre i creditori privilegiati verranno soddisfatti sempre in ragione delle cause di prelazione. Ci si chiede, allora, se i creditori chirografari, che siano intervenuti tardivamente per la sussistenza di una causa a loro non imputabile, possano chiedere di essere rimessi in termini e partecipare alla distribuzione della somma ricavata alla stregua dei creditori tempestivi. Sulla base dell'avvenuta generalizzazione dell'istituto della rimessione in termini sembra doversi dare una risposta positiva.

Non sembrano porsi problemi, invece, in merito al termine di cui all'art. 557 c.p.c. per il deposito della nota di trascrizione del pignoramento da parte del creditore procedente si evidenzia che il mancato rispetto del predetto termine comporta l'estinzione del processo, salvo che vi siano fattispecie giustificative di una rimessione in termini (Cass. 11 marzo 2016, n. 4751; Trib. Salerno 21 novembre 2018, n. 4183).

Discorso analogo per il termine di cui all'art. 567 c.p.c. entro il quale il creditore che richiede la vendita deve allegare l'estratto del catasto, i certificati delle iscrizioni e trascrizioni relative all'immobile pignorato effettuate nei vent'anni anteriori alla trascrizione del pignoramento (Trib. Mantova, 9 ottobre 2020, n.507). Il limite alla possibilità di ottenere la rimessione in termini deriva in questo caso dall'eventuale alienazione del bene e dalla trascrizione dell'acquisto da parte del terzo, in seguito all'ordinanza con la quale il giudice ha dichiarato l'inefficacia del pignoramento e disposto la cancellazione della trascrizione del medesimo. In tal caso occorre, infatti, tutelare il terzo di buona fede, che ha acquistato un bene ormai non più soggetto al vincolo del pignoramento.

Un altro termine importante nel processo esecutivo è quello di cui all'art. 569 c.p.c., entro cui possono essere proposte le offerte d'acquisto, una volta che il giudice ha disposto la vendita. Ci si chiede se l'offerente che non ha potuto proporre l'offerta nel termine indicato per una causa a lui non imputabile possa essere rimesso in termini e partecipare alla gara. La situazione desta perplessità, in particolare nel caso in cui si sia già conclusa la gara tra gli offerenti oppure il giudice abbia disposto la vendita a favore del maggior offerente. Anche in questo caso sembra doversi negare la possibilità all'offerente di essere rimesso in termini se già è stata disposta la vendita, la cui stabilità va salvaguardata. Ulteriori offerte di acquisto possono, poi, essere fatte entro il termine di cui all'art. 584, comma 3, c.p.c. Si ritiene che anche in questo caso l'offerente potrà chiedere di essere rimesso in termini se non ha potuto rispettare il termine per una causa a lui non imputabile. Tuttavia, il rimedio non può essere concesso se l'aggiudicazione è divenuta definitiva, come si è già detto nel caso in cui sia già stata disposta la vendita.

In evidenza

Un altro termine da prendere in considerazione è quello previsto dall'art. 585 entro cui l'aggiudicatario deve versare il prezzo: infatti, in mancanza il giudice dichiarerà la decadenza dell'aggiudicatario e provvederà a disporre un nuovo incanto ex art. 587 c.p.c. In riferimento a tale termine non sembrano esserci dubbi circa l'applicabilità della rimessione in termini: infatti, già prima della riforma del 2009 era stata affermata l'applicabilità dell'istituto al termine de quo (Trib. Terni 19 maggio 2005, in Giur. merito, 2005, 2123).

Circa il termine di venti giorni previsto dall'art. 617 c.p.c. per la proposizione dell'opposizione agli atti esecutivi la Cassazione ha ritenuto ammissibile, nel caso eccezionale di impossibilità incolpevole di azionare tempestivamente i rimedi endoprocessuali, una rimessione in termini per proporre il rimedio tipico se il processo esecutivo ancora pende e purché ne ricorrano tutti i presupposti e, se il processo esecutivo non è più pendente, un'azione autonoma (Cass. civ., 22 aprile 2014, n. 7708).

Considerata l'avvenuta generalizzazione della rimessione in termini sembra possibile ammetterla anche in caso di decadenza dal termine per l'introduzione del giudizio di merito ex artt. 616 e 618 c.p.c. Tuttavia, se è stata disposta la sospensione del processo e l'ordinanza non viene reclamata o viene confermata in sede di reclamo ed il giudizio di merito non è stato introdotto, il giudice dell'esecuzione, a norma dell'art. 624, comma 3°, c.p.c., dichiara anche d'ufficio l'estinzione del processo ed ordina la cancellazione della trascrizione del pignoramento. Ci si chiede allora se sia possibile concedere la rimessione in termini una volta che sia stata già dichiarata l'estinzione del processo. Come già sottolineato in precedenza, avverso l'ordinanza con cui il giudice dichiara l'estinzione ex art. 630 c.p.c. è possibile proporre reclamo, sicché deve ritenersi che la parte possa proporre reclamo e chiedere la rimessione in termini. Lo stesso dovrebbe valere nel caso in cui la parte non abbia potuto rispettare il termine entro il quale il processo doveva essere proseguito o riassunto: infatti, se le parti non lo proseguono o non lo riassumono il processo esecutivo si estingue ex art. 630 c.p.c.

Il rimedio restitutorio va concesso anche in caso di decadenza dal termine per proporre opposizione agli atti esecutivi di cui all'art. 617 c.p.c. In caso di decadenza, invece, dal termine per proporre opposizione di terzo all'esecuzione di cui all'art. 619 c.p.c., occorre verificare se è già stata disposta la vendita: in tal caso, infatti, come previsto dall'art. 620 c.p.c., il terzo potrà far valere i suoi diritti solo sulla somma ricavata, per cui non potrà essere rimesso in termini.

La rimessione in termini è, alla luce dell'avvenuta generalizzazione, applicabile anche ai procedimenti speciali di cui al libro IV del codice di procedura civile. Pertanto, la parte potrà invocare il rimedio restitutorio in caso di decadenza dal termine di cui all'art. 644 c.p.c., entro cui occorre notificare il decreto ingiuntivo.

In evidenza

La giurisprudenza ne ha affermato l'applicabilità ed ha concesso la rimessione in termini al creditore per la rinotifica del decreto ingiuntivo, sostenendo che «il nuovo secondo comma dell'art. 153 prevede ora un principio generale di rimessione in termini per la parte che sia incorsa in decadenze senza colpa e che lo spostamento del contenuto della disciplina nell'art. 153, cioè nel capo del codice dedicato in via generale ai termini processuali, non possa che avere il significato di applicazione generalizzata dell'istituto della rimessione in termini» (Trib. Asti, 23 aprile 2019; Trib. Torino 31 gennaio 2014; Trib. Varese, 4 ottobre 2012; Trib. Torino, 18 giugno 2012; Trib. Torino 4 marzo 2011, in www.altalex.com; Trib. Mondovì 19 febbraio 2010).

Per quanto concerne, infine, i procedimenti cautelari e possessori si ribadisce quanto già osservato per il processo esecutivo, per cui la rimessione in termini sarà applicabile anche alle decadenze relative al procedimento cautelare uniforme, ovvero: alla decadenza dal termine, di cui all'art. 669-sexies c.p.c., per la notificazione del ricorso e del decreto con cui è stata rilasciata la misura cautelare (Trib. Napoli 5 dicembre 2019); alla decadenza dal termine, di cui all'art. 669-octies c.p.c., entro cui la parte deve iniziare il giudizio di merito, per evitare che il provvedimento cautelare conservativo perda efficacia (Turroni, Inefficacia dei provvedimenti cautelari, in www.ilprocessocivile.it, 2017); alla decadenza dal termine per proporre reclamo ex art. 669-terdecies c.p.c.; alla decadenza dal termine ex art. 703 c.p.c. entro cui le parti devono chiedere di proseguire il giudizio di merito.

Il rapporto con le singole fattispecie di rimessione in termini

Nel nostro ordinamento vi sono diverse norme speciali che già prevedevano ipotesi di rimessione in termini, basti pensare all'art. 650 che disciplina l'opposizione tardiva, all'art. 668 relativo all'opposizione dopo la convalida, all'art. 334 in tema di impugnazione incidentale tardiva. Con l'introduzione della norma generale che disciplina l'istituto in esame, ci si è interrogati in merito al rapporto tra la previsione generale di rimessione in termini ex art. 153, comma 2, c.p.c. e le norme specifiche di rimessione in termini, ovvero se quest'ultime devono essere considerare come tacitamente abrogate od assorbite dalla disposizione generale o se, invece, continuano ad esplicare effetti.

Al riguardo la dottrina appare divisa.

IL RAPPORTO TRA L'ART. 153 E LE SINGOLE NORME DI RIMESSIONE IN TERMINI

Secondo alcuni, le norme specifiche di rimessione in termini, con particolare riguardo alle ipotesi disciplinate agli artt. 650 e 668 c.p.c., risulterebbero assorbite dalla nuova norma generale, anche perché i presupposti previsti nelle disposizioni che disciplinano le singole fattispecie di rimessione in termini non sembrano estendersi così tanto come la nozione di decadenza per causa non imputabile prevista, invece, nella disposizione generale, di cui all'art. 153, comma 2, c.p.c.

De Santis, La rimessione in termini, Torino, 1997, 267.

Secondo altri, invece, l'introduzione di una disposizione generale di rimessione in termini non è destinata a far venir meno le singole ipotesi di rimessione in termini espressamente previste dalla legge. Si tratta, dopotutto, di norme speciali che, in quanto tali, prevalgono sulla norma generale posteriore, in virtù del brocardo latino lex posterior generalis non derogat priori speciali.

Boccagna, sub art. 153, par. 23, in Codice di procedura civile commentato. La riforma del 2009, a cura di Consolo, Milano, 2009, 125.

Il rapporto tra la disposizione generale che disciplina la rimessione in termini e le singole fattispecie di rimessione in termini è, dunque, un rapporto di genere a specie. La nuova norma ha carattere generale ma residuale, nel senso che sarà applicabile a tutte le fattispecie di decadenza per le quali il legislatore non ha previsto un rimedio restitutorio speciale. Nei casi in cui, invece, vi è sovrapposizione, in quanto vi è un'apposita norma che disciplina una determinata ipotesi di rimessione in termini, la regola generale cede il passo alla normativa speciale. Ciò vale soprattutto con riferimento al procedimento: infatti, la norma speciale disciplina espressamente il procedimento di rimessione necessario per ottenere la concessione del rimedio senza che si debba ricorrere al procedimento delineato dalla norma generale ex art. 153 c.p.c..

Il procedimento per ottenere la rimessione in termini

L'art. 153 c.p.c. rinvia per il procedimento all'art. 294, commi 2 e 3, c.p.c., così come nell'ormai abrogato art. 184-bis c.p.c. Tale rinvio non sembrava nel complesso porre problemi, soprattutto in considerazione dell'ambito applicativo che si era soliti riconoscere alla rimessione in termini ex art. 184-bis c.p.c. Con la generalizzazione dell'istituto avvenuta nel 2009, invece, sarebbe stato auspicabile un intervento del legislatore che però non si è avuto. Il procedimento è quindi rimasto invariato: la parte che intende ottenere la rimessione in termini deve chiedere di essere ammessa al compimento dell'atto. Essa ha l'onere di dimostrare che la decadenza non è a lei imputabile, per cui dovrà allegare un fatto, inevitabile con un comportamento diligente, che le ha impedito l'esercizio tempestivo del potere. Tuttavia, la mancata allegazione del fatto non imputabile, che ha causato la decadenza, può essere posta a carico della parte solo se il fatto si è verificato nella sua sfera di controllo o in quella del suo rappresentante processuale o del suo difensore: infatti, in tal caso la decadenza è imputata alla parte a titolo di autoresponsabilità colposa. Ove, invece, l'impedimento si sia verificato al di fuori di tale sfera, alla parte sarà sufficiente dimostrare di essersi comportata diligentemente per ottenere la rimessione in termini. A ritenere diversamente, imponendo alla parte l'ulteriore onere di individuare l'impedimento, si finirebbe con l'imputare ad essa la causa ignota della decadenza a titolo di autoresponsabilità oggettiva (Caponi, La rimessione in termini nel processo civile, cit., 358 ss.). Peraltro, la qualificazione dei fatti allegati come causa non imputabile, operata dalla parte, non è vincolante per il giudice, il quale può anche ritenere che l'evento addotto dalla parte non sia in rapporto causale con il verificarsi della decadenza. In questo caso egli non è tenuto a motivare sotto il profilo dell'imputabilità o meno del fatto alla parte, essendo esclusa in radice la concedibilità del rimedio (Boccagna, in Codice di procedura civile commentato. La riforma del 2009, curato da Consolo e De Cristofaro, Milano, 2009, sub art. 153, par. 45, 133).

Sulla configurabilità della causa non imputabile la Corte ha sottolineato in più occasioni che deve trattarsi di un fattore estraneo, a cui la parte non deve aver contribuito a darvi causa, che abbia impedito oggettivamente il compimento dell'attività prevista.

In evidenza

L'istituto della rimessione in termini, applicabile al termine perentorio per proporre ricorso per cassazione anche con riguardo a sentenze rese dal Consiglio nazionale forense in esito a un procedimento disciplinare, presuppone la sussistenza in concreto di una causa non imputabile, riferibile ad un evento che presenti il carattere dell'assolutezza, e non già un'impossibilità relativa, né tantomeno una mera difficoltà (Cass. civ., sez. un., 4 dicembre 2020, n. 27773; Cass. civ., 3 dicembre 2020, n. 27726).

La rimessione in termini è possibile solo a condizione che la tardività della impugnazione sia dipesa da un fatto oggettivo ed incolpevole del quale la parte deve offrire puntuale e rigorosa dimostrazione mentre nella fattispecie la parte ricorrente ha solo dichiarato di aver avuto conoscenza del provvedimento tardivamente. A tal riguardo non appare in effetti integrare l'errore incolpevole e giustificabile la circostanza meramente allegata del difetto di comunicazione tra l'assistito ed il suo avvocato (Cass. civ., 27 maggio 2020, n. 9945).

Per gli stessi motivi la malattia del procuratore non rileva di per sè come legittimo impedimento (Cass. civ., 13 gennaio 2020, n. 381).

Devono inoltre ritenersi esclusi dall'ambito di applicabilità dell'istituto della rimessione in termini i fatti che siano ascrivibili alla infedeltà del difensore nei confronti della parte sostanziale. In particolare, la rimessione in termini, disciplinata dall'art. 153 c.p.c., non può essere riferita a un evento esterno al processo, quale la circostanza dell'infedeltà del legale che non abbia dato esecuzione al mandato difensivo, atteso che tale evento attiene esclusivamente alla patologia del rapporto intercorrente tra la parte sostanziale e il professionista incaricato ai sensi dell'art. 83 c.p.c., che può assumere rilevanza soltanto ai fini di un'azione di responsabilità promossa contro quest'ultimo, e non già, quindi, spiegare effetti restitutori al fine del compimento di attività precluse alla parte (Cass civ., 13 dicembre 2019, n. 32779).

In caso di tardiva proposizione dell'impugnazione, la parte non può invocare la rimessione in termini ex art. 153 c.p.c., quando il ritardo sia dovuto a fatto imputabile al difensore, costituendo la negligenza di quest'ultimo un evento esterno al processo, che attiene alla patologia del rapporto con il professionista, rilevante solo ai fini dell'azione di responsabilità nei confronti del medesimo, senza che ciò comporti alcuna violazione dell'art. 6 CEDU, poiché l'inammissibilità dell'impugnazione, che consegue all'inosservanza del termine, non integra una sanzione sproporzionata rispetto alla finalità di salvaguardare elementari esigenze di certezza giuridica (CEDU 15 settembre 2016, Trevisanato c. Italia) (Cass. civ., 10 febbraio 2021, n. 3340).

Il provvedimento di rimessione in termini presuppone una tempestiva istanza della parte che assuma di essere incorsa nella decadenza da un'attività processuale per causa ad essa non imputabile (Cass. 30 dicembre 2019, n. 34734; Cass. 13 dicembre 2016, n. 25489; Cass. 16 ottobre 2015, n. 20992).

La rimessione in termini non può dunque essere pronunciata d'ufficio, ma esige l'istanza di parte (Cass. 11 marzo 2018, n. 6963).

Tale principio soffre una rilevante nel caso del c.d. overruling, i.e. nelle ipotesi di mutamento della giurisprudenza, in cui la rimessione può essere disposta d'ufficio dal giudice (Cass. 17 giugno 2010, n. 14627; Cass. 2 luglio 2010, n. 15811, secondo cui non è necessaria l'istanza di parte, laddove la causa non imputabile sia conosciuta dalla Corte stessa, come nel caso del mutamento di un orientamento costante della giurisprudenza della Corte di cassazione).

Nei casi in cui si verifichi un mutamento, ad opera della Corte di cassazione, di un'interpretazione consolidata a proposito delle norme regolatrici del processo, la parte che si è conformata alla precedente giurisprudenza della stessa Corte, successivamente travolta dall'overruling, ha tenuto un comportamento non imputabile a sua colpa e, per tale ragione, è da escludere la rilevanza preclusiva dell'errore in cui è incorsa. In tal caso la parte sarà rimessa in termini, anche nel caso in cui non vi sia un'apposita istanza (Trib. Torino 11 ottobre 2010, in Giur. merito, 2010, 12, 3035; Cass. 21 dicembre 2012, n. 23836, in Giust. civ. Mass. 2012, 12, 1445).

In evidenza

L'intervento delle Sezioni Unite che ha portato all'individuazione dell'opposto come parte onerata del tentativo di mediazione nei giudizi di opposizione a decreto ingiuntivo afferenti le materie di cui al dell'art. 5, comma 1-bis, d.lgs. 28/2010 (Cass. civ., sez. un., n. 19596/2020) integra gli estremi dell'overruling giurisprudenziale, come tale legittimante la rimessione in termini dell'opposto che, prima dell'intervento della predetta sentenza, non abbia dato corso al tentativo di mediazione confidando nel fatto che l'onere gravasse sull'opponente (Trib. Salerno, sez. I, 18 novembre 2020).

La pronuncia delle Sezioni Unite che componga il contrasto sull'interpretazione di una norma processuale non configura un'ipotesi di «overruling» avente il carattere di imprevedibilità e, di conseguenza, non costituisce presupposto per la rimessione in termini della parte che sia incorsa nella preclusione o nella decadenza (Cass. civ., 29 ottobre 2020, n. 23834).

La rimessione in termini per causa non imputabile, in entrambe le formulazioni che si sono succedute (artt. 184-bis e 153 c.p.c.), ossia per errore cagionato da fatto impeditivo estraneo alla volontà della parte, che presenti i caratteri dell'assolutezza e non della mera difficoltà e si ponga in rapporto causale determinante con il verificarsi della decadenza, non è invocabile in caso di errori di diritto nell'interpretazione della legge processuale, pur se determinati da difficoltà interpretative di norme nuove o di complessa decifrazione, in quanto imputabili a scelte difensive rivelatesi sbagliate. Alla nozione di “causa non imputabile” è estraneo l'errore derivante dalla scelta processuale della parte, seppure determinata da una difficile interpretazione di norme processuali nuove o di complessa decifrazione, risolvendosi in un errore di diritto che, di regola, non può giustificare la rimessione in termini per evitare o superare la decadenza da un termine processuale e per giustificare impugnazioni tardive (CALVETTI, Errore interpretativo, rimessione in termini e overrulling, in Diritto & Giustizia, fasc. 29, 2019). Si configura overruling solo quando venga smentito un consolidato orientamento di legittimità, mentre l'istituto non è evocabile rispetto a pronunce dei giudici di merito, non suscettibili di assurgere al rango di diritto vivente. Il prospective overruling è invocabile solo qualora il sopravvenuto ed imprevedibile indirizzo giurisprudenziale di legittimità risulti penalizzante rispetto a poteri e facoltà già esercitati o esercitabili dalla parte. È esclusa la scusabilità dell'errore sul diritto processuale (e dunque la rimessione in termini) quando sia derivato da un'interpretazione autolimitativa della disposizione ad opera della parte, non suffragata dalla giurisprudenza di legittimità (Cass civ., sez. un., 12 febbraio 2019, n. 4135).

La rimessione in termini, sia nella norma dettata dall'art. 184-bis c.p.c. che in quella di più ampia portata contenuta nell'art. 153, comma 2, c.p.c., presuppone che la parte incorsa nella decadenza per causa ad essa non imputabile si attivi con tempestività e, cioè, in un termine ragionevolmente contenuto e rispettoso del principio della durata ragionevole del processo (Cass. 11 novembre 2020, n. 25289; Cass., sez. un., 18 dicembre 2018, n. 32725).

Sennonché, la legge non stabilisce quale sia il dies a quo entro il quale chiedere la rimessione in termini: è allora necessario individuare un termine perentorio, decorrente dal giorno in cui è cessata la causa non imputabile, che ha impedito l'esercizio del potere, entro il quale deve essere richiesta la rimessione in termini, così come accade nelle legislazioni straniere (ad esempio l'ordinamento tedesco prevede che la rimessione in termini deve essere richiesta entro due settimane dal giorno in cui l'impedimento è cessato). Sul punto la dottrina resta divisa:

IL TERMINE PER L'ISTANZA: ORIENTAMENTI A CONFRONTO

Il termine per la richiesta di rimessione in termini potrebbe essere enucleato dall'art. 157, comma 2, c.p.c., nel senso che, come la nullità deve essere eccepita nella prima difesa successiva alla sua verificazione, così la rimessione deve essere richiesta nel primo atto successivo a quello rispetto al quale si chiede la rimessione. Se però il processo si è concluso, si potrebbe ritenere che l'istanza non possa essere proposta quando dal fatto che ha impedito il rispetto del termine sia decorso un tempo maggiore di quello concesso alla parte per impugnare.

Verde, Diritto processuale civile. Vol. 1: Parte generale, Bologna, 2010, 261.

Un'altra parte della dottrina si pone, invece, in posizione diametralmente opposta: essa, infatti, sostiene che non è possibile, almeno nei casi in cui l'esercizio del potere perduto comporti l'apertura di una nuova fase del processo, applicare l'art. 157, comma 2°, c.p.c.

Rascio, La non contestazione come principio e la rimessione nel termine per impugnare: due innesti nel processo, benvenuti quanto scarni e perciò da rinfoltire, in Corr. giur., 2010, 1252.

Non essendo possibile desumere tale termine in via analogica, a causa del principio di tassatività dei termini perentori dettato dall'art. 152 c.p.c., questa può essere proposta dalla parte fino a quando è aperta la fase processuale nel corso della quale l'incolpevole decadenza si è maturata. Tuttavia, l'istanza sarà possibile in concreto a condizione che la causa non imputabile, che ha impedito l'esercizio dell'attività processuale nel termine perentorio, sia cessata prima di tale momento; in caso contrario dovrà essere articolata con gli atti introduttivi del giudizio di gravame, ovvero, se l'impedimento è cessato successivamente, prima che il gravame sia rimesso in decisione.

De Santis, La rimessione in termini, in Il processo civile competitivo, a cura di Didone, Torino, 2010, 282.

E' possibile applicare, in via analogica, la disciplina della decorrenza dei termini per proporre la revocazione straordinaria, la quale prevede un termine di trenta giorni decorrente dalla cessazione dell'impedimento.

Caponi, Rimessione in termini nel processo civile, in Digesto it., disc. priv., sez. civ., aggiornamento, Torino, 2009, 469; Id., Rimessione in termini: estensione ai poteri di impugnazione, in Foro it., 2009, I, 283.

Per altre, la richiesta di rimessione in termini debba essere proposta entro un termine di ampiezza pari a quello originariamente previsto per il compimento dell'atto, decorrente dalla cessazione dell'impedimento incolpevole. Tale soluzione soddisfa l'esigenza di evitare la concedibilità del rimedio sine die, anche se non può tacersi che essa finisca nuovamente con il creare una decadenza non prevista dalla legge.

Briguglio, Le novità sul processo ordinario di cognizione nell'ultima, ennesima, riforma in materia di giustizia civile, in www.judicium.it, §6 e in Giust. civ., 2009, II, 268.

La causa non imputabile, che costituisce il presupposto per chiedere ed ottenere la rimessione in termini, non impedisce il verificarsi della decadenza, per cui il suo riconoscimento non permette di ritenere legittimo l'atto compiuto tardivamente; essa si pone piuttosto come fatto costitutivo del potere-dovere del giudice di concedere la rimessione in termini e solo una volta ottenuta la rimessione in termini la parte può compiere l'atto da cui era incolpevolmente decaduta. La decadenza estingue il potere processuale per cui la parte non può compiere l'atto una volta che ne è decaduta, l'unico potere che sussiste è quello di chiedere la rimessione in termini, che costituisce al tempo stesso un onere per la parte. L'esercizio del potere precluso non può, dunque, precedere l'istanza di rimessione in termini. Tutto ciò, ovviamente non è senza conseguenze, dato che la parte, prima di poter compiere l'atto, dovrà attendere di ottenere la rimessione in termini e ciò potrebbe incidere negativamente sul profilo dell'effettività della tutela, oltre che su quello della ragionevole durata del processo. Tuttavia, si ritiene possibile mitigare, seppur in parte, tale rigidità, ammettendo, per ragioni di economia processuale, che, trattandosi di atti che si rivolgono all'ufficio giudiziario, la richiesta di rimessione in termini sia formulata contestualmente all'atto, che dovrà allora ritenersi compiuto per l'eventualità che sopravvenga la concessione del beneficio. In questo modo è possibile risolvere alcuni problemi: l'ordinanza di diniego o di accoglimento dell'istanza sarebbe, infatti, sempre assorbita nella sentenza che decide sull'impugnazione e, per quanto concerne il termine per la presentazione della richiesta di rimessione, si può ritenere che quest'ultima avvenga, anziché in un termine creato ex novo, in assenza di una espressa previsione normativa, nel rispetto del termine originariamente previsto, con decorrenza differita al venir meno dell'impedimento. In questo modo non si introduce un termine per la rimessione in termini, ma si applica all'impugnazione il termine suo proprio.

Certamente successiva al compimento dell'atto sarà la rimessione in termini per quelle ipotesi in cui la parte ha compiuto l'atto tardivamente a causa di ignoranza o errore non imputabile sulla norma processuale e si rende conto di essere incorsa in decadenza solo successivamente (Boccagna, sub. art. 153, par. 40, cit., 132). In questi casi, la causa non imputabile che ha impedito alla parte di compiere l'atto, facendola cadere in decadenza, è la stessa che le ha impedito di chiedere la rimessione in termini anteriormente, o almeno contestualmente, al compimento dell'atto. Pertanto, appare ragionevole ed opportuno ritenere che, una volta riconosciuta la non imputabilità dell'impedimento, il giudice potrà concedere il rimedio della rimessione in termini, convalidando ex post l'atto compiuto tardivamente. Ciò risponde all'esigenza di effettività della tutela ed è coerente con il principio della ragionevole durata del processo. Mentre nel caso in cui la decadenza riguardi il compimento di atti che non si rivolgono all'ufficio giudiziario, come ad es. la notificazione del decreto ingiuntivo, non sembra ipotizzabile una richiesta del rimedio contestuale al compimento dell'atto; in tal caso per chiedere la rimessione in termini sarà necessario instaurare un procedimento ad hoc (Trib. Mondovì 19 febbraio 2010).

La competenza a decidere sull'istanza di rimessione in termini spetta al giudice innanzi al quale pende il processo se si tratta di decadenza da un potere interno, o al giudice dell'impugnazione in caso di decadenza da un poter esterno (Verde, Diritto processuale civile. Vol. 1: Parte generale, cit., 2010, 260). La forma dell'istanza è libera, può essere fatta anche oralmente in udienza e contenuta nel verbale, oppure può essere inserita nell'atto che la parte ha intenzione di compiere una volta ottenuta la rimessione in termini. Ciò che rileva è l'indicazione dei motivi che giustificano la richiesta, occorrerà allegare tutti i fatti rilevanti per la concessione della rimessione in termini, le circostanze che hanno avuto un ruolo nel causare la decadenza e da cui si ricava l'incolpevolezza di tale decadenza, le eventuali prove precostituite che ne offrono la dimostrazione e, se occorre, i testimoni.

La normativa è scarna anche per quel che riguarda l'istruzione probatoria: essa, infatti, si limita a prevedere che il giudice, se ritiene verosimili i fatti allegati, ammette, quando occorre, la prova dell'impedimento. Ciò che va, tuttavia, precisato è che, attenendo la disciplina delle preclusioni alla disciplina pubblicistica del processo, la mancata contestazione della controparte non vale di per sé a rendere superflua la prova dell'impedimento, pur potendo operare, sul piano probatorio, come fatto secondario di origine processuale da cui desumere l'esistenza dello stesso.

Il punto critico del procedimento di rimessione in termini è rappresentato dalla valutazione preventiva di verosimiglianza dei fatti allegati dalla parte che chiede la rimessione in termini. Il giudizio di verosimiglianza viene svolto nel momento, cronologicamente anteriore, della fissazione del thema probandum, nel momento, cioè, in cui si definisce l'ambito dei fatti che devono essere provati, senza influire sul provvedimento finale se non nel limitato senso per cui un fatto ritenuto inverosimile dal giudice non sarà ammesso alla prova e, quindi, non sarà preso in considerazione ai fini della decisione. Il giudice si affida, dunque, ad un apprezzamento che, pur non configurandosi come astrattamente probabilistico, si basa su criteri di ordine generale. L'apprezzamento della verosimiglianza dei fatti allegati dalla parte istante è uno strumento che il legislatore mette a disposizione del giudice per consentirgli «di stabilire in anticipo se il contenuto dell'allegazione meriti un certo credito e, quindi, se il mezzo di prova, in sé ammissibile e rilevante, possa essere ammesso senza il rischio che possa risolversi in un risultato negativo e quindi in un inutile (e magari intenzionale) prolungamento del processo» (Calamandrei, Verità e verosimiglianza nel processo civile (1955), in Studi sul processo civile, VI, Padova, 1957, 121).

Si nota come le esigenze di concentrazione del giudizio, il principio di economia processuale ed i doveri di lealtà e probità emergono quali valori fondamentali permeanti il processo civile: essi, infatti, nelle ipotesi oggetto degli articoli in esame si traducono in una disciplina finalizzata ad evitare che un istituto di garanzia ed effettività del diritto alla difesa come la rimessione in termini sia utilizzato dalle parti per scopi contrastanti con la ratio di tale istituto. L'ordinamento processuale non può tollerare che le parti chiedano la rimessione in termini non già per rimediare a decadenze incolpevoli, quanto per portare alle lunghe il procedimento costringendo il giudice ad un'inutile attività istruttoria relativa a fatti che l'esperienza consente di negare con umana certezza. Il giudizio di verosimiglianza assurge, dunque, ad elemento di garanzia del corretto e leale utilizzo, da parte dei litiganti, del ricorso alla rimessione in termini. Attraverso il riferimento alle regole di esperienza, il legislatore ha inteso, da un lato creare uno strumento di garanzia del corretto e leale svolgimento del processo, dall'altro, introdurre un criterio elastico che consenta al giudice di operare una valutazione che si avvicini il più possibile alla realtà concreta e che non si limiti a prendere in considerazione le probabilità astratte o statistiche di un dato accadimento, ma ricomprenda tutte le circostanze utili ad una corretta ricostruzione del fatto specifico. Il giudizio di verosimiglianza si configura, pertanto, come un apprezzamento interno, ampiamente discrezionale e, quindi, estremamente delicato, del giudice (GASPERINI, Profili costituzionali e procedimentali della rimessione in termini di cui all'art. 184-bis c.p.c., in Giur. mer., 1995, 634 ss.).

Tale prova, inoltre, non può essere data seguendo il procedimento probatorio ordinario, disciplinato agli artt. 191 ss. c.p.c., con la tipicità dei mezzi di prova, con la predeterminazione legale delle forme e dei termini, altrimenti diverrebbe concreto il rischio che la rimessione in termini si trasformi in uno strumento per far sorgere all'interno del processo lunghi procedimenti incidentali, destinati a dilatare i tempi per giungere alla decisione finale sulla controversia. Per questo il legislatore sarebbe dovuto intervenire sul procedimento di accertamento del presupposto della rimessione in termini, prevedendo un episodio di cognizione sommaria, in cui il contraddittorio fra le parti sarebbe sempre realizzato in forma anticipata rispetto all'emanazione del provvedimento di rimessione in termini, ma secondo modalità rimesse alla discrezionalità del giudice.

Il giudice decide sulla rimessione in termini con ordinanza. Circa il contenuto di quest'ultima, si può ritenere che essa contenga l'ordine di rinnovazione dell'atto o degli atti rispetto ai quali si è maturata la decadenza per causa non imputabile. Tale ordinanza, nel momento in cui concede alla parte incorsa nella decadenza di esercitare il potere da cui era decaduta, allo stesso tempo concede alla controparte di esercitare tutte le attività, di allegazione ed istruttorie, che si rendano opportune alla luce dei nuovi elementi introdotti nel giudizio a seguito della concessione della rimessione in termini. L'ordinanza con cui il giudice decide sulla richiesta di rimessione in termini, ex art. 177 c.p.c., è modificabile e revocabile in ogni tempo dal giudice che l'ha emessa e non è soggetta a mezzi di impugnazione o di reclamo. Se la richiesta di rimessione in termini ha ad oggetto un potere interno al grado di giudizio si tratta di una decisione su una questione pregiudiziale di rito non idonea a definire il giudizio e, pertanto, deve essere emanata con la forma dell'ordinanza. Ma se, invece, oggetto della rimessione in termini sono poteri esterni al singolo grado di giudizio, quali il potere di proseguire o riassumere il processo o il potere di impugnare, la decisione è su una questione pregiudiziale di rito idonea a definire il giudizio, per cui dovrebbe essere resa con sentenza. Per ovviare alla lacuna normativa si ritiene che nei casi in cui la decisione abbia ad oggetto l'esistenza di poteri esterni l'ordinanza dovrà sempre essere accompagnata dalla sentenza dichiarativa dell'esistenza o inesistenza del potere, finendo di fatto col confluire in tale sentenza. Circa la possibilità di impugnare il provvedimento che nega o concede la rimessione in termini occorre distinguere i casi in cui la richiesta di rimessione in termini costituisce un episodio o una fase incidentale nell'ambito del processo principale, in tal caso trattandosi di un provvedimento interno al processo, sarà recepita nel provvedimento finale e, pertanto, risulterà sindacabile con l'impugnazione avverso il suddetto provvedimento; se, invece, è oggetto di un autonomo procedimento la situazione è differente. In questo caso, non essendo il provvedimento, con cui il giudice accoglie o respinge la richiesta di rimessione in termini, recepito dalla sentenza che chiude il processo principale, o si attribuisce al detto provvedimento efficacia preclusiva, vincolante nei giudizi successivi, ritenendolo, quindi, assoggettabile al ricorso per cassazione ex art. 111 Cost., oppure si ritiene che sia sempre possibile per la parte presentare una nuova istanza in caso di rigetto, così come, in caso di accoglimento, la controparte potrà sempre contestare, nel successivo giudizio di impugnazione, l'esistenza dei presupposti necessari per la concessione del rimedio, domandando la declaratoria di inammissibilità dell'impugnazione.

Rilevante è, infine, la questione del termine di sbarramento, oltre il quale non è più possibile chiedere di essere rimessi in termini. L'istituto in questione finisce, infatti, per incidere sulla certezza del diritto e del giudicato, pregiudicando anche la tutela della controparte, la quale non può più fare affidamento neanche sul passaggio in giudicato della sentenza, dato che la concessione di tale rimedio consente di rimetterla in discussione. Tuttavia, si ritiene che non si possa invocare l'esigenza di salvaguardare il giudicato, quando il passaggio in cosa giudicata formale sia avvenuto in spregio del principio del contraddittorio e, quindi, in modo incostituzionale. Pertanto, quando l'omissione che ha determinato l'immutabilità della pronuncia è dovuta ad un impedimento non imputabile non vi può essere salvaguardia dell'immutabilità del provvedimento giurisdizionale che resista all'esigenza di tutelare il diritto di difesa della parte, incolpevolmente decaduta dal potere di impugnazione. L'effetto destabilizzante non riguarda però solo la questione del passaggio in giudicato della sentenza: basti pensare ai casi di estinzione del processo per inattività delle parti, le quali non hanno adempiuto nel termine ad un onere o non abbiano compiuto in tempo un'attività prescritta dalla legge o dal giudice. Tuttavia, in assenza di un'espressa previsione normativa, la quale non può certamente essere colmata in via interpretativa, si è sostenuto che se l'ordinamento sancisce la prevalenza del diritto di difesa sul valore della certezza dei rapporti, non è detto che occorra per forza limitare questa prevalenza nel tempo; negare da un certo momento in poi la concessione della rimessione in termini anche alla parte che non è ancora nelle condizioni di esercitare il potere incolpevolmente perduto non significa altro che spostare semplicemente in avanti il punto di equilibrio tra i due valori in conflitto. In questo modo non si fa altro che ritardare la formazione del giudicato, immune alla rimessione in termini, ristabilendo la prevalenza del valore della certezza dei rapporti sul diritto di difesa. Il grado di certezza del giudicato si accresce nel tempo: infatti, la possibilità che si concretizzino cause di rimessione diviene sempre più remota, data anche l'esistenza di altri meccanismi di stabilizzazione dei rapporti, che operano sul piano sostanziale (Rascio, La non contestazione come principio e la rimessione nel termine per impugnare: due innesti nel processo, benvenuti quanto scarni e perciò da rinfoltire, cit., 1250). L'unico modo per garantire la certezza del diritto e la stabilità del giudicato appare, quindi, quello di circoscrivere in maniera precisa la nozione di causa non imputabile (Consolo, La legge di riforma 18 giugno 2009, n. 69: altri profili significativi a prima letture, in Corr. giur., 2009, 879; Id., Spiegazioni di diritto processuale civile. Il processo di primo grado e le impugnazioni delle sentenze, Padova, 2009, 79-80).

L'emergenza coronavirus

Un piccolo accenno merita l'utilizzo generalizzato dell'istituto della rimessione in termini durante la situazione di emergenza creata dal Covid-19. Con l'avvento della pandemia, infatti, nonostante le disposizioni normative introdotte per fronteggiare l'emergenza (si pensi alla sospensione ed alla proroga dei termini nonché ai rinvii delle udienze e all'incentivazione del processo telematico), l'intero sistema giustizia ha dovuto far largo ricorso all'istituto della rimessione in termini.

Per quel che concerne in particolare il processo civile, la norma sulla rimessione in termini (art. 153, comma 2, c.p.c.) è stata richiamata per permettere il compimento di quelle attività processuali che non sono state tempestivamente compiute a causa della Pandemia, vera e propria «causa non imputabile» alle parti (Trib. Mantova, 9 ottobre 2020,n. 507, secondo cui nel caso in cui il deposito della documentazione sia in concreto impossibile per effetto della chiusura al pubblico della Conservatoria dei RR. II., stante la non concedibilità di una ulteriore proroga impedita dall'art. 567 c.p.c., spetta al creditore procedente fare istanza al Giudice dell'esecuzione di rimessione in termini ai sensi dell'art. 153 c.p.c.).

Non è stata prevista, infatti, una disposizione generale, che abbia espressamente sancito la rimessione in termini ai sensi dell'art. 153 c.p.c. per le decadenze eventualmente maturate. La valutazione della «causa non imputabile» in base a questa disposizione è dunque rimessa all'interprete.

Il ricorso alla rimessione in termini è d'obbligo, quindi, per tutti quei procedimenti non soggetti alla sospensione dei termini, ovvero le c.d. cause indifferibili, laddove l'illegittima prosecuzione delle attività processuali, ivi compreso il decorso dei termini, abbiano fatto incorrere la parte in una decadenza incolpevole (Cossignani, Le controversie sottratte alla sospensione dei termini e al rinvio delle udienze, in Giur. it., fasc. 8-9, 2020, 2053 ss.), nonché per quei termini per i quali non si ritiene operante la sospensione, come per il termine del saldo del prezzo nel sub procedimento di vendita forzata immobiliare. In tali casi, eventuali difficoltà occorse all'aggiudicatario in conseguenza della pandemia potrebbero, al più, giustificare una richiesta di rimessione in termini (sulla improrogabilità del termine e sulla «eccezionale» rimessione in termini dell'aggiudicatario incolpevole, si veda Cass civ., 10 dicembre 2019, n. 32136) previa dimostrazione che il ritardo dal quale discende la decadenza nel versamento del saldo prezzo sia dipeso da cause non imputabili.

Nello specifico non si è ritenuto possibile estendere all'aggiudicatario il beneficio previsto dall'art. 54-ter del d.l. 18/2020, il quale è evidentemente rivolto al solo esecutato, come si evince dall'inequivoco riferimento legislativo all'oggetto della procedura, costituito dall'abitazione principale del debitore. In altre parole, lo scopo della norma non è certo favorire l'offerente in executivis procrastinando il termine per il versamento del prezzo, ma piuttosto quello di agevolare il debitore, consentendogli, entro un limitato lasso temporale, la possibilità di salvare la prima casa (Fanticini-Saija, La sospensione dell'espropriazione forzata della prima casa, in Giur. it., fasc. 8-9, 2020, 2069 ss.).

Riferimenti
  • Asprella – Giordano, La riforma del processo civile, dal 2005 al 2009, in Giust. civ., 2009, suppl. al n. 6;
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  • Caponi, La rimessione in termini nel processo civile, Milano, 1996; Caponi, Rimessione in termini: estensione ai poteri di impugnazione (art. 153, 2° comma, c.p.c.), in Foro it., 2009, V, 283; Id., voce Rimessione in termini nel processo civile, in Digesto civ., Aggiornamento, Torino, 2009;
  • Caponi, Un passo delle sezioni unite della Cassazione verso la rimessione nei termini di impugnazione in Foro it., I, 2005;
  • Caporusso, Sull'improcedibilità dell'appello per tardiva costituzione dell'appellante, in Foro it., I, 2010;
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  • D'Adamo, Prime riflessioni sulla nuova rimessione in termini, in Riv. dir. proc., 2010;
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Sommario