Omessa diagnosi della malformazione del feto e diritto all'autodeterminazione procreativa della gestante
13 Settembre 2021
Massima
In tema di responsabilità medica, l'omessa diagnosi delle malformazioni del feto determina la lesione del diritto all'autodeterminazione procreativa della gestante consistente non solo nella opportunità di valutare se interrompere o meno la gravidanza, ma altresì nella possibilità di prepararsi, psicologicamente e materialmente, alla nascita di un bambino affetto da gravi patologie e pertanto necessitante di particolare accudimento.
Incorre in responsabilità civile l'azienda ospedaliera o il medico che, avendo colposamente omesso la diagnosi delle malformazioni del feto, abbiano leso il diritto all'autodeterminazione procreativa della gestante, anche nell'ipotesi in cui dovesse essere successivamente accertato che quest'ultima, ove correttamente informata, non avrebbe comunque interrotto la gravidanza. Il caso
Due coniugi agivano in giudizio nei confronti della struttura sanitaria per ottenere il risarcimento del danno derivante dalla omessa diagnosi della patologia congenita sofferta dalla loro figlia. I danni lamentati dagli attori consistevano: 1) nella violazione del diritto all'autodeterminazione; 2) nel danno patito dalla neonata per il ritardo con cui erano state diagnosticate le patologie da cui era affetta, giacché tale ritardo ne aveva aggravato la condizione patologica.
I giudici di merito rigettavano entrambe le domande dei coniugi. In merito alla violazione del diritto all'autodeterminazione, i giudici di merito rilevavano che la gestante non aveva provato che, qualora fosse stata informata delle gravi patologie del feto, avrebbe manifestato la volontà di ricorrere all'interruzione della gravidanza e, inoltre, che gli attori non avevano provato la ricorrenza delle condizioni legittimanti l'interruzione volontaria della gravidanza.
Con riferimento al danno da ritardo, i giudici di merito escludevano la sussistenza del nesso di causa tra la malformazione cardiaca diagnosticata tardivamente, la intempestività dell'intervento chirurgico e il ritardo psicomotorio. In particolare, la Corte d'Appello richiamava, a sostegno della propria decisione, la sentenza della Cassazione Civile, Sezioni Unite, 22 dicembre 2015 n. 25767 che avevano affermato che non si possa presumere che la gestante scelga sempre di interrompere la gravidanza ove informata delle gravi malformazioni del feto e che incombe sulla madre, quindi, l'onere di provare che avrebbe esercitato la facoltà d'interrompere la gravidanza - ricorrendone le condizioni di legge - ove fosse stata tempestivamente informata dell'anomalia fetale.
Nel caso concreto, secondo la Corte d'Appello, l'attrice non aveva prodotto alcun elemento concreto che indicasse quale sarebbe stata la sua volontà (ad esempio, non aveva addotto alcuna richiesta di un consulto medico per conoscere le condizioni di salute del feto, né aveva fatto emergere altre indirette manifestazioni della propria propensione abortiva), limitandosi ad insistere sulla situazione di difficoltà e di stress emotivo, determinato dall'impreparazione nei confronti del trauma consistente nella nascita della bambina affetta da così gravi patologie, causa dell'insorgenza di gravi disturbi psichici per la stessa attrice. I coniugi proponevano quindi ricorso per cassazione deducendo che la Corte d'Appello non avrebbe considerato che la violazione del consenso informato in capo ad una donna in gravidanza inciderebbe non solo sul diritto alla interruzione di gravidanza, ma potrebbe avere anche altre conseguenze, tra cui quella di impedire alla madre di prepararsi psicologicamente e materialmente alla nascita di un bambino affetto da patologie, necessitante di maggior accudimento e cure mediche, e ad una conseguente diversa organizzazione di vita. La questione
La Cassazione torna ad affrontare il tema del risarcimento conseguente alla omessa diagnosi di malformazioni fetali: è necessario fornire la prova della volontà abortiva della madre, ove fosse stata correttamente informata della presenza di malformazioni, oppure non è richiesta la prova della volontà abortiva potendo essere tutelato anche il diritto alla autodeterminazione procreativa, consistente nella necessità di prepararsi psicologicamente e materialmente alla nascita di un bambino affetto da patologie? Le soluzioni giuridiche
Con la sentenza oggetto di commento, la Suprema Corte riconosce il risarcimento in favore della madre a prescindere dalla prova della volontà abortiva, tutelando così il diritto alla autodeterminazione procreativa, ovvero la possibilità di scegliere di non abortire e di prepararsi, psicologicamente e materialmente, alla nascita di un bambino affetto da gravi patologie. Secondo la Suprema Corte, il Giudice d'Appello avrebbe dovuto infatti considerare che, nel presente caso, risultava provato il pregiudizio consistente nell'impreparazione per i genitori ad affrontare il trauma della nascita della figlia con grave disabilità.
Il Giudice d'Appello avrebbe allora dovuto accertare che i danneggiati avevano allegato di aver subito un pregiudizio causalmente legato ex art. 1223 c.c. con l'omessa informazione e che tale pregiudizio superava la soglia della serietà/gravità a fronte del bilanciamento tra principio di solidarietà e di tolleranza ed era pertanto meritevole di essere risarcito (Sul punto, la sentenza richiama Cass. 2 febbraio 2010, n. 2354 e Sezioni Unite n. 26972-26975 dell'11 novembre 2008). La Suprema Corte valorizza quindi la plurifunzione della diagnosi prenatale, non essendo la stessa finalizzata soltanto alla interruzione di gravidanza, ma potendo essere diretta anche ad “una serie di altre scelte di natura esistenziale, familiare, e non solo terapeutica”. Osservazioni
La sentenza oggetto di commento inaugura un nuovo orientamento giurisprudenziale che prende le distanze da quanto affermato dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 25767 del 22 dicembre 2015 che sembrava aver definito i presupposti per il risarcimento del danno in caso di omessa diagnosi di malformazioni fetali. Finora il tema era stato sempre ancorato al concetto di “nascita indesiderata” ovvero alla circostanza che, in mancanza della diagnosi delle patologie del feto, la gestante non sarebbe stata informata e non avrebbe potuto esercitare il diritto alla interruzione di gravidanza previsto dagli artt. 4 e 6 della legge n. 194/1978. L'intervento delle Sezioni Unite si era infatti reso necessario a fronte del contrasto giurisprudenziale sulla necessità di provare o meno la volontà di abortire della madre. Prima della sentenza n. 25767 del 22 dicembre 2015, l'orientamento giurisprudenziale maggioritario riteneva che non si potesse presumere che la gestante avrebbe sempre scelto di interrompere la gravidanza ove informata delle gravi malformazioni del feto e onerava, pertanto, la madre di provare quale sarebbe stata la sua effettiva volontà se correttamente informata (Sul punto, ex multis, Cassazione civile sez. III, 30 maggio 2014, n.12264, che escludeva che tale prova non potesse essere desunta dal solo fatto della richiesta di sottoporsi ad esami volti ad accertare l'esistenza di eventuali anomalie del feto, poiché tale richiesta sarebbe solo un indizio privo dei caratteri di gravità ed univocità. Nello stesso senso, Cassazione civile sez. III, 22 marzo 2013, n.7269). Un orientamento minoritario riteneva invece che risponderebbe a normale regolarità causale che la gestante interrompa la gravidanza ove informata delle gravi malformazioni del feto e non richiedeva quindi la prova della volontà abortiva, potendo la stessa essere sempre presunta (Sul punto si può citare la sentenza della Cassazione civile sez. III, 2 ottobre 2012, n. 16754, che aveva affermato: “A fronte di una precisa richiesta diagnostica della gestante, finalizzata ad evidenziare eventuali malformazioni fetali, è ragionevole presumere che, in caso di esito positivo dell'accertamento, sarebbe insorta una patologia nella donna e che quest'ultima avrebbe di conseguenza esercitato il diritto di interruzione della gravidanza.” Nello stesso senso, Cassazione civile sez. III, 4 gennaio 2010, n. 13; Cassazione civile sez. III, 13 luglio 2011, n. 15386). Le Sezioni Unite avevano poi confermato l'orientamento maggioritario, escludendo l'automatismo probatorio e risarcitorio e chiarendo che la prova che la gestante, se adeguatamente informata dai sanitari delle malformazioni, delle malattie o delle tare del feto, avrebbe interrotto la gestazione, potesse essere data anche per presunzioni, con la dimostrazione di altre circostanze dalle quali si possa ragionevolmente risalire, per via induttiva, alla sussistenza del fatto psichico che si tratta di accertare secondo il parametro del "più probabile che non”. (Cass. S.U., 22 dicembre 2015, n. 25767).
Con la sentenza oggetto di commento la Cassazione afferma invece che, in caso di omessa diagnosi di malformazione fetale, l'indagine del giudice di merito non debba essere incentrata solo sull'omesso esercizio del diritto alla interruzione di gravidanza, ma anche sul pregiudizio al diritto alla autodeterminazione procreativa dei futuri genitori. In questo senso, verrebbe meno il tema della “nascita indesiderata” perché il presupposto del diritto alla autodeterminazione procreativa è invece la scelta consapevole di portare avanti la gravidanza e di avere il tempo per prepararsi psicologicamente e materialmente, alla nascita di un bambino affetto da gravi patologie. La sentenza n. 7385 del 16 marzo 2021 si allinea quindi piuttosto a quel filone giurisprudenziale recentemente formatosi in tema di diritto all'autodeterminazione terapeutica, che tutela il diritto al consenso informato e alla possibilità di meditare sulle conseguenze e in ordine possibili scelte terapeutiche (ex multis, Cassazione civile sez. III, 3 novembre 2020, n.24462) e che oggi trova tutela nella Legge 22 dicembre 2017, n. 219. La sentenza in commento tutela quindi un nuovo diritto alla autodeterminazione procreativa, che per essere risarcito non richiederebbe affatto ai genitori la prova della volontà di abortire. Seconda la citata pronuncia, ogni qual volta il giudice di merito accerti, sulla base un giudizio comparativo tra la situazione verificatasi in seguito all'omessa informazione e quella che si sarebbe avuta se la gestante fosse stata posta nelle condizioni di autodeterminarsi, un danno che vada oltre la lesione della mera privazione del diritto di scegliere (non risarcibile ex se in quanto fine a sé stessa) e che quindi cagioni un nocumento connotato dal requisito della gravità, non vi sarebbe motivo per negare la tutela risarcitoria. De segnalare anche la sentenza della Cassazione n. 2070 del 29 gennaio 2018 (e nello stesso anno anche Cassazione civile sez. III, 5 febbraio 2018, n. 2675) aveva già menzionato il concetto di libera determinazione ad una procreazione cosciente e responsabile, ma in un caso di erronea esecuzione dell'intervento d'interruzione della gravidanza, in cui i genitori avevano quindi subito un danno al diritto alla autodeterminazione trovandosi costretti a portare a termine una gravidanza non desiderata. Il concetto di danno era quindi, anche in quel caso, sempre ancorato al diritto alla interruzione di gravidanza. Come già evidenziato, la sentenza n. 7385 del 16 marzo 2021 è invece innovativa perché abbandona il tema della nascita indesiderata e della interruzione di gravidanza, ribaltando la prospettiva a favore della tutela della scelta dei genitori di non abortire e di prepararsi psicologicamente e materialmente alla nascita di un bambino affetto da gravi patologie. Riferimenti
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