Osservazioni “a caldo” sull'improcedibilità dell'azione disciplinata dall'art. 344-bis c.p.p.
04 Ottobre 2021
Che la nuova forma di improcedibilità dell'azione dipendente dal decorso del tempo, disciplinata nell' art. 344-bis c.p.p. (1), configuri una modalità di definizione del processo destinata a garantire la durata ragionevole dei giudizi d'impugnazione è pressoché pacifico. In questo senso depone la relazione di accompagnamento alle proposte di modifica del D.D.L. A.C. 2435 elaborata dalla commissione ministeriale presieduta da Giorgio Lattanzi (2), che si riferisce proprio a istituti della common law statunitense. Va subito sottolineato, però, che questi ultimi riguardano il primo grado e sanzionano con il mancato rinvio a giudizio o con il proscioglimento (the court must dismiss the charges (3)) la violazione del diritto dell'imputato a che la formulazione dell'imputazione giunga entro 30 giorni dalla notizia di reato e che si proceda all'instaurazione del giudizio entro 70 giorni dall'imputazione (4). Come noto, il sesto emendamento della Costituzione americana stabilisce che la persona accusata di un reato benefici di uno “speedy trial”, vale a dire del diritto alla celere definizione del processo avviato nei suoi confronti (5). La violazione di tale prerogativa dell'imputato comporta l'automatica interruzione del processo in corso e il venir meno dell'accusa elevata a suo carico. Molteplici le finalità del riconoscimento del diritto allo speedy trial: serve a minimizzare i costi (umani, psicologici, sociali ed economici) provocati dalla sottoposizione a processo penale; a contenere i tempi di durata dell'eventuale detenzione cautelare; a salvaguardare il diritto dell'imputato a confutare le accuse mosse nei suoi confronti (6). Prima della fissazione dei termini di 30 e 70 giorni sopra menzionati, ad opera dello Speedy trial act del 1974, sono state le Corti a determinare discrezionalmente quale ritardo nella definizione del processo fosse tale da poter essere qualificato come violazione dello speedy trial, alla stregua di una valutazione da svolgere caso per caso, attraverso un giudizio di bilanciamento avente a oggetto la condotta tenuta da entrambe le parti del processo. Secondo quanto stabilito nel leading case della Suprema Corte risalente al 1972 (7) sono 4 i fattori da tenere in considerazione alla fine della perenzione dell'accusa determinata dalla violazione della durata ragionevole. Innanzitutto, occorre quantificare la lunghezza del ritardo; in secondo luogo bisogna tenere conto delle giustificazioni addotte dal Governo (e dunque dalla parte pubblica) per giustificare il ritardo; inoltre, occorre verificare che la difesa abbia effettivamente inteso far valere la violazione del suo diritto allo speedy trial; infine, è necessario considerare i danni determinati dal ritardo (8). Questi pochi cenni bastano a evidenziare come la causa d'improcedibilità introdotta nell'art. 344-bis c.p.p., che è destinata a operare nel giudizio di impugnazione e non in quello di primo grado, risulta abissalmente distante dal corrispondente modello statunitense anche se, come quest'ultimo, è istituto destinato a salvaguardare il diritto dell'imputato alla durata ragionevole del processo. Che sia eminentemente difensiva la matrice della nuova regola disciplinata dall'art. 344-bis c.p.p. discende da quanto stabilito nel suo settimo comma, ove si legge che se l'imputato richiede la prosecuzione del processo, al giudice dell'impugnazione rimane preclusa la pronuncia della declaratoria d'improcedibilità per superamento del termine di durata del giudizio di impugnazione, (art. 344-bis comma 7 c.p.p.). Si tratta, quindi, di un istituto rimesso nell'esclusiva disponibilità personale dell'imputato, per il quale non opera la legittimazione generale del difensore disciplinata nell'art. 99 comma 1 c.p.p. poiché, alla stregua di una regola generale e pacifica della procedura penale vigente, al difensore non può essere riconosciuto il potere di assumere determinazioni relative a diritti fondamentali dell'imputato, di cui solo quest'ultimo può disporre (9). Un ulteriore elemento che allontana l'improcedibilità dell'azione nostrana dal modello statunitense riguarda, poi, il rilievo attribuito a considerazioni di tipo ‘sostanzialistico' nella delimitazione dell'ambito applicativo dell'istituto. È previsto, infatti, che la causa di improcedibilità dell'azione per superamento della durata massima del giudizio di impugnazione non risulti applicabile quando si proceda in ordine a delitti puniti con l'ergastolo, anche come effetto dell'applicazione di circostanze aggravanti (art. 344-bis comma 9). In altri termini, diversamente da quanto accade nel sistema federale americano, l'imprescrittibilità sul piano sostanziale dei delitti più gravi si proietta anche sul piano processuale, escludendo che possa essere dichiarata improcedibile la corrispondente azione penale in ragione dell'eccessivo decorso del tempo.
Si ringrazia la rivista Cassazione penale per averci concesso la pubblicazione in anteprima del contributo. L'art. 344-bis c.p.p. individua, innanzitutto, l'arco temporale superato il quale la prosecuzione del processo non è più consentita e diviene necessario il suggello di una pronuncia di non doversi procedere: due anni, per la definizione del giudizio di appello (art. 344-bis comma 1), un anno per la definizione del giudizio in Cassazione (art. 344-bis comma 2). È ancora la legge a individuare il dies a quo di decorrenza dei due anni o dell'anno che non devono essere superati, rispettivamente, per la celebrazione del giudizio in appello e di quello in Cassazione: esso cade nel novantesimo giorno successivo a quello di scadenza del termine per impugnare, a seconda dei casi, la sentenza di primo grado o quella di appello (art. 344-bis comma 3). Predeterminate dalla legge sono anche diverse ipotesi di sospensione. Alcune sono generali, e dunque valevoli sia per la durata del giudizio di appello che per quella del giudizio di Cassazione. Un primo gruppo riguarda i casi previsti nel codice penale dall'art. 159 comma 1 per la sospensione del corso della prescrizione del reato: essi risultano integralmente richiamati nella materia de qua e determinano la sospensione del termine di durata massima del giudizio di impugnazione (art. 344-bis comma 6). Altro caso di sospensione valevole in via generale ricorre quando sono disposte nuove ricerche dell'imputato ai sensi dell'art. 159 c.p.p., al fine di effettuare la rituale notifica del decreto di citazione del giudizio di appello o gli avvisi che devono precedere il giudizio in Cassazione. Quando non è stato possibile effettuare la notificazione all'imputato della citazione o degli avvisi di cui all'art. 613 comma 4 c.p.p., tale evenienza costituisce una causa di sospensione dei termini di 2 o 1 anno stabiliti nell'art. 344-bis commi 1 e 2 c.p.p. La sospensione opera da quando è pronunciato il provvedimento che dispone le nuove ricerche e fino a quando risulta effettuata la notificazione all'imputato. Per espressa previsione (ultimo periodo art. 344-bis comma 6 c.p.p.), se il procedimento d'impugnazione è cumulativo e riguarda una molteplicità di imputati, il termine rimane sospeso anche nei confronti di quanti, fra di essi, hanno ricevuto regolare notifica. Con esclusivo riferimento al giudizio di appello, è poi stabilito che ai fini del computo della durata di questo grado di giudizio, non si deve tenere conto del tempo necessario all'espletamento della rinnovazione dell'istruzione dibattimentale (primo periodo art. 344-bis comma 6 c.p.p.). Tuttavia, si aggiunge che tale sospensione non opera se il periodo fra un'udienza e quella successiva supera i 60 giorni (secondo periodo art. 344-bis comma 6 c.p.p.). A dire il vero, il tenore letterale della regola stabilita nel secondo periodo dell'art. 344-bis comma 6 c.p.p. non è affatto esattamente formulato: dovendosi escludere che la previsione vincoli il giudice di appello a dedicare solo due udienze alla acquisizione delle prove, pare plausibile sostenere che la locuzione «In caso di sospensione per la rinnovazione dell'istruzione dibattimentale, il periodo di sospensione tra un'udienza e quella successiva non può comunque eccedere sessanta giorni», non possa avere altro senso se non quello di contingentare i cosiddetti ‘tempi morti' fra un'udienza e l'altra in caso di rinvio. Se ne desume, così, il divieto a che, in caso di istruzione probatoria destinata a svolgersi in una molteplicità di udienze, il differimento dall'una all'altra richieda un tempo superiore a quello di 60 giorni complessivamente considerato. In altre parole, se la rinnovazione dell'istruzione dibattimentale richiede che il giudizio di appello si svolga in due udienze, il rinvio dalla prima alla seconda non deve oltrepassare i 60 giorni; se invece la rinnovazione esigesse una molteplicità di udienze, la somma dei diversi periodi di rinvio fra un'udienza e l'altra non deve superare i 60 giorni. Ove venissero superati tali 60 giorni, l'intero periodo di tempo in sovrappiù andrebbe comunque computato nel termine di durata dell'appello, poiché non potrebbe più operare la sospensione di cui al secondo periodo dell'art. 344-bis comma 6 c.p.p. Evidente la ratio di questa regola: si intende incentivare un'organizzazione delle celebrazioni delle udienze in appello tale da propiziare uno svolgimento dell'istruzione dibattimentale in udienze ravvicinate, a salvaguardia non solo della durata ragionevole del processo, ma anche per tutelare la necessaria concentrazione del dibattimento.
Le ipotesi di sospensione disciplinate nel sesto comma dell'art. 344-bis c.p.p. non sono le uniche vicende atte ad allungare i tempi di svolgimento del giudizio di impugnazione, restringendo così l'ambito di applicabilità della causa d'improcedibilità dell'azione derivante dal superamento dei suoi termini di durata fissati nei primi due commi della norma. È previsto, infatti, che possa darsi luogo a una proroga di quest'ultimi per un periodo non superiore a un anno per il giudizio di appello e di sei mesi per il giudizio in Cassazione (primo periodo art. 344-bis comma 4 c.p.p.). Tale proroga è disposta con ordinanza motivata del giudice procedente che procede ove il giudizio d'impugnazione risulti «particolarmente complesso, in ragione del numero delle parti o delle imputazioni o del numero o della complessità delle questioni di fatto o di diritto da trattare». Il giudice può disporre, oltre a quella appena menzionata, «ulteriori proroghe» nel caso in cui oggetto del procedimento sia un reato di elevata gravità, vale a dire quando si procede per i delitti commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell'ordinamento costituzionale per i quali la legge stabilisce la pena della reclusione non inferiore nel minimo a cinque anni o nel massimo a dieci anni, per i delitti di cui agli articoli 270 terzo comma, 306 secondo comma, 416-bis, 416-ter, 609-bis, nelle ipotesi aggravate di cui all'articolo 609-ter, 609-quatere 609-octies del codice penale, nonché per i delitti aggravati ai sensi dell'articolo 416-bis.1 primo comma del codice penale e per il delitto di cui all'articolo 74 T.U. leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, di cui al d.P.R. 9 ottobre 1990 n. 309 (secondo periodo art. 344-bis comma 4 c.p.p.). L'impiego del plurale («ulteriori proroghe» e non ulteriore proroga) esprime la possibilità che, per i procedimenti sopra elencati, la proroga possa essere disposta la prima volta ove il giudizio d'impugnazione risulti «particolarmente complesso, in ragione del numero delle parti o delle imputazioni o del numero o della complessità delle questioni di fatto o di diritto da trattare», e, successivamente, altre volte, quando risultino i motivi prima enunciati in relazione ai procedimenti concernenti i gravi reati elencati nel secondo periodo dell'art. 344-bis comma 4 c.p.p. A mo' di chiusura, nell'ultimo periodo del quarto comma dell'art. 344-bis c.p.p. è prescritto che quando si procede per i delitti aggravati ai sensi dell'articolo 416-bis.1 primo comma del codice penale, i periodi di proroga non possono superare complessivamente tre anni nel giudizio di appello e un anno e sei mesi nel giudizio di cassazione. Correlando quest'ultima previsione al dettato precedente ne risulta che le «ulteriori proroghe» consentite, complessivamente considerate, possono allungare il tempo di durata del giudizio di impugnazione per non più di un anno, in appello, e per non più di sei mesi, in Cassazione, vale a dire per complessivi 2 anni in appello e 12 mesi in Cassazione. Tuttavia, quando risulti contestata un'aggravante di cui all'art. 416-bis.1 c.p., la proroga della durata del processo di appello o di cassazione può essere prolungata fino a complessivi 3 anni per l'appello e 18 mesi per il giudizio in Cassazione.
Non pare che la proroga in parola susciti dubbi di legittimità costituzionale per contrasto con l'art. 25 II comma Cost., anche alla luce della recente pronuncia del giudice delle leggi concernente un'ipotesi di allungamento dei tempi di prescrizione non sufficientemente determinato (10). Il tenore dell'art. 344-bis c.p.p., infatti, pare sufficientemente specifico nell'orientare la decisione del giudice nella ricognizione dei presupposti stabiliti dalla legge, ricalcando istituti già sperimentati ai fini del computo della durata massima delle restrizioni della libertà personale dell'imputato. Eventuali problemi di compatibilità costituzionale, invece, potrebbero presentarsi ove l'esegesi giurisprudenziale si attestasse nel senso di ritenere che il giudice possa disporre la proroga in parola motu proprio. Ciò contrasterebbe, senz'altro, con l'art. 111 II comma Cost., poiché il principio della domanda costituisce una regola generale del procedimento penale. Come noto, tale schema procedimentale rappresenta lo strumento principale per assicurare l'imparzialità del giudicante (11). Per tale ragione, allorché la legge non precisi che un provvedimento può essere adottato dal giudice «anche d'ufficio», tale eventualità deve ritenersi radicalmente esclusa. Nel caso di specie, poi, il legislatore parla di «ordinanza motivata» e, come noto, le ordinanze emesse nel corso del giudizio sono decise su istanza di parte e previa discussione nei modi previsti dall'art. 491 c.p.p. (art. 478 c.p.p.). Del resto, disporre la proroga del termine di durata del giudizio d'impugnazione ai sensi dell'art. 344-bis comma 4 c.p.p. ha la funzione di evitare il sopraggiungere della causa di improcedibilità e, proprio, per questo tende a far prevalere le esigenze dell'accertamento e della repressione su quella, contrapposta, di minimizzare «la ‘pena' costituita dalla soggezione al procedimento penale» dell'imputato (12). Ciò significa che propiziare la proroga è tipica espressione della funzione di accusa e, in quanto tale, risulta inconciliabile sul piano sia logico che gnoseologico con la funzione di giudice. Pervenire a un giudizio di colpevolezza e non a una declaratoria d'improcedibilità ex art. 344-bis c.p.p. è obiettivo dell'organo pubblico in capo al quale l'ordinamento soggettivizza l'interesse generale alla repressione dei reati. Ove giudice e pubblico ministero condividessero questo scopo, il vulnus alla funzione giurisdizionale sarebbe irreparabile, perché l'imparzialità del giudice penale si esprime soltanto attraverso il suo distacco dalle posizioni di accusa (13). La nuova causa d'improcedibilità dell'azione correlata al superamento della predeterminazione legale della durata del giudizio di impugnazione si applica ai procedimenti relativi a fatti di reato commessi successivamente al 1° gennaio 2020 (art. 2 comma 3 D.D.L. 2435A), vale a dire in relazione a quelle vicende per le quali risulta applicabile la disciplina della prescrizione introdotta dalla legge cd. ‘spazzacorrotti' (art. 1 comma 1, lett. d), e), f) e comma 2 l. 9 gennaio 2019, n. 3) (14). Questo inequivoco riferimento normativo disvela il principale obiettivo politico della novella, costituito dalla necessità di offrire un antidoto alle insuperabili distorsioni di un sistema in cui il periodo di tempo necessario alla estinzione del reato cessa di correre dopo la definizione in primo grado del procedimento penale. La riforma Bonafede, nell'ottica di rinsaldare l'efficacia punitiva del sistema (15), elevava come unico interesse meritevole di tutela quello all'accertamento del fatto di reato e della colpevolezza del suo autore, assicurando così la possibilità dell'emissione di una sentenza di condanna irrevocabile anche in assenza di una condanna di primo grado ed indipendentemente dalla distanza di tempo intercorrente fra la commissione de reato e la pronuncia di una condanna irrevocabile (16). Una tale scelta, da cui discendeva una «“giustizia infinita” … ciecamente indifferente al fluire del tempo» (17), presentava evidenti criticità in relazione ad almeno due profili. In primo luogo, l'esclusione del tempo necessario alla celebrazione dei giudizi d'impugnazione dal computo di quello necessario all'estinzione del reato per prescrizione, destinava i gradi di giudizio successivi al primo a una durata procrastinabile indefinitamente, proprio perché il pungolo acceleratorio della prescrizione era venuto meno (18). In secondo luogo, la “sterilizzazione”, ai fini dell'estinzione del reato, dei tempi del procedimento penale nelle fasi d'impugnazione, finiva per prolungare sine die il termine di prescrizione per ragioni di prevenzione speciale, nonostante che queste ultime non dovrebbero mai comportare la punizione dell'agente dopo un periodo di tempo congruo a non giustificare più la punizione nella prospettiva generalpreventiva (19). La mancata previsione di un termine massimo, superato il quale il reato deve ritenersi estinto, infatti, avrebbe consentito l'irrogazione della sanzione a notevole distanza dal tempus commissi delicti, indipendentemente dalla sua effettiva utilità funzionale (20), determinando così la rottura di quel rapporto di “appartenenza personale” tra il reato e il suo autore, che solo legittima la sanzione (21).
Ciò premesso, la nuova causa d'improcedibilità dell'azione codificata nell'art. 344-bis c.p.p. si atteggia quale primo passo, utile a introdurre un correttivo – senz'altro parziale ed eccentrico – alle disfunzioni appena segnalate. Da un lato, essa limita la distanza temporale fra commissione del reato e decisione irrevocabile, assicurando l'efficienza del procedimento penale relativamente ai gradi di impugnazione: la prospettiva della declaratoria d'improcedibilità, infatti, costituisce un indubbio fattore di accelerazione, in quanto l'autorità procedente è indotta a concludere il giudizio in tempo utile ad evitare il superamento dei termini previsti dalla legge. Dall'altro, essa assicura il diritto dell'imputato a non patire «scenari di kafkiana memoria nei quali l'imputato assuma le vesti di “eterno giudicabile”» (22). Occorre aggiungere, però, che i termini per l'improcedibilità ex art. 344-bis c.p.p., di cui si è data sintetica esposizione nel paragrafo precedente, sono destinati a trovare applicazione soltanto dopo il 1° gennaio 2025, perché prima, per i giudizi di impugnazione relativi a fatti commessi successivamente al 1° gennaio 2020, e in cui l'atto di impugnazione sia stato presentato entro il 31 dicembre 2024, i termini entro cui devono essere definiti il grado di appello e quello in Cassazione sono aumentati della metà: ammontano, cioè, senza considerare eventuali proroghe e/o sospensioni, a tre anni, invece di due; e a un anno e mezzo, invece di un anno (art. 2 comma 5 D.D.L. 2435A). Ciò significa che gli uffici giudiziari interessati dalla novella, vale a dire le Corti di Appello e la Suprema Corte di Cassazione, avranno tutto il tempo per adeguare i propri moduli organizzativi alle nuove regole. Ciò significa che queste ultime, assai difficilmente, propizieranno la decimazione delle pronunce di merito a vantaggio di quelle in jure ai sensi dell'art. 344-bis c.p.p. La delimitazione dell'ambito di applicazione di quest'ultima previsione ai soli procedimenti relativi a fatti di reato commessi successivamente al 1° gennaio 2020 potrebbe costituire un elemento decisivo nel prevenire eventuali frizioni con la necessità (costituzionale e convenzionale) di assicurare applicazione retroattiva alle norme penali di favore. Plausibile sostenere, infatti, che l'art. 344-bis c.p.p. determini effetti sostanziali sulla punibilità (23), nonostante la sua collocazione nel codice di procedura penale e la natura senz'altro ‘processuale' di questa causa di definizione del processo. Accogliendo tale prospettiva, ne discende la necessità di applicare a tale previsione anche i principi costituzionali e convenzionali del diritto penale sostanziale (24).
Occorre chiedersi, pertanto, se l'introduzione della nuova causa d'improcedibilità configuri, oppure no, un fenomeno di successione delle leggi penali nel tempo che impone l'applicazione della lex mitior a tutti i fatti commessi anteriormente. Probabilmente, la maniera più lineare per sciogliere tale nodo è quella di fare leva sull'espressa scelta legislativa di circoscrivere l'efficacia retroattiva della nuova previsione ai soli procedimenti d'impugnazione relativi a fatti di reato commessi successivamente al 1° gennaio 2020. Tale delimitazione cronologica si spiega alla luce della ratio della nuova norma, destinata a fare da contrappeso a una disciplina della prescrizione in cui il decorso del tempo ai fini dell'estinzione del reato si blocca con la pronuncia di primo grado. Il nuovo istituto, infatti, si applica esclusivamente ai procedimenti d'impugnazione relativi a fatti di reato commessi successivamente al 1° gennaio 2020 proprio perché risulta indissolubilmente collegato con la disciplina della prescrizione del reato introdotta dalla l. n. 3 del 2019. Se l'art. 344-bis c.p.p. serve a temperare gli esiti di una legge penale sostanziale sfavorevole, qual è senz'altro quella introdotta dalla l. n. 3 del 2019, allora la disciplina contenuta in questo articolo non è autonoma e tale da configurare una lex mitior applicabile a fatti diversi da quelli per i quali è previsto il blocco del decorso dei termini della prescrizione del reato dopo la pronuncia di primo grado. In altre parole, la costruzione della fattispecie delineata nell'art. 344-bis c.p.p. è insuscettibile di un'applicazione retroattiva che si estenda anche alle condotte anteriori al 1° gennaio 2020, in quanto gli effetti sostanziali sulla punibilità di questa norma processuale non si proiettano in via generale su tutti i reati, ma esclusivamente su quelli per i quali la legge penale sostanziale prevede la non prescrittibilità dopo il giudizio di primo grado. Sicché, proprio perché la cessazione del decorso del tempo ai fini della prescrizione dopo il giudizio di primo grado è disciplina applicabile soltanto ai fatti commessi dal 1° gennaio 2020 in poi, ed è disciplina sfavorevole, non applicabile a condotte anteriori, nemmeno la nuova causa di improcedibilità, il cui fondamento razionale sta proprio nella necessità di fare da contrappeso all'altra regola, può risultare applicabile ai fatti commessi prima del 1° gennaio 2020, vale a dire ai vicende cui non si applica la legge sfavorevole n. 3/2019 e per i quali non opera il blocco del corso della prescrizione dopo la pronuncia di primo grado.
Più problematica, invece, la scelta di prevedere un'ampiezza cronologica diversa per l'integrazione della causa di improcedibilità a seconda che l'atto d'impugnazione sia stato presentato entro il 31 dicembre 2024 oppure no. Tale disciplina transitoria, infatti, sarebbe compatibile con l'obbligo di retroattività della lex mitior solo a condizione che si qualifichi come esclusivamente processuale la nuova disciplina dell'art. 344-bis c.p.p. Come si è osservato, però, pare più plausibile sostenere il contrario. Di conseguenza, procrastinare al 1° dicembre l'applicazione delle nuove regole, prevedendo fino a quella data un più ampio termine di durata del giudizio di impugnazione, pare violare l'obbligo di retroattività della lex mitior,perché la salvaguardia di esigenze organizzative – che sono alla base della norma transitoria – non costituiscono adeguato fondamento alla discriminazione tra imputati i cui addebiti consistono tutti in fatti posti in essere dopo il 1° gennaio 2020, rispetto ai quali la diversa datazione della presentazione dell'atto d'impugnazione dipende da dinamiche procedimentali del tutto accidentali. La declaratoria di non doversi procedere per violazione del termine legale di durata massima del giudizio di impugnazione pare offrire attuazione legislativa (parziale e travisata) a risalenti suggerimenti emersi in sede dottrinale. La ferma denuncia della necessità di superare la fisionomia della prescrizione ereditata dalla tradizione e disciplinata nel codice penale, per introdurre una altra e diversa forma di prescrizione di natura processuale, può essere datata sul finire del secolo scorso (25). Da allora in poi, l'aspirazione de jure condendo a distinguere «tra una prescrizione del reato più lunga e una prescrizione dell'azione più breve» (26) divenne presto il ricorrente refrain di un dibattito scientifico sollecitato da prospettive de iure condendo di tutt'altro segno (27), per lo più seguite da discutibili novellazioni (28). Come è stato efficacemente sintetizzato, infatti, la prescrizione del reato e quella dell'azione vanno distinte perché «il tempo della punibilità è un tempo cronologico, un tempo vuoto o, meglio indifferente a tutto ciò che si materializza durante il suo fluire, in particolare, alla condotta dei soggetti interessati; un tempo il cui strumento di misurazione è il calendario. Il tempo dell'agire giudiziario è invece tempo giuridico, scandito dall'interazione dei protagonisti, dal susseguirsi di fatti interruttivi e sospensivi; un tempo, il cui strumento di misurazione è la norma» (29). Sulla scia di queste considerazioni, dal 2001 in poi sono stati presentati una molteplicità di progetti di legge che prevedevano l'introduzione di una nuova disciplina della prescrizione a duplice dimensione – sostanziale e processuale – imperniata sul decorso di differenti segmenti cronologici destinati a provocare, da un lato, l'estinzione del reato, dall'altro, l'estinzione del processo, in concomitanza con il superamento del tempo necessario a estinguere il reato, o del tempo “ragionevole” di durata del processo (30). Inoltre, nella bozza di legge-delega per la riforma del codice di procedura penale elaborata dalla Commissione istituita presso il Ministero della Giustizia nel corso della XV legislatura e presieduta dal compianto prof. Giuseppe Riccio – rectius nell'articolato presentato al Ministro alla conclusione dei lavori della predetta Commissione – risultava inserito espressamente il riferimento alla “prescrizione dell'azione” (v. al riguardo art. 2 comma 1.1. bozza Commissione Riccio, datata 27 luglio 2006) (31). Non c'è dubbio che i progetti di riforma appena richiamati trovassero la loro scaturigine nella necessità di assicurare «la durata ragionevole del processo» costituzionalizzata nella nuova formulazione dell'art. 111 II comma Cost. Infatti, a sottolineare l'opportunità dell'eventuale previsione di una «estinzione del processo per intervenuta prescrizione dell'azione» (32) si è rimarcato proprio il fondamento costituzionale di una simile disciplina, anche alla luce dell'art. 6 § 1 CEDU e dall'art. 14 § 3 lett. c) P. int. d.c.p., da considerare norme interposta del giudizio di costituzionalità delle leggi alla stregua dell'art. 117 I comma Cost.
Nonostante questi diversi spunti il legislatore aveva, fino ad oggi, introdotto una disciplina che considerasse il passare del tempo nelle sue due distinte dimensioni, sostanziale e processuale, soltanto nel sottosistema della responsabilità da reato degli enti disciplinato dal d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231 (33). Nella procedura penale degli enti, infatti, è stato previsto, da un lato, un termine più lungo di prescrizione dell'illecito – computato in 5 anni ma assai dilatabile perché la sua decorrenza rimane interrotta per tutta la durata del processo, vale a dire dall'atto della contestazione all'ente dell'addebito e fino alla irrevocabilità della sentenza (art. 22 d.lgs. n. 231 del 2001); dall'altro, un tempo più breve di prescrizione dell'azione, rectius di decadenza del potere di contestare all'ente un illecito dipendente da reato, fatto coincidere con il tempo necessario a prescrivere il reato presupposto della responsabilità addebitabile all'ente (art. 60 d.lgs. n. 231 del 2001) (34). Probabilmente, a ostacolare una riforma che introducesse la prescrizione di natura processuale nel codice di procedura penale è stata la diffusa convinzione che la fissazione di termini massimi per l'accertamento processuale, da un lato, provocherebbe «conseguenze … devastanti in termini di funzionamento complessivo della giustizia penale» (35); dall'altro, contrasterebbe con gli art. 101 comma 2 e 112 Cost. (36). Nessuna di queste obiezioni, però persuade davvero. La prima esprime niente più che una posizione ‘ideologica', assai autorevole ma opinabile. Più precisamente, la prima affermazione esprime la convinzione che in un sistema malfunzionante come quello italiano, afflitto da pluridecennale congenita lentezza dei processi (37), la prospettiva di una perenzione del processo per superamento dei tempi predeterminati dalla legge finirebbe soltanto per suggellare la débâcle di un sistema penale che è incapace di condannare e applicare la pena a quanti sono riconosciuti colpevoli in esito a un processo e che, proprio per questo, degenera utilizzando gli istituti processuali, primo fra tutti la detenzione cautelare, quale succedaneo dell'irrogazione della pena (38). In altre parole, sottinteso all'avversione, professata dai più, verso istituti che configurino una efficacia ‘a tempo' dello ius persecutionis, sta il timore che l'introduzione del nuovo istituto possa frustrare la tenuta del sistema punitivo, falcidiando la possibilità di addivenire alla pronuncia di sentenze di condanna. Senonché, pur apparendo più che comprensibile tale pessimismo, alla luce della lunga serie di fallimenti inanellati a seguito delle diverse innovazioni legislative volte a contrastare l'eccessiva lunghezza dei tempi della giustizia penale, si potrebbe agevolmente ribaltare il discorso sostenendo che tutti i tentativi fin qui provati dal legislatore non hanno sortito gli effetti sperati proprio perché l'unica maniera per “costringere” gli apparati della giustizia a procedere celermente è quella di responsabilizzarli attraverso la previsione di gabbie cronologiche insuperabili. Quanto ai prospettati dubbi di costituzionalità per violazione degli art. 101 II comma e 112 Cost., nemmeno essi meritano di essere condivisi. Non si vede in qual modo, infatti, possa mai contrastare con la necessaria soggezione del giudice alla legge una previsione che impone al giudice medesimo di pronunciare una causa d'improcedibilità dell'azione penale per decorso del tempo al ricorrere di presupposti legali precisati in una norma e non già affidati al prudente apprezzamento dell'organo giudicante che stabilisce di volta in volta se i tempi di definizione del processo siano stati “ragionevoli” oppure no. A opinare diversamente, infatti, si finisce per travisare i contenuti dell'art. 101 II Cost. e intendere per ‘legge' solo quella che punisce, con il risultato di ricavare da quest'ultima previsione una sorta di investitura di potere punitivo, che attribuisce al magistrato la supremazia su qualsivoglia altra legge destinata a limitare o vincolare lo ius puniendi (39). Allo stesso modo, deve escludersi che la previsione consacrata nell'art. 112 Cost. sia di ostacolo all'introduzione di una causa di improcedibilità dell'azione penale correlata al superamento di tempi di durata del processo legalmente predeterminati. Quel che l'art. 112 Cost. vieta è che il pubblico ministero possa desistere dalla prosecuzione di una azione promossa e così sottrarla al controllo del giudice, non certo che gli esiti del promovimento di essa si risolvano nella declaratoria, da parte del giudice, di una causa d'improcedibilità stabilita dalla legge. Invece che una misura in contrasto con l'art. 101 II comma e 112 Cost, l'introduzione di una causa di improcedibilità dell'azione per decorso del tempo merita di essere qualificata come un'opzione normativa volta ad assicurare «la ragionevole durata del processo» garantita dall'art. 111 comma 2 Cost. Certo, come si è acutamente osservato, non si tratta di un'opzione obbligata, perché il legislatore ne può preferire altre, ma nemmeno può essere messa al bando (40). Anzi, questa soluzione appare apprezzabile sul piano sistematico, perché costituisce un appropriato fattore di compensazione agli squilibri attualmente presenti nel sistema processuale vigente. C'è da dubitare, però, che l'improcedibilità dell'azione disciplinata dall'art. 344-bis c.p.p. sia quanto serve per assicurare la complessiva equità di un sistema la cui principale caratteristica è la strabordante preminenza del pubblico ministero. È sicuramente misura necessaria, per arginare e temperare le disfunzioni correlate alla ‘prescrizione Bonafede', ma senz'altro essa non basta né ad assicurare la durata ragionevole del giudizio d'impugnazione – che risulta ancora eccessiva sulla base della predeterminazione legale codificata – né tantomeno a compensare i risalenti e consolidati squilibri cui nessun legislatore, finora, è riuscito a porre rimedio. Probabilmente il nostro sistema avrebbe bisogno proprio di una compiuta e organica disciplina della improcedibilità dell'azione costruita per il giudizio di primo grado e sulla falsariga del corrispondente istituto statunitense (41), che impone al Public Prosecutor di instaurare il giudizio in termini cronologici che, nel nostro Paese, finora non sono stati ritenuti sufficienti nemmeno a concludere le indagini preliminari. Distinguere «tra una prescrizione del reato più lunga e una prescrizione dell'azione più breve» (42), e prevedere un termine di prescrizione dell'azione che imponga al pubblico ministero sia meccanismi seri di verifica del tempo delle iscrizioni ex art. 335 c.p.p., sia di formulare l'imputazione entro pochi mesi dall'apprensione della notizia di reato e, infine di propiziare l'instaurazione del giudizio non oltre un anno dalla formulazione dell'imputazione, salvo che per i reati imprescrittibili, probabilmente sarebbe l'unica maniera per provare a curare gli effetti perversi di un gigantismo della parte pubblica, che si è consolidato a dispetto della ‘parità' fra le parti vagheggiata nella legge delega per l'emanazione del nuovo codice di procedura penale (art. 2, criterio direttivo n. 3, legge delega n. 81 del 1987) e costituzionalizzata con la riforma del cd. giusto processo (art. 111 comma 2 Cost.).
É congeniale allo Stato di diritto l'idea che sia la legge a stabilire quali siano le condizioni necessarie in assenza delle quali è proibito punire (43) e, sicuramente, in un'epoca che corre a velocità forsennata come quella contemporanea, i tempi della giustizia penale dovrebbero adeguarsi, prevedendo che il titolare dell'azione penale sia tenuto ad esercitarla entro limiti cronologici predeterminati dalla legge e assai brevi. Delimitare nel tempo i fatti di cui sono tenuti ad occuparsi gli uffici del pubblico ministero costituirebbe il più formidabile meccanismo di deflazione processuale. Certo, sarebbe una scommessa che potrebbe non sortire i risultati sperati. Al tempo stesso, però, occorre essere consapevoli del fatto che, finora, la mancata previsione di un'azione penale ‘a tempo' non ha garantito soddisfacente effettività alle istanze di punizione, ma ha solo giustificato il sistematico impiego della custodia cautelare in carcere al fine di offrire tempestiva soddisfazione alle istanze repressive correlate a fatti delittuosi che allarmano la pubblica opinione. È un serpente che si morde la coda e che la dottrina denuncia da più di quarant'anni (44): l'eccessiva durata dei procedimenti svuota e frustra l'effettività delle sanzioni penali e tale stato di cose induce, inevitabilmente, il sistema medesimo a recuperare rimedi sanzionatori altri, “anticipati e atipici” rispetto allo schema legale. Assai risalente nel tempo è la consapevolezza che la crisi della giustizia penale è sempre – anche se non solo – crisi del pubblico ministero, perché è quest'ultimo «a condizionare l'impostazione e, in definitiva, le sorti del fenomeno processuale e, anzitutto, il concreto atteggiarsi di chi, attraverso l'esercizio dell'azione, instaura il processo e ne pungola gli sviluppi» (45). Nondimeno, tale nodo spinoso è rimasto irrescindibile, probabilmente a causa dell'insuperabile problematicità politica e normativa (46) che caratterizza il Pubblico Ministero italiano: un unicum nella galassia dei possibili assetti istituzionali degli uffici della parte pubblica. La riforma appena approvata (cd. riforma Cartabia) prova a superare inefficienze e disfunzioni dell'ufficio di accusa instillando diversificate forme di “responsabilizzazione” di tale organo. Nel novero di queste va considerato anche il nuovo 344-bis c.p.p.: tale norma, prima che una regola volta a orientare solo il giudice, inducendolo a prevenire eventuali sacche d'inefficienza del giudizio d'impugnazione, rappresenta un tassello importante del complesso puzzle messo in campo dal legislatore per incrementare gli spazi di responsabilizzazione del pubblico ministero e, così, rimediare alle inefficienze riconducibili a questo ufficio. La prospettiva della possibile scure in appello o in Cassazione determinata esclusivamente dal mero passaggio del tempo responsabilizza l'ufficio del pubblico ministero a più livelli e per diverse ragioni. Innanzitutto, potrebbe incentivare atteggiamenti meno lassisti all'atto dell'esercizio dell'azione penale e potrebbe spingere i magistrati del pubblico ministero ad assumere, finalmente, il ruolo di organo di filtro delle notizie di reato da destinare a processo, concentrandosi esclusivamente su quelle la cui solidità probatoria lasci preconizzare un esito sfavorevole all'imputato (47) e incentivando le iniziative a favore della definizione del processo in forme alternative a quella ordinaria. Inoltre, all'introduzione della ‘prescrizione processuale' disciplinata nell'art. 344-bis c.p.p. potrebbe conseguire una più marcata responsabilizzazione degli uffici del pubblico ministero anche in relazione all'esercizio del potere d'impugnazione, finora contrassegnato dalla totale assenza di criteri legali alla cui stregua conformare lo scioglimento dell'alternativa fra acquiescenza e impugnazione. Invero, uno degli aspetti maggiormente critici di quest'ultima prerogativa della parte pubblica è costituito proprio dalla sua più assoluta discrezionalità. In tale quadro, la nuova previsione potrebbe orientare le determinazioni del pubblico ministero in ordine all'impugnazione, perché incentiva la parte pubblica a instaurare il successivo grado di giudizio esclusivamente quando la fondatezza dell'impugnazione appaia destinata a trovare agevole e tempestivo riconoscimento presso il relativo giudice. Per tali ragioni – sommessamente e mossi dall' ‘ottimismo della volontà' – pare plausibile guardare con favore alla nuova previsione, con l'auspicio che si tratti, però, solo di un punto di partenza, utile a farci familiarizzare con istituti estranei alla nostra tradizione giuridica, di cui il nostro sistema ha terribilmente bisogno per tagliare il cordone ombelicale che continua a tenerci legati ad attitudini culturali e prassi operative che né la nuova codificazione repubblicana né il nuovo testo dell'art. 111 Cost. sono riuscite ancora a soppiantare. (1) Per un commento a prima lettura della previsione v. G. L. Gatta, Prescrizione del reato e riforma della giustizia penale: gli emendamenti approvati dal governo su proposta della ministra Cartabia, in Sistema penale, 10 luglio 2021; D. Pulitanò, Riforma della prescrizione. Giochi linguistici e sostanza normativa, ivi, 19 luglio 2021; G. Spangher, La riforma Cartabia nel labirinto della politica, in Dir. pen. e proc., 2021, 1156 ss.; R. Bartoli, Verso la riforma Cartabia: senza rivoluzioni, con qualche compromesso, ma con visione e respiro, ivi, 1170. (2) Relazione finale e proposte di emendamenti al D.D.L. A.C. 2435, datata 24 maggio 2021, 55. (3) S. L. Emanuel, Criminal procedure, XXIX ed., Wolters Kluwer, 2012, 361. (4) Si rinvia allo Speedy trial Act of 1974 (as amended), 18 U.S.C. § 3162-3162, 3164. In argomento v. Kamisar- LaFave- J.H Israel – N. J. King- O.S. Kerr- E. Brensike Primus, Advanced Criminal Procedure. Cases, comments and questions, West, XIII ed., 2012, 93 ss.; 1177 ss. (5) J H. Israel – W. R. LaFave, Criminal Procedure. Constitutional limitations in a nutshell, Thomson West, 2006, 464. (6) J. Neville, Legalines. Criminal procedure for use with the Kamisar casebook, Thomson West, 2009, 232. (7) U.S. Supreme Court, Barker vs. Wingo, (1972). (8) La giurisprudenza federale considera quali ‘danni' da violazione del diritto allo speedy trial la lunghezza della detenzione a fini cautelari, oppure il perdurante stato d'angoscia determinato dalla sottoposizione al processo, o ancora il deterioramento della possibilità di presentare prove a propria difesa collegato al passaggio del tempo. (9)M. L. Di Bitonto, I soggetti, in A. Camon – C. Cesari – M. Daniele – M. L. Di Bitonto – D. Negri – P. P. Paulesu, Fondamenti di procedura penale, III ed., Cedam, 2021, 42. (10) Corte cost., 6 luglio 2021, n. 140. (11) G. Giostra, Il procedimento di sorveglianza nel sistema processuale penale. Dalle misure alternative alle sanzioni sostitutive, Giuffrè, 1983, 14 e p. 54; M. Pisani, voce Giurisdizione penale, in Enc. dir., vol. XIX, Giuffrè, 1970, 388; M. L. Di Bitonto, Profili dispositivi dell'accertamento penale, Giappichelli, 2004, 74 s. (12) A. Cavaliere, Le norme in materia di prescrizione, in C. Iasevoli (a cura di), La cd. legge ‘spazzacorrotti'. Croniche innovazioni tra diritto e processo penale, Cacucci, 2019, 168. (13) E Amodio, Eguaglianza delle parti nel processo, presunzione d'innocenza e ruolo del giudice istruttore, in Ind. pen., 1981, 242. (14) Per eventuali approfondimenti sulla prescrizione introdotta dalla l. n. 3 del 2019 si rinvia a A. Cavaliere, Le norme in materia di prescrizione, cit., 159 ss.; G. L. Gatta, Sulla riforma della prescrizione del reato, bloccata dopo il giudizio di primo grado, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2018, 345 ss.; S. Broschi, La nuova disciplina della prescrizione, in R. Orlandi – S. Seminara (a cura di), Una nuova legge contro la corruzione. Commento alla legge 9 gennaio 2019, n. 3, Giappichelli, 2019, 43 ss. (15) D. Vicoli, Riforma della prescrizione e ragionevole durata del processo, in R. Orlandi – S. Seminara (a cura di), Una nuova legge contro la corruzione, cit., 208. (16) A. Cavaliere, Le norme in materia di prescrizione, cit., 165. Contra esprime apprezzamento per la scelta legislativa di impedire che la declaratoria di estinzione del reato per prescrizione possa essere pronunciata nel giudizio di impugnazione G. L. Gatta, Sulla riforma della prescrizione del reato, cit., 2355. (17) A. Cavaliere, Le norme in materia di prescrizione, cit., 167. (18) Per un'efficace e persuasiva critica alla disciplina della prescrizione introdotta dalla l. n. 3 del 2019 v. anche D. Petrini, Ragionevolezza e cultura della prescrizione del reato, in Dir. pen. e proc., 2021, 366. Sulla necessità di introdurre rimedi a salvaguardia della ragionevole durata del processo, a mo' di compensazione della nuova prescrizione introdotta nel 2019, v. G. L. Gatta, Sulla riforma della prescrizione del reato, cit., 2356 ss., che riprende i suggerimenti di G. Giostra, Il problema della prescrizione penale: aspetti processuali, Giur. it., 2005, 2223 e F. Viganò, Riflessioni de lege lata e ferenda su prescrizione e tutela della ragionevole durata del processo, in Dir. pen. cont., 18 dicembre 2012, circa l'opportunità di adottare misure compensatorie sul tipo di quelle elaborate dalla giurisprudenza ed avallate dalla Corte costituzionale nel sistema tedesco, dove il giudice è legittimato a concedere attenuanti in considerazione del pregiudizio subito dall'imputato per l'irragionevole durata del processo. (19) A. Cavaliere, Le norme in materia di prescrizione, cit., 169. (20) S. Broschi, La nuova disciplina della prescrizione, in R. Orlandi – S. Seminara (a cura di), Una nuova legge contro la corruzione, cit., 63. (21) F. Palazzo, Corso di diritto penale. Parte generale, IV ed., Giappichelli, 2016, 626. V. anche L. Stortoni, Profili costituzionali della non punibilità, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1984, 661; A. Cavaliere, Le norme in materia di prescrizione, cit., 168. (22) D. Vicoli, Riforma della prescrizione, cit., 214; conf. G. Giunta – D. Micheletti, Tempori cedere. Prescrizione del reato e funzione della pena nello scenario della ragionevole durata del processo, Giappichelli, 2003, 47. (23) In questo senso v. D. Pulitanò, Riforma della prescrizione, cit., 3 s. (24) D. Pulitanò, loc. ult. cit. (25) V. Grevi, in Presunzione di non colpevolezza, garanzie dell'imputato ed efficienza del processo nel sistema costituzionale, AA.VV., Presunzione di non colpevolezza e disciplina delle impugnazioni, Giuffrè, 2000, 39. (26) A favore della necessità di distinguere fra dimensione sostanziale e dimensione processuale della prescrizione cfr. V. Grevi, Prescrizione del reato ed effettività del processo tra sistema delle impugnazioni e prospettive di riforma, in AA.VV., Sistema sanzionatorio, effettività e certezza della pena, in ricordo di Adolfo Beria di Argentine, Giuffrè, 2002, 221 s.; G. Giostra, Il problema della prescrizione penale, cit., 2221; F. Giunta, Prescrizione del reato e tempi della giustizia, in AA.VV., Accertamento del fatto, alternative al processo, alternative nel processo, Giuffrè, 2007, 21 s., 219 ss.; G. Ubertis, Prescrizione del reato e prescrizione dell'azione penale, in AA.VV., Tempi irragionevoli della giustizia penale. Alla ricerca di una effettiva speditezza processuale, Giuffrè, 2013, 41 ss. V. anche O. Mazza, Il garantismo al tempo del giusto processo, Giuffrè, 2011, 208 ss., che suggerisce l'introduzione di una stravagante prescrizione processuale in executivis, alla cui integrazione possono conseguire o l'ineseguibilità del giudicato di condanna, o la riduzione della pena in concreto irrogata, o l'indennizzo economico attraverso l'integrale rimborso delle spese legali sostenute, o la mera declaratoria della intervenuta prescrizione. (27) Il riferimento è al disegno di legge c.d. ex Cirielli, vale a dire al d.d.l. n. 3247-B approvato dal Senato il 29 novembre 2005 e divenuto l. 5 dicembre 2005 n. 251, del quale si è correttamente sottolineata «la sgradevole impressione di una legge concepita ed approvata con l'occhio a certe particolari situazioni giudiziarie», vale a dire a quei procedimenti penali in cui all'epoca risultava coinvolto come imputato l'allora Presidente del Consiglio. Al riguardo v., per tutti, V. Grevi, Intervento, in AA.VV., Accertamento del fatto, cit., 317 ss., cui si riferisce la citazione riferita prima tra virgolette. Per un'aspra critica al d.d.l. da cui è scaturita la l. n. 251/2005 v. G. Marinucci, La prescrizione riformata ovvero dell'abolizione del diritto penale, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2004, 976. (28) Per una critica alle modifiche della disciplina della prescrizione del reato introdotto con la l. 5 dicembre 2005 n. 251 v., senza pretesa di esaustività v.: C. F. Grosso, Cinque anni di leggi penali: molte riforme (talune contestabili), nessun disegno organico, in Dir. pen. e proc., 2006, 535 ss.; G. Marinucci, Recidiva e prescrizione dei reati: le novità della legge ex-Cirielli (I) Certezza d'impunità per i reati gravi e “mano dura” per i tossicodipendenti, ivi, 2006, 170 ss.; A. Cavaliere, Le norme in materia di prescrizione, cit., 172 s. (29) G. Giostra, loc. ult. cit. (30) Per una panoramica esauriente delle varie proposte si rinvia a C. Marinelli, Ragionevole durata e prescrizione del processo penale, Giappichelli, 2016, 429 ss. (31) Per una disamina critica della prescrizione del processo di cui all'art. 2 comma 1.1. bozza Commissione Riccio v. M. Menna, Prescrizione del reato senza interruzioni, non “prescrizione del processo”, in Dir. pen. e proc., 2008, 557 ss. (32) G. Ubertis, Prescrizione del reato, cit., 45 ss. In senso contrario, però, V. Grevi, Prescrizione del reato ed effettività del processo, cit., 190; G. Giostra, Il problema della prescrizione penale, cit., 2222. Nel senso che anche la dimensione sostanziale della prescrizione – e dunque la prescrizione del reato – costituisca una garanzia a salvaguardia del massimo contenimento possibile della soggezione della persona a un procedimento penale v. A. Cavaliere, Le norme in materia di prescrizione, cit., 169; F. Mantovani, Diritto penale. Parte generale, X ed., Giuffrè, 2017, 800; F. Palazzo, Corso di diritto penale, cit., 627; G. Giunta – D. Micheletti, Tempori cedere. Prescrizione del reato, cit., 44 ss. (33) Si rinvia, volendo, a M.L Di Bitonto, Le indagini e l'udienza preliminare, in G. Lattanzi (a cura di), Reati e responsabilità degli enti. Guida al d. lgs. 8 giugno 2001, n. 231, II ed., Giuffrè, 2010, 628. (34) Sul peculiare atteggiarsi del tempo nel sistema di diritto e procedura penale degli enti v. E. Scaroina, La societas al cospetto del tempo: il regime della prescrizione dell'illecito amministrativo dipendente da reato nel d. lg. n. 231 del 2001, in Cass. pen., 2013, 2108 ss.; J. Saccomani, La disciplina sulla prescrizione dell'illecito amministrativo dell'ente di cui al d. lg. n. 231/2001 non presenta profili di illegittimità costituzionale, ivi, 2017, 591 ss. (35) E. Amodio, Riforme urgenti per il recupero della celerità processuale, in AA.VV., Tempi irragionevoli, cit., 6. Per una rassegna degli Autori che si sono espressi in senso contrario alla possibile introduzione di tempi predeterminati del processo si rinvia, senza pretesa di esaustività a: M. G. Aimonetto, La «durata ragionevole» del processo penale, Giappichelli, 1997, 131 e 159; M. Bargis, Interlocuzione su ‘La prescrizione del reato e i «tempi» della giustizia penale', in AA.VV., Accertamento del fatto, cit., 240; G. Giostra, Il problema della prescrizione penale, cit., 2222 ss. (36) F. Cordero, Procedura penale, IX ed., Giuffrè, 2012, 1296 s.; M. Pisani, La celerità del processo penale italiano, in Ind. pen., 1995, 257. Conformemente v. da ultimo M. Daniele – P. Ferrua – R. Orlandi – A. Scalfati – G. Spangher, A proposito di prescrizione del reato e improcedibilità, in Sistema penale, 27 luglio e 30 agosto 2021. (37) Si veda, ad esempio, una risalente diagnosi del ‘male', risalente ai principi degli anni ottanta del secolo scorso: V. Grevi, Il problema della lentezza dei procedimenti penali: cause, rimedi e prospettive di riforma, in Giust. pen., 1981, III, 585 ss. (38) V. infra, nota 44. (39) Stigmatizza la diffusione di questo orientamento esegetico, inaccettabile anche prima dell'introduzione in Costituzione delle regole del cd. ‘giusto processo', M. Nobili, “Prove a difesa” e investigazioni di parte nell'attuale assetto delle indagini preliminari, in AA.VV., Libertà personale e ricerca della prova nell'attuale assetto delle indagini preliminari, Giuffrè, 1995, 135. (40) D. Vicoli, Riforma della prescrizione, cit., 221. (41) Si veda al riguardo E. Amodio, Ragionevole durata del processo, abuse of process e nuove esigenze di tutela dell'imputato, in Dir. pen. e proc., 2003, 799 ss. (42) V. retro, nt. n. 25. (43) L. Ferrajoli, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, Laterza, 1996, 68. (44) Per tutti v. M. Nobili, La disciplina costituzionale del processo: appunti di proc. pen. del corso di lezioni, Zanichelli, 1976, 44 e 249; Id., La procedura penale tra «dommatica» e «sociologia»: significato politico di una vecchia polemica, in La questione criminale, 1977, 83 ss. Conformemente v. anche V. Grevi, Custodia preventiva e difesa sociale negli itinerari politico-legislativi dell'emergenza, in Pol. dir., 1982, p. 237 ss. (45) G. Conso, Introduzione alla riforma, in G. Conso (a cura di), Pubblico ministero e accusa penale. Problemi e prospettive di riforma, Zanichelli, 1979, XII. (46) Come noto, i principi costituzionali dedicati alla magistratura si prestano a interpretazioni antitetiche in relazione alla figura del pubblico ministero: in questo senso v. A. Pizzorusso, Per un collegamento fra organi costituzionali politici e pubblico ministero, in Pubblico ministero e accusa penale, cit., p. 30 ss.; M. Chiavario, Il pubblico ministero organo di giustizia?, in Riv. it. dir. proc. pen., 1971, 734 ss. Tale organo, infatti, «gode delle garanzie stabilite nei suoi riguardi dalle norme sull'ordinamento giudiziario» (art. 107 comma 4 Cost.), a differenza del giudice, che è soggetto soltanto alla legge (art. 101 comma 2 Cost.). Per alcuni la Costituzione consacrerebbe l'indipendenza del pubblico ministero esclusivamente sotto il profilo esterno – e quindi fra i diversi uffici del pubblico ministero – e non l'indipendenza del singolo magistrato che svolge la funzione di accusa, dovendosi ammettere l'organizzazione gerarchica all'interno degli uffici di Procura (così A. Pizzorusso, voce Organi giudiziari, in Enc. dir., vol. XXXI, Giuffrè, 1981, 100 ss.). Secondo altri, invece, ad essere garantita dalla Carta fondamentale è non solo l'indipendenza ‘esterna' dell'ufficio di accusa rispetto a ogni altro potere, ma anche quella del singolo magistrato requirente rispetto al titolare dell'ufficio della Procura (per tutti, v. M. Nobili, Accusa e burocrazia. Profilo storico-costituzionale, in Pubblico ministero e accusa penale, cit., 125). Altri ancora ritengono conforme a Costituzione l'eventuale previsione di un rapporto gerarchico dell'ufficio del pubblico ministero risalente al vertice dell'esecutivo (in questo senso F. Cordero, Procedura penale, 9a ed., Giuffrè, 2012, 212 s.; O. Dominioni, Per un collegamento fra ministro della giustizia e pubblico ministero, in Pubblico ministero e accusa penale, cit., 67 ss.; G. Foschini, Sistema del diritto processuale penale, 2a ed., vol. I, Giuffrè, 1965, 256 ss.; G. Ubertis, Azione penale e sovranità popolare, in Riv. it. dir. proc. pen., 1975, 1202 s.; A. Gaito, Natura, caratteristiche e funzioni del pubblico ministero. Premesse per una discussione, in Accusa penale e ruolo del pubblico ministero, a cura di A. Gaito, Jovene, 1991, 19.). Sullo sfondo di queste opinioni discordanti, il nostro sistema ha progressivamente emancipato il pubblico ministero dalla risalente impostazione burocratica e gerarchica del relativo ufficio, tendendo alla sostanziale equiparazione tra magistrati giudicanti e requirenti. Si è così privilegiata una concezione dell'indipendenza del pubblico ministero imperniata sulla tendenziale assenza di qualsivoglia controllo sull'attività dei singoli magistrati che esercitano le relative funzioni, che ha per lo più generato inefficienze e disfunzioni (si veda al riguardo G. De Luca, Controlli extra-processuali ed endo-processuali nell'attività inquirente del pubblico ministero, in Accusa penale, cit., 217 ss.; nonché, diffusamente, G. Di Federico, L'indipendenza del pubblico ministero e il principio democratico della responsabilità in Italia: l'analisi di un caso deviante in prospettiva comparatistica, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1998, 230 ss.). (47) Risale ai primi mesi di vigenza del nuovo codice di procedura penale l'affermazione, successivamente contraddetta dalla prassi, secondo cui il pubblico ministero ha «il dovere di evitare l'instaurazione di processi destinati ex ante a sfociare in una sentenza assolutoria ai sensi dell'art. 530 comma 2 c.p.p.»: in questo senso V. Grevi, Archiviazione per ‘inidoneità probatoria' ed obbligatorietà dell'azione penale, in AA.VV., Il nuovo processo penale dalla codificazione all'attuazione, Giuffrè, 1991, 99.
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