Composizione negoziata: misure protettive e cautelari e sospensione degli obblighi ex artt. 2446 e 2447 c.c.

Fernando Platania
07 Ottobre 2021

L'Autore procede ad un dettagliato esame della disciplina sostanziale e processuale delle misure protettive e cautelari che possono essere richieste nell'ambito della composizione negoziata introdotta con il D.L. 118/2021 (attualmente in corso di conversione), sottolineandone gli aspetti procedurali più critici e le lacune normative in ordine al complessivo sistema di informazione e tutela dei creditori. Vengono proposte alcune soluzioni idonee a superare le possibili incertezze interpretative e vengono esaminate anche le disposizioni sulla sospensione degli obblighi di ricapitalizzazione e quelle previste per i gruppi e per le imprese non fallibili.
Premessa

Con il recente decreto-legge 24 agosto 2021, n. 118 è stato introdotto l'istituto della composizione negoziata per la soluzione della crisi di impresa che dovrebbe, almeno nelle intenzioni del legislatore, favorire, attraverso uno strumento quasi interamente volontaristico e con l'ausilio di un esperto indipendente, scelto da una speciale commissione, il raggiungimento di un accordo tra l'imprenditore ed i creditori. L'istituto, che condivide con la composizione assistita, introdotta con il codice della crisi, la finalità di trovare sbocco alla crisi attraverso l'adesione dei creditori ad una soluzione alla quale anch'essi hanno contribuito attivamente, non manca di affrontare il nodo dell'adozione di strumenti diretti a proteggere il patrimonio dell'imprenditore in crisi nel tempo necessario per la conclusione delle trattative (sulle significative differenze rispetto alle misure di allerta del codice della crisi e sui generali profili critici della riforma: F. Lamanna, Nuove misure sulla crisi d'impresa del D.L. 118/2021: Penelope disfa il codice della crisi recitando il “de profundis” per il sistema d'allerta, in questo portale, 25 agosto 2021; F. Cesare, La nuova composizione negoziata della crisi e il concordato liquidatorio semplificato, in questo portale, 19 agosto 2021; S. Morri, La composizione negoziata della crisi di cui al D.L. 118/2021: un rapido quadro ed alcune riflessioni critiche, in questo portale, 24 agosto 2021; D. Galletti, Breve storia di una (contro)riforma “annunciata”, in questo portale, 1 settembre 2021; E. Ceccherini, Nuove esigenze di negoziazione e risoluzione della crisi, in questo portale, 9 settembre 2021; R. Guidotti, La crisi d'impresa nell'era Draghi: la composizione negoziata ed il concordato semplificato, in Ristrutturazioni Aziendali ilcaso.it, 8 settembre 2021).

La predisposizione di strumenti di tutela nella fase che precede l'obbligatorietà dell'accordo (da raggiungere attraverso un contratto tra le parti) rappresenta, infatti, un passaggio fondamentale per evitare che taluno dei creditori, nel tempo occorrente per lo svolgimento delle trattative, prevedibilmente laboriose, possa avvantaggiarsi rispetto agli altri nella distribuzione del patrimonio del debitore e, conseguentemente, vanificare ogni prospettiva di ordinata gestione della crisi.

Tuttavia, la scelta di affidare la composizione ad uno strumento solo privatistico comporta necessariamente delle deviazioni dai principi elaborati nel codice della crisi o nella attuale legge fallimentare tanto che il legislatore, anche per marcare la distanza, ha preferito farne oggetto di uno specifico intervento normativo autonomo rispetto all'attuale legge fallimentare od al codice della crisi la cui entrata in vigore è stata ulteriormente posticipata soprattutto con riferimento alle misure di allerta ed alla composizione assistita.

Anche la vigente legge fallimentare, comunque, regola la possibilità di emettere misure di protezione del patrimonio del debitore nell'ambito delle varie procedure previste.

L'art. 15 consente, infatti, nell'ambito della istruttoria prefallimentare, l'emanazione di provvedimenti cautelari o conservativi a tutela del patrimonio o dell'impresa; effetti protettivi del patrimonio (divieto di inizio o prosecuzione di azioni esecutive o cautelari sul patrimonio del debitore) sono automaticamente previsti per effetto della pubblicazione nel Registro delle imprese del ricorso per omologazione di un concordato preventivo (anche se con riserva di presentazione del piano) e di accordo di ristrutturazione dei debiti (anche nella fase delle trattative); nel corso del concordato preventivo possono essere richiesti provvedimenti di sospensione o di scioglimento dai contratti pendenti aventi finalità sostanzialmente protettiva degli interessi del debitore e che possono favorire il felice esito della procedura; la sospensione degli obblighi di ricapitalizzazione consegue automaticamente alla presentazione della domanda di concordato.

Misure di protezione e cautelari sono previste pure dal codice della crisi che le definisce e disciplina sotto l'aspetto sostanziale e processuale.

La domanda dell'imprenditore

L'art 6 del decreto-legge dispone che l'imprenditore, con l'istanza di nomina dell'esperto o anche successivamente, possa chiedere l'applicazione di misure protettive del patrimonio.

L'istanza di applicazione delle misure è pubblicata nel Registro delle imprese unitamente all'accettazione dell'esperto e da quel momento i creditori non possono acquisire diritti di prelazione se non concordati con l'imprenditore (e salvo, sempre, il dissenso dell'esperto ai sensi dell'art. 9, commi 3 e 4), né possono iniziare o proseguire azioni cautelari sul suo patrimonio e sui beni e diritti sui quali viene esercitata l'attività di impresa; tuttavia non sono inibiti i pagamenti (che, com'è noto, sono, invece, vietati nel concordato preventivo, quale corollario del divieto di azioni esecutive).

Alla presentazione dell'istanza di adozione di misure protettive consegue anche il divieto di emanazione della sentenza dichiarativa di fallimento e, ma solo se espressamente richiesto, la sospensione di alcune norme sulla ricapitalizzazione della società ai sensi degli artt. 2446 e 2447 c.c.

Inoltre, l'imprenditore, con la richiesta di conferma o modifica delle misure protettive da presentarsi al Tribunale, può altresì domandare l'adozione di provvedimenti cautelari necessari a condurre a termine le trattative.

Le misure protettive e cautelari. Tipicità ed atipicità

Il fatto che il nuovo istituto non sia inserito organicamente nella legge fallimentare attuale o nel codice della crisi non impedisce di ritenere applicabili le definizioni di misure cautelari e protettive contenute in quest'ultimo.

La stessa Relazione illustrativa della legge di conversione del decreto legge (in Atti Senato 2371, art. 6) dà espressamente atto che “Nella normativa vigente, l'adozione di misure protettive per le situazioni di crisi d'impresa sostanzialmente consiste nella prevenzione di azioni da parte dei creditori che potrebbero compromettere il buon esito dei tentativi di soluzione positiva per mezzo di trattative, ed è rimessa al giudice.

Ai sensi dell'art. 2, lett. p) del Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza si definiscono «misure protettive» le misure temporanee disposte dal giudice competente per evitare che determinate azioni dei creditori possano pregiudicare, sin dalla fase delle trattative, il buon esito delle iniziative assunte per la regolazione della crisi o dell'insolvenza. Il suddetto Codice distingue le "misure protettive" dalle "misure cautelari"; queste ultime, stando alla lettera q) del medesimo articolo 2, sono i provvedimenti emessi dal giudice competente a tutela del patrimonio o dell'impresa del debitore, che appaiano secondo le circostanze più idonei ad assicurare provvisoriamente gli effetti delle procedure di regolazione della crisi o dell'insolvenza”.

La prima domanda da porsi è se le misure protettive che l'imprenditore può chiedere siano solo quelle che operano automaticamente ai sensi dell'art. 5 ovvero se l'imprenditore possa anche domandare l'adozione, e poi la conferma, di strumenti diversi ed ulteriori rispetto a quelli già previsti ordinariamente.

Innanzitutto, occorre osservare che l'area di protezione disegnata dal legislatore nel decreto-legge risulta già più ampia di quella oggi delineata dai corrispondenti artt. 168 e 182-bis, comma 3, l.f. ed anche 54, comma 2, CCI; infatti, il divieto di prosecuzione o di inizio di azioni esecutive e cautelari sul patrimonio del debitore, previsto dalla legge fallimentare (oggi effetto automatico della domanda di omologazione di concordato preventivo e di accordo di ristrutturazione dei debiti mentre solo a richiesta nel CCI) non si estende ai beni ed ai diritti non di proprietà del debitore; il legislatore del decreto-legge ha invece specificato che il divieto di azioni esecutive e cautelari si estenda a tutti i beni od ai diritti per mezzo dei quali viene esercitata l'attività di impresa, e quindi anche a quelli non di proprietà dell'imprenditore; rientrano in questa categoria, pertanto, i beni concessi in leasing, in locazione, o in comodato.

Nella sostanza risultano inibite, non solo, le ordinarie azioni esecutive e cautelari di natura giurisdizionale sul patrimonio del debitore (secondo una logica del tutto tradizionale), ma anche, azioni, giurisdizionali e non, che abbiano per effetto quello di privare l'uso dei beni utilizzati a qualsiasi titolo dall'imprenditore nell'esercizio della sua attività.

E' anche ulteriormente limitata l'autotutela per il creditore; per l'art. 6, comma 6, infatti, i creditori interessati dalle misure protettive non possono, unilateralmente, rifiutare l'adempimento dei contratti pendenti o provocarne la risoluzione, né possono anticipare la scadenza o modificarli in danno dell'imprenditore per il solo fatto del mancato pagamento dei loro crediti anteriori. Poiché tutti i creditori dell'imprenditore sono indistintamente soggetti al divieto di azioni esecutive e cautelari si deve ritenere che a tutti sia esteso il divieto di autotutela (ma sulla questione, ad altri fini, si veda dopo).

Si tratta di un notevole ampliamento del sistema protettivo del debitore che non ha riscontro nell'attuale legge fallimentare né nel codice della crisi (per una disamina della questione vedasi G. Petrassi, Divieto di azioni esecutive e risoluzione del contratto di locazione, in questo portale, 27 novembre 2017; in genere sugli effetti delle misure protettive nel codice della Crisi, A. Dimundo, Effetti del concordato preventivo per i creditori nel CCI, in Fall., 2021, 1033; F. Platania, Le misure protettive e cautelari nel Codice della crisi, in questo portale, 26 febbraio 2019).

Tornando alla questione se l'imprenditore possa chiedere (e rendere nel frattempo provvisoriamente esecutive) misure protettive ulteriori rispetto a quelle già indicate espressamente dal legislatore, il decreto risulta ambiguo; l'art. 6 dispone, infatti, che il debitore possa chiedere misure protettive; ma l'art. 7 permette al Tribunale solo di confermare o modificare le misure protettive, ma non di concederne altre (laddove, invece, il Tribunale è chiamato ad emettere provvedimenti cautelari occorrenti per condurre le trattative).

Orbene, considerato che gli effetti di inibizione di azioni esecutive, di divieto di pronuncia di fallimento, di divieto di rifiuto di adempimento da parte dei creditori, ed anche la sospensione degli obblighi di ricapitalizzazione, conseguono per effetto della sola richiesta di adozione di misure protettive, mentre le misure protettive come definite dal codice della crisi (definizione alla quale lo stesso legislatore del decreto legge fa riferimento) sono tutte quelle che genericamente sono dirette ad evitare azioni dei creditori che possono pregiudicare il buon esito delle iniziative assunte per il superamento della crisi, sussistono spazi per richiedere altre misure rispetto a quelle già previste direttamente dal decreto legge (come, ad esempio, divieto di azioni esecutive sul patrimonio dei soci garanti della società debitrice se è ipotizzato un loro apporto idoneo a superare la crisi, divieto di escussione di contratti autonomi di garanzia dipendenti da contratti di appalto in corso di esecuzione, ecc.).

La questione, com'è evidente, è connessa al fatto che le misure protettive e cautelari sono del tutto slegate rispetto ai diritti che l'imprenditore può vantare, essendo, invece, strettamente funzionali alle specifiche finalità perseguite dall'imprenditore con l'istanza, e vanno conformate alla sua struttura giuridica o aziendale, alle proposte avanzate, ed anche, all'andamento e sviluppo delle trattative e, perfino, al concreto atteggiamento dei creditori.

I poteri del Tribunale. Alcuni problemi

L'art. 6 disciplina la fase giurisdizionale.

Sebbene tutta la procedura della composizione negoziata sia caratterizzata volutamente da una connotazione assolutamente privatistica, evidenti esigenze di tutela dei terzi imponevano che i provvedimenti maggiormente incidenti sulla sfera giuridica dei creditori fossero emessi dall'autorità giudiziaria o almeno da essa controllati e convalidati previa instaurazione di un contraddittorio con i controinteressati.

La natura giurisdizionale del procedimento delineato dall'art. 7 impone l'assistenza del debitore da parte di un difensore abilitato, ancorchè la presentazione dell'istanza possa essere effettuata autonomamente dal debitore. Pertanto, la richiesta di conferma e modifica delle misure protettive, da depositare presso il Tribunale competente lo stesso giorno della pubblicazione nel Registro delle imprese, deve essere presentata da un difensore abilitato. Invece, l'imprenditore deve pubblicare nel Registro delle imprese, nel termine perentorio di trenta giorni dal deposito dell'istanza di applicazione di misure protettive, una nota contenente il numero di ruolo del procedimento nel frattempo instaurato (e naturalmente l'indicazione dell'A.G. presso la quale il procedimento è stato instaurato).

Alla domanda devono essere allegati diversi documenti analiticamente contemplati nell'art. 7, tra cui i bilanci degli ultimi tre anni, un elenco dei creditori, un piano finanziario per i successivi sei mesi, una dichiarazione autocertificativa sulla possibilità di risanamento dell'impresa.

Il Tribunale (del luogo della sede dell'imprenditore) deve fissare entro dieci giorni l'udienza di comparizione delle parti, che, però, può tenersi anche successivamente, con l'effetto che le misure protettive possono avere una durata provvisoria, prima del provvedimento dell'autorità giudiziaria, non indifferente. Se, invece, il Tribunale accerta che la domanda non è stata presentata lo stesso giorno del deposito dell'istanza presso l'ufficio del Registro dichiara l'inefficacia delle misure protettive senza neppure fissare l'udienza.

Gli effetti della presentazione della domanda di applicazione delle misure protettive cessano di diritto anche se il Tribunale non provvede alla fissazione dell'udienza nel termine di dieci giorni (art. 7, comma 3, ultimo periodo).

La norma è assai singolare ed anche generica perché fa dipendere la cessazione degli effetti delle misure protettive da un comportamento indipendente dalla sfera di controllo del debitore; inoltre non è specificato se, malgrado il superamento del termine (eccezionalmente perentorio per il giudice), il Tribunale debba pur sempre fissare l'udienza di trattazione per l'eventuale valutazione delle misure; non è neppure chiaro come i terzi interessati possano venire tempestivamente a conoscenza della cessazione degli effetti delle misure protettive (che, come già ricordato, conseguono automaticamente alla sola presentazione della istanza di applicazione delle misure protettive) per effetto della mancata fissazione dell'udienza.

A tali quesiti si può solo tentare di dare una risposta.

Orbene, se la mancata fissazione dell'udienza nel termine di dieci giorni può effettivamente giustificare la decadenza delle misure che dipendono sostanzialmente da una scelta unilaterale del debitore senza che nemmeno si sia stata fissata l'udienza di convalida, meno giustificata (e probabilmente incostituzionale) sarebbe ipotizzare la caducazione della stessa istanza per effetto della sola inerzia del Tribunale. Un'interpretazione costituzionalmente orientata impone pertanto di ritenere che, a prescindere dalla caducazione delle misure protettive, rimanga, comunque, l'obbligo del giudice di fissare l'udienza per decidere sull'emanazione/ convalida delle stesse; inoltre la parte potrebbe avere richiesto anche misure cautelari che ovviamente operano solo dopo la loro emanazione e sulle quali la mancata tempestiva fissazione dell'udienza non risulta rilevante. Se così non fosse, si verificherebbe una sorta di singolare “non liquet” che precluderebbe l'esercizio dei diritti costituzionali di tutela giurisdizionale del debitore (sull'intrinseca connessione tra difesa dei diritti e tutela cautelare , Corte Cost. 23 luglio 2010, n. 281, in tema di sospensione degli effetti delle cartelle per il recupero delle quote latte; sulla stessa linea Corte Cost. 17 giugno 2010, n. 217 relativamente alla possibilità di sospensione degli effetti della sentenza della Commissione tributaria regionale in caso di pericolo di danno ed irreparabile conseguente all'esecuzione della sentenza oggetto di ricorso in cassazione).

Occorre ulteriormente osservare che nel sistema così come delineato dal decreto legge i terzi interessati non possono venire a conoscenza della caducazione delle misure protettive per effetto della sola mancata fissazione dell'udienza, posto che una volta iscritto nel Registro delle imprese il numero di ruolo (che è attribuito immediatamente dopo il deposito del ricorso sulla piattaforma informatica), il debitore ha esaurito i suoi doveri pubblicitari.

Neppure l'ufficio del Registro può venire a conoscenza dell'intempestiva fissazione dell'udienza per procedere alla cancellazione dell'istanza (come previsto dall'art. 7, comma 1, ultima parte per il diverso caso di intempestivo deposito del ricorso innanzi al Tribunale) non essendo prevista alcuna forma di interazione tra il Tribunale e l'ufficio del Registro.

Il solo modo per i terzi di venire a conoscenza della caducazione potrebbe essere la consultazione del fascicolo telematico identificato dal numero di ruolo; tuttavia, poiché l'iscrizione del numero di ruolo può avvenire entro trenta giorni dalla presentazione della domanda, i terzi potrebbero, a tutto concedere, venire a conoscenza della caducazione degli effetti con circa venti giorni di ritardo. Non si può poi dimenticare che la visibilità del fascicolo telematico da parte di soggetti che non siano parti del procedimento è fortemente limitata, sicchè si può dubitare che i creditori possano addirittura venire a conoscenza dell'eventualmente intempestiva fissazione dell'udienza.

Il meccanismo, quindi, non sembra destinato a funzionare adeguatamente; forse sarebbe meglio congegnato se venisse disposto l'obbligo per l'imprenditore di depositare, nel Registro delle imprese, entro un termine breve, il provvedimento di fissazione dell'udienza e non solo il numero di ruolo (e ciò anche per favorire il contraddittorio, come si avrà modo di specificare in seguito) al cui mancato ottemperamento seguirebbe, d'ufficio, la cancellazione dell'istanza dal Registro delle imprese se risultasse emesso oltre il decimo giorno dal deposito. Anche per evitare incertezze (scadenza di sabato, o in un giorno festivo diverso dalla domenica, calcolo dei termini, ecc.) ed errori forieri di gravi conseguenze, dovrebbe essere prevista l'emanazione di uno specifico provvedimento di decadenza del Tribunale a somiglianza di quanto previsto per il caso di intempestivo deposito dell'istanza ( cui appunto far seguire, dopo la sua trasmissione all'ufficio del Registro, la cancellazione dell'iscrizione).

Nella norma sembra esservi anche un'altra importante lacuna: non è espressamente prevista la pubblicazione nel Registro delle imprese dei provvedimenti di merito adottati dal Tribunale.

In apparenza viene disposta (art. 7, comma 7, ultima parte) solo la pubblicazione nel Registro delle imprese del provvedimento del Tribunale che dichiara (ai sensi dell'art. 7, comma 3, III periodo) l'inefficacia delle misure protettive per intempestiva proposizione della domanda. Sebbene non sia espressamente previsto, si deve ritenere, innanzitutto, che questo provvedimento debba essere trasmesso senza indugio a cura della Cancelleria del Tribunale al Registro delle imprese per la successiva cancellazione dell'istanza proposta dal debitore.

L'argomento, in linea generale, si riallaccia alla questione dell'iscrizione di atti e provvedimenti dei quali non sia espressamente prevista la pubblicità.

In linea di massima va preferito l'orientamento che, interpretando correttamente ed evolutivamente il principio di tassatività, impone l'iscrizione di tutti i provvedimenti che abbiano influenza modificatrice degli atti già iscritti; poiché l'istanza di applicazione delle misure protettive deve essere iscritta, dovrebbero essere conseguentemente iscritti tutti i provvedimenti ed atti che abbiano influenza sull'iscrizione originariamente disposta sia confermandola sia determinandone una modifica di qualsiasi natura.

Ne consegue che, come deve essere disposta la cancellazione dell'istanza in caso di mancato od intempestivo deposito della domanda di conferma delle misure cautelari, dovrebbero ugualmente essere iscritti tutti i provvedimenti emessi dal Tribunale sia in sede di convalida, sia quelli emessi, successivamente, su istanza dei creditori o dell'imprenditore ai sensi dell'art. 7, commi 5 e 6.

Le questioni processuali; il contraddittorio

Il decreto non individua esattamente chi siano le parti del procedimento diverse dal debitore; l'esperto al quale va notificato il ricorso, certamente non è parte processuale (e non deve, quindi, costituirsi né essere munito di difensore per essere ascoltato).

Per quanto riguarda i creditori, l'art. 7, comma 4, seconda parte, prevede che debbano essere sentiti i soggetti i cui diritti siano “incisi” dai provvedimenti richiesti. La formula usata dal legislatore è diversa da quella utilizzata, nell'art. 6, comma 5, nella quale si fa riferimento ai creditori “interessati” per indicare i soggetti che non possono esercitare forme di autotutela contrattuale. Non è neppure chiaro se la partecipazione di tali soggetti sia disposta a semplici fini istruttori (senza l'assunzione del ruolo di parte processuale, quindi) ovvero quali controinteressati che assumono la veste di parte.

La stessa formula usata dal legislatore è, ancora una volta, ambigua; infatti, le misure protettive di fatto “incidono” sui diritti di tutti i creditori posto che producono il divieto generalizzato di iniziare o proseguire misure esecutive o cautelari; tuttavia, poiché sarebbe ovviamente incompatibile con la necessaria celerità e semplicità del procedimento ipotizzare la partecipazione di tutti i creditori, e valorizzando la diversa espressione impiegata dal legislatore nell'art. 7, comma 4, rispetto a quella dell'art. 6, comma 5, risulta possibile limitare l'instaurazione del contraddittorio ai soli creditori che, per effetto delle misure protettive, abbiano subìto il blocco delle procedure esecutive e cautelari già da essi promosse ed i creditori che abbiano presentato istanza di dichiarazione di fallimento che devono essere indicati dal debitore ai sensi dell'art. 6, comma 2, nonché ovviamente i soggetti nei cui confronti siano specificamente chieste misure cautelari e protettive.

Poiché la disposizione impone l'audizione dei creditori controinteressati, sembra preferibile ritenere che la loro partecipazione attribuisca ad essi il ruolo di parte processuale (con conseguente necessaria difesa tecnica secondo quando già oggi accade ai sensi dell'art. 169 bis L.F. relativamente ai soggetti che hanno stipulato contratti che l'imprenditore intende sciogliere o sospendere). Resta salva la facoltà del Tribunale di disporre la notifica del provvedimento anche ai principali creditori che, infatti, devono essere analiticamente indicati nel ricorso ai sensi dell'art. 7, comma 2, lett. c) e che, per interloquire, dovrebbero anch'essi costituirsi a mezzo di difesa tecnica (anche in ossequio alla disciplina seguita dal CCI all'art. 9, comma 2).

La mancata notifica del ricorso e del decreto di fissazione di udienza agli indicati soggetti dovrebbe comportare, pertanto, l'applicazione delle disposizioni sull'integrazione del contraddittorio, poiché senza la loro convocazione il Tribunale non potrebbe pronunciarsi.

Non si può escludere, tuttavia, che il Tribunale possa ascoltare a fini istruttori i creditori che si presentassero comunque in udienza, se la loro audizione fosse ritenuta utile per valutare le richieste del debitore in ossequio alla completa deformalizzazione della procedura disposta dall'art. 7, comma 4.

Anche per tale ragione e per permettere al maggior numero di creditori di assistere all'udienza, sarebbe opportuno che fosse disposta la pubblicazione del provvedimento di fissazione di udienza nel Registro delle imprese, come in precedenza già accennato (tanto più che in caso di convocazione rapida delle parti, la pubblicazione del numero di ruolo del procedimento, da effettuarsi entro trenta giorni dal deposito dell'istanza, potrebbe avvenire addirittura dopo la conclusione dell'udienza e perfino dopo l'emanazione dei provvedimenti).

Il ricorso

Altra questione incerta è rappresentata dalla possibilità per il Tribunale di concedere misure protettive diverse da quelle già indicate nell'istanza.

L'opzione, rigorosamente privatistica che pervade la norma, dovrebbe portare ad escludere che il Tribunale possa concedere misure diverse da quelle espressamente richieste, potendole solo confermare o modificare (e naturalmente revocare).

Non è neppure chiaro se il Tribunale possa revocare o modificare la misura protettiva del divieto di inizio o prosecuzione delle azioni esecutive, che opera automaticamente per effetto della domanda.

L'art. 7, comma 4, ultima parte sembra limitare la possibilità del Tribunale di adattare le misure protettive e cautelari solo se ciò sia richiesto dal debitore; ma considerato che ai sensi dell'art. 7, comma 6, successivamente alla convalida delle misure esse possono essere revocate o abbreviate su istanza dei creditori e dell'esperto anche quando risultino sproporzionate rispetto a taluni creditori, si deve per necessità ipotizzare che lo stesso potere di modulazione possa essere esercitato dal Tribunale già nella fase di convalida, se la conservazione integrale delle misure venga ritenuto, già al momento del primo intervento del Tribunale, non funzionale, in tutto od in parte, alla prosecuzione delle trattative.

Un'interpretazione che permettesse solo la conferma o il rigetto dell'istanza limiterebbe ingiustificatamente i poteri dell'Autorità giudiziaria e sarebbe addirittura foriera di danni per l'imprenditore, impedendo il tempestivo corretto adattamento delle misure alle reali esigenze dell'azienda che siano emerse dall'attività istruttoria svolta in contraddittorio con i creditori e dalle proposte dell'esperto.

Domande riconvenzionali

Risulta anche da valutare se i controinteressati (o gli intervenuti volontariamente) possano a loro volta chiedere l'adozione di misure in danno del debitore e degli altri soggetti protetti, così come generalmente previsto nel rito cautelare uniforme (Trib. Udine 19 settembre 2016; 4 ottobre 2016, ed anche Cass. 24 giugno 1994, n. 6103 e Cass. 6 giugno 2000, n. 7572).

La questione si può porre in relazione sia alla richiesta di sequestro giudiziario (ritenuto generalmente compatibile con la pendenza di concordato preventivo), sia di quelle misure protettive che possono essere adottate nel corso della procedura per la dichiarazione di fallimento.

Può, infatti, accadere che nel corso di quest'ultima vengano chiesti dai creditori, a seguito di atti depauperativi, provvedimenti idonei a sottoporre a controllo in tutto od in parte il patrimonio dell'imprenditore.

Sorge quindi, il problema della sorte delle domande di sequestro conservativo e delle altre volte alla tutela del patrimonio del debitore proposte dai creditori ed anche dei provvedimenti che fossero stati già emessi nella fase prefallimentare, precedentemente alla presentazione dell'istanza di composizione negoziata.

Il tema non è del tutto nuovo in giurisprudenza (G. Simone, Adozione di misure cautelari in ipotesi di coesistenza tra istruttoria prefallimentare e domanda di concordato, nota a Trib. Catania 28 febbraio 2019, in questo portale, 25 settembre 2019), ma si presenta in modo originale nell'ambito della composizione negoziata posto che non essendo questa una procedura giurisdizionale (S. Ambrosini, La nuova composizione negoziata della crisi: caratteri e presupposti, in Ristrutturazioniaziendali.ilcaso.it, 31 luglio 2021) il conflitto non può essere disciplinato secondo le regole della compatibilità o prevalenza di una procedura su un'altra.

Occorre in primo luogo precisare che l'art. 6 del decreto legge, nel vietare la pronuncia di fallimento, non dispone la sospensione della procedura per la dichiarazione di fallimento; ciò comporta che il Tribunale fallimentare può proseguire l'attività istruttoria connessa all'istanza di fallimento e anche conservare la competenza ad emettere i provvedimenti cautelari previsti dall'art. 15 LF.

Con riferimento ai rapporti tra procedura prefallimentare e concordato si è, però, dubitato della persistenza del potere di emettere provvedimenti cautelari posto che la richiesta delle misure protettive inibirebbe anche l'emanazione di ogni provvedimento cautelare in danno del debitore ed in particolare di quelli di sequestro e di nomina di un amministratore (Trib. Biella, 9 ottobre 2009, che ha stabilito l'inapplicabilità in via analogica del disposto di cui all'art. 15, comma 8, l.fall. al procedimento per concordato preventivo).

In senso contrario si è pronunciato il Tribunale di Catania, 28 febbraio 2019, cit. assumendo che “il concetto di protezione del patrimonio dell'imprenditore in crisi rinvia anche e innanzitutto all'esigenza della neutralizzazione degli effetti depauperatori legati ad eventuali atti di disposizione di quel patrimonio medesimo da parte del relativo titolare. E il fatto che il debitore ammesso al concordato sia lasciato, a norma dell'art. 167 l. fall. nel possesso e nell'amministrazione dei propri beni espone i creditori al rischio di atti di dispersione o mala gestio di quei beni medesimi come dell'azienda nel suo complesso”.

Il decreto legge (art. 9, comma 1) specifica che nel corso delle trattative l'imprenditore conserva la gestione ordinaria e straordinaria dell'impresa tanto che questi potrebbe, perfino, compiere atti pregiudizievoli per gli interessi dei creditori verso i quali l'esperto potrebbe solo manifestare ed iscrivere il proprio dissenso (con conseguente revocabilità nell'eventuale successivo fallimento); tuttavia questa disposizione non è di per sé sola decisiva, perché non esclude l'applicabilità di misure cautelari che non incidendo sulla mera gestione, si limitano a proteggere il patrimonio del debitore da atti pregiudizievoli (come accade con il sequestro giudiziario).

Pertanto, appare compatibile con le finalità dell'istituto della composizione negoziata (che non può lasciare privi di tutela anche i creditori) che i provvedimenti cautelari e protettivi eventualmente già emessi nell'ambito dei procedimenti prefallimentari, ed i sequestri giudiziari, conservino efficacia nella fase delle trattative e che i creditori, costituendosi nel giudizio promosso dal debitore di convalida delle misure protettive, possano richiedere, in via riconvenzionale, quelle misure, ancora non concesse, che, pur non pregiudicando il diritto dell'imprenditore a gestire con autonomia la fase delle trattative, evitino loro dei pregiudizi.

Semmai si tratta di valutare come conciliare, nell'eventuale contemporanea pendenza del procedimento per la dichiarazione di fallimento e di convalida delle misure protettive, il perdurante potere del Tribunale in sede prefallimentare di emettere i provvedimenti previsti dall'art. 15 L.F., con la riconosciuta competenza del Tribunale in sede di convalida delle misure protettive ad emettere analoghi provvedimenti su richiesta dei creditori. Pur dando atto della mancanza di un chiaro criterio desumibile dalla legge, è preferibile attribuire la competenza al Tribunale che pronuncia sulla convalida delle misure protettive per la maggiore ampiezza dei suoi poteri conoscitivi e degli interessi in gioco.

I poteri istruttori

Il Tribunale, sempre a fini istruttori, può nominare un ausiliario le cui funzioni non sono però chiare, potendo il suo compito largamente sovrapporsi ed anche contrapporsi a quello dell'esperto qualora venga chiamato a valutare la sussistenza delle condizioni di risanamento dell'impresa (diversamente da quanto accade ai sensi dell'art. 182-septies, comma 4, ultima parte, L.F. in base al quale l'ausiliario è incaricato del controllo delle condizioni per l'omologazione degli accordi di ristrutturazione ad efficacia estesa che non sono oggetto di attestazione).

Si dovrebbe, pertanto, in prima approssimazione, escludere che l'esperto possa esprimersi sulle possibilità di risanamento, anche alla luce della circostanza che il debitore, tra gli altri documenti, deve depositare una dichiarazione, avente valore di autocertificazione, che attesti, sulla base di criteri di ragionevolezza e proporzionalità, la possibilità di risanamento e che, nell'ambito della composizione negoziata, il compito di valutare la concreta fattibilità del risanamento è affidato all'esperto che deve essere ascoltato dal Tribunale proprio sul punto.

Tuttavia, poiché il mantenimento delle misure di protezione non avrebbe senso se non vi fossero ragionevoli prospettive di risanamento, non può essere, comunque, precluso al Tribunale di giudicare come insufficienti e generiche le argomentazioni poste a base della autodichiarazione, tenuto conto delle osservazioni dell'esperto, e conseguentemente respingere ogni richiesta di convalida.

I provvedimenti cautelari

Accanto alle misure protettive (tipiche ed atipiche) possono essere richiesti provvedimenti cautelari a tutela del patrimonio e dell'impresa che appaiano secondo le circostanze più idonei ad assicurare provvisoriamente gli effetti della trattativa. La legge non indica in che cosa possano consistere tali provvedimenti e la stessa definizione legislativa, tratta dal codice della crisi, fa emergere una sostanziale affinità con le misure protettive.

Data la finalità dei provvedimenti cautelari non sembra che il procedimento di emissione delle misure protettive sia disciplinato in modo rigoroso dal principio della domanda e della corrispondenza tra chiesto e pronunciato.

Non appare, quindi, necessario che il debitore specifichi nel dettaglio quale misura protettiva intenda ottenere, apparendo, invece, indispensabile che indichi la finalità che persegue con la divisata misura cautelare; il Tribunale, conseguentemente, nei limiti delle finalità perseguita e dichiarata, potrà adottare quella misura che consideri nella specie più utile, anche concedendone una diversa da quella domandata, adattandola nel modo più opportuno. Tale conclusione discende dal fatto che le misure cautelari non hanno un contenuto prefissato e non corrispondono neppure ad un provvedimento specifico da emettere in una successiva fase di merito; sarebbe, quindi, incongruo subordinare la loro emissione ad una domanda analitica e vincolante, tanto più che il contenuto del provvedimento potrebbe dipendere dalle indicazioni dell'esperto che collabora con l'imprenditore nella ricerca della soluzione più congrua.

Ciò premesso, una misura cautelare tipica, nel sistema della legge fallimentare e del codice della crisi, è quella della sospensione dei contratti in corso.

Fermo restando che ovviamente non potrà mai essere disposto lo scioglimento dei contratti, potrebbe costituire misura cautelare concedibile quella della sospensione momentanea della operatività di alcuni contratti se funzionale al raggiungimento di un accordo con i creditori.

L'art. 10 del decreto legge regola le autorizzazioni e le rinegoziazioni dei contratti nell'ipotesi in cui le evenienze della pandemia abbiano reso eccessivamente onerosi tali contratti attribuendo al giudice un eccezionale potere di rideterminazione del contenuto (probabilmente, ma una specificazione del legislatore sarebbe sul punto assai opportuna, anche per il tempo successivo allo svolgimento delle trattative potendo rappresentare misura finalizzata al superamento della crisi, e salvi sempre un diverso accordo tra le parti e gli effetti di un giudizio di merito sulla quantificazione dell'indennizzo), ma non affronta il diverso tema della sorte dei contratti pendenti che fossero divenuti, semplicemente, non più funzionali al risanamento dell'impresa.

La sospensione dei contratti in corso potrebbe risultare molto utile anche per il creditore, che non potendosi sciogliere autonomamente solo per effetto della presentazione dell'istanza e delle inadempienze pregresse, potrebbe vedere pericolosamente incrementata la sua esposizione verso il debitore in caso di prosecuzione del contratto.

Ovviamente la misura avrebbe un effetto solo temporaneo in attesa di una soluzione concordata tra il debitore ed il creditore con integrale ripresa dell'efficacia del contratto qualora le trattative non giungessero a buon esito.

Tra i provvedimenti cautelari atipici si potrebbero annoverare la richiesta di divieto di pubblicazione di segnalazioni alla centrale dei rischi o il rilascio di DURC per procedere all'acquisizione di nuove commesse malgrado pregresse inadempienze agli obblighi contributivi.

E' da escludere che il Tribunale possa, invece, procedere, in via cautelare, alla rideterminazione di contratti all'infuori della ipotesi espressamente prevista, sia pure soltanto per il tempo delle trattative.

Spese e reclamo

L'applicabilità delle regole del processo cautelare uniforme impone di ritenere che in caso di totale reiezione dell'istanza, il ricorrente sia condannato al pagamento delle spese processuali a favore delle (singole) controparti costituite.

La conferma delle misure protettive e la concessione delle misure cautelari non dovrebbe, invece, portare alla condanna dei creditori costituitisi, anche se contrari all'emissione del provvedimento, rientrando le spese tra gli oneri del procedimento a carico del debitore. Il principio della soccombenza potrebbe, invece, giustificare la condanna del creditore che avesse chiesto, vanamente, in via riconvenzionale l'emissione di provvedimenti a carico dell'imprenditore.

Qualora le misure non fossero confermate, esse cesserebbero immediatamente di avere applicazione; se modificate, troverebbero applicazione nei limiti in cui sono state disposte dal Tribunale; anche per tale ragione, il provvedimento dovrebbe essere tempestivamente trasmesso al Registro delle Imprese per l'iscrizione.

I provvedimenti emessi dal tribunale possono essere reclamati secondo le regole dell'art. 669 terdecies c.p.c..

Ancorchè non sia previsto, anche l'instaurazione della fase del reclamo dovrebbe essere pubblicizzata nel Registro delle imprese per rendere edotti tutti i creditori della pendenza del procedimento di reclamo a somiglianza di quanto previsto dall'art. 7 comma 1, seconda parte, del decreto legge.

La fase di reclamo rappresenta ovviamente un vero e proprio procedimento giurisdizionale in cui assumono il ruolo di parti, necessariamente assistite da un difensore, le stesse del procedimento svoltosi innanzi al giudice monocratico.

Il Tribunale in composizione collegiale può ripristinare le misure protettive revocate dal giudice monocratico e concedere quelle cautelari negate. Gli effetti ripristinatori o estintivi decorrono dalla pubblicazione del provvedimento di reclamo. Si deve necessariamente pensare che anche questo provvedimento debba essere tempestivamente trasmesso dalla cancelleria al Registro delle imprese per la iscrizione.

Riproposizione della domanda

Ai sensi dell'art. 669-septies c.p.c., il provvedimento di rigetto non preclude la riproposizione della domanda se si verificano mutamenti delle circostanze o vengono addotte nuove ragioni di fatto o di diritto.

Si pone, però, il problema se, per effetto della riproposizione della istanza, si rinnovi l'effetto interinale dell'applicazione delle misure protettive in attesa del provvedimento del Tribunale. Com'è chiaro, il rischio è che il debitore possa, attraverso una serie di domande, con evidente abuso, determinare effetti protettivi a catena pur a fronte di un precedente provvedimento negativo. La questione è anche collegata al fatto che la norma non attribuisce al Tribunale il potere di concedere, ma solo di confermare o modificare (o far cessare gli effetti del) le misure protettive richieste che, nella nuova domanda, potrebbero essere anche diverse da quelle che il Tribunale non aveva confermato con il suo provvedimento.

Pur prendendo atto della complessità della questione, si deve ipotizzare che in caso di reiterazione dell'istanza (comunque, necessariamente fondata su nuovi presupposti) l'efficacia delle nuove misure protettive richieste sia necessariamente subordinata all'emanazione del provvedimento di accoglimento del Tribunale.

Se invece, la richiesta concernesse misure protettive completamente diverse da quelle sulle quali il Tribunale si è già pronunciato, esse dovrebbero avere immediata applicazione in attesa del provvedimento giurisdizionale (fermo restando che potrebbe essere assai complesso stabilire se la nuova istanza sia reiterativa o innovativa rispetto alla prima).

La durata delle misure

L'art. 7, comma 5, prevede che il giudice possa prorogare le misure la cui efficacia iniziale non può essere inferiore a 30 giorni e superiore a 120 giorni.

Anche questa norma (che è ripresa dal codice della crisi) appare lacunosa, poiché se l'efficacia delle misure protettive concernenti il divieto di inizio e la sospensione delle procedure esecutive e cautelari decorre dalla presentazione dell'istanza, le eventuali misure cautelari potrebbero trovare applicazione solo dopo la pronuncia; ovviamente logica vuole che, sia le misure protettive, sia quelle cautelari abbiano la stessa durata; è necessario, quindi, che il provvedimento risulti il più specifico possibile per evitare incertezze.

Il termine di efficacia può essere prorogato per un tempo non superiore complessivamente a 240 giorni, ma anche ridotto su richiesta dell'imprenditore o dei creditori. Le misure possono essere anche revocate.

La norma prevede che la riduzione di efficacia o la revoca (rectius cessazione degli effetti) possa essere disposta su segnalazione dell'esperto. Si deve ritenere che in tal caso l'esperto non debba fare una vera e propria domanda giudiziale, ma possa segnalare la necessità con una qualsiasi istanza cui seguirà, d'ufficio poiché l'istanza non ha valore di domanda giudiziale, la convocazione del Tribunale con onere di notifica a carico dell'esperto.

Le misure protettive del divieto di pronuncia della sentenza di fallimento e quella sulla sospensione delle regole sulla coperture delle perdite, invece, hanno una durata collegata indefettibilmente a quella della composizione negoziata

La sospensione degli obblighi di ricapitalizzazione

Tra le misure protettive che operano automaticamente (senza alcun potere di intervento del Tribunale, come appena specificato) vi è quella che prevede che, se espressamente richiesto dal debitore, società di capitali, fino alla conclusione delle trattative o all'archiviazione dell'istanza di composizione negoziata, non si applichino gli artt. 2446, commi 2 e 3, 2447, gli artt. 2482 bis, commi 4, 5, 6, e 2482-ter c.c. nonché la causa di scioglimento della società per riduzione o perdita del capitale sociale.

La disposizione rappresenta misura analoga a quella che si produce di diritto con la presentazione della domanda di omologazione del concordato preventivo ai sensi dell'art. 182-sexies L.fall. e dell'art. 89 CCI.

La finalità protettiva dell'art. 8 del decreto legge è chiara; sebbene non sempre accada, è, però, frequente che le perdite accumulate dall'imprenditore a seguito della crisi riducano il capitale in misura, non solo, necessaria ad assumere i provvedimenti di cui all'art. 2446 c.c., ma anche a portare la società allo scioglimento per la riduzione del capitale al di sotto del minimo di legge; una siffatta conseguenza avrebbe ripercussioni gravi sul funzionamento della società, sia perché la sussistenza di una causa di scioglimento renderebbe non agevole il perseguimento della continuità aziendale, presupposto per il buon successo del percorso di risanamento, sia per evitare che nel tempo occorrente per il superamento della crisi, gli amministratori siano esposti verso i creditori alla responsabilità per i danni che la continuazione dell'attività sociale, in presenza di una causa di scioglimento, potrebbe determinare.

In altre parole, la disposizione tende ad evitare la paralisi della società nel tempo occorrente per lo svolgimento delle trattative, con pregiudizio della stessa sopravvivenza dell'azienda nel momento in cui si apre, potenzialmente, una prospettiva di riequilibrio.

Molto opportunamente, proprio al fine di superare i problemi di opacità che l'analogo sistema previsto dal codice della crisi comporta (su cui F. Platania, Le misure protettive e cautelari nel Codice della crisi, cit.) è previsto che l'inoperatività delle regole sulla riduzione delle perdite e la ricapitalizzazione sia resa pubblica attraverso l'iscrizione nel Registro delle imprese dell'istanza di adozione di misure protettive.

La previsione legislativa (come l'art. 89 CCI) non esclude l'applicazione del primo comma dell'art. 2446 c.c. che impone agli amministratori di convocare senza indugio l'assemblea per sottoporre al suo esame un'aggiornata situazione patrimoniale ed illustrare le ragioni della perdita.

Rimane, comunque, inalterato il potere della assemblea di operare sul capitale, sia procedendo ad una ricapitalizzazione, sia ad una riduzione in proporzione delle perdite.

L'assemblea può anche procedere allo scioglimento della società senza che questa delibera determini necessariamente l'interruzione delle trattative, non potendosi escludere in via di principio la compatibilità della composizione negoziata con lo stato di liquidazione. Tuttavia, l'apertura volontaria della liquidazione determinerebbe l'applicazione delle ordinarie regole previste dal codice per la gestione di tale fase.

In ogni caso, al momento dell'archiviazione dell'istanza (ovvero alla conclusione positiva delle trattative) ritroverebbero integrale vigore le disposizioni sulla ricapitalizzazione; anche se le trattative abbiano avuto conclusione positiva, non è escluso, infatti, che si debbano effettuare comunque operazioni di ricapitalizzazione se la riduzione del debito per effetto degli accordi non fosse idonea a generare plusvalenze sufficienti a riportare le perdite al di sotto del limite del terzo del capitale previsto dagli artt. 2446 e 2447 c.c..

Ovviamente potrebbero trovare applicazione contemporaneamente anche le speciali disposizioni dell'art. 6 decreto 23/2020 (decreto liquidità) così come modificato dall'articolo 1, comma 266, della legge 178/2020 in vigore dal 1° gennaio 2021, per il superamento degli effetti della pandemia, per il quale “per le perdite emerse nell'esercizio in corso alla data del 31 dicembre 2020 non si applicano gli artt. 2446, commi 2 e 3, 2447, 2482-bis, commi 4-6, e 2482-ter c.c. e non opera la causa di scioglimento della società per riduzione o perdita del capitale sociale di cui agli artt. 2484, comma 1, n. 4, e 2545-duodecies c.c.. Il termine entro il quale la perdita deve risultare diminuita a meno di un terzo stabilito dagli artt. 2446, comma 2, e 2482-bis, comma 4, c.c., è posticipato al quinto esercizio successivo; l'assemblea che approva il bilancio di tale esercizio deve ridurre il capitale in proporzione delle perdite accertate”.

Tornerebbe ad essere pienamente operante, a far tempo dalla conclusione della trattativa, anche la disciplina della responsabilità degli amministratori qualora all'esito della procedura di soluzione concordata della crisi la società non avesse ritrovato integralmente il suo equilibrio patrimoniale.

L'art. 7 non riproduce, però, integralmente l'analoga disciplina della legge fallimentare (a somiglianza di quanto disposto dall'art. 20 CCI) in quanto non specifica che resta ferma, per il periodo anteriore al deposito dell'istanza, la responsabilità degli amministratori prevista dall'art. 2486 c.c..

Tuttavia, l'omissione è irrilevante poiché la responsabilità personale per la violazione dei doveri incombenti sugli amministratori verificatasi prima del deposito dell'istanza per la concessione di misure protettive e cautelari rimane inalterata; va precisato, però, che l'eventuale ricostruzione del capitale per effetto del buon esito delle trattative avrebbe comunque effetti retroattivi e, quindi, determinerebbe, in ogni caso, il venire meno della responsabilità degli amministratori per i danni provocati in epoca precedente alla richiesta di applicazione delle misure protettive.

In tal senso, infatti, va richiamato l'orientamento espresso da Cass. 22 aprile 2009, n. 9619 per la quale (sia pure in relazione a fattispecie riferibile a vicenda precedente alla riforma societaria, ma con principio applicabile anche a seguito dell'entrata in vigore delle nuove disposizioni) “lo scioglimento della società si produce automaticamente ed immediatamente, salvo il verificarsi della condizione risolutiva costituita dalla reintegrazione del capitale o dalla trasformazione della società ai sensi dell'art. 2447 c.c., in quanto, con il verificarsi dell'anzidetta condizione risolutiva, viene meno "ex tunc" lo scioglimento della società”. Stesso effetto deve attribuirsi alla ricostruzione del capitale per effetto della sopravvenienza attiva conseguente alla ristrutturazione dei debiti ottenuta con le trattative.

Merita, infine, di essere ricordata la disposizione dell'art. 9, comma 1, ultima parte, in base alla quale, quando sussista probabilità di insolvenza, l'imprenditore gestisce l'impresa in modo da evitare pregiudizio alla sostenibilità economico-finanziaria dell'attività.

Nella sostanza, nel caso in cui il pericolo di insolvenza appare reale, trovano di fatto applicazione le regole, previste dall'art. 2486 c.c., sull'obbligo degli amministratori (pena il risarcimento del danno conseguente) di gestire l'impresa ai soli fini della conservazione dell'integrità e del valore del patrimonio sociale tipiche della fase di liquidazione.

I gruppi e le imprese sottosoglia

Il decreto legge affronta il delicato tema dell'applicazione della disciplina della composizione negoziata ai gruppi di imprese (P. Bosticco, La composizione negoziata: trattative e gruppo di imprese, in questo portale, 13 settembre 2021).

Nello specifico, le norme consentono a più imprese in crisi, appartenenti ad un medesimo gruppo (come definito dall'art. 13 in modo non del tutto sovrapponibile alla previsione dell'art. 2, comma 1, lett. h) del codice della crisi) di chiedere la nomina di un unico esperto.

Le misure cautelari devono essere richieste al Tribunale ove ha sede l'impresa capogruppo o di quella che ha maggiore esposizione debitoria qualora la domanda non interessi l'impresa capogruppo.

La norma non specifica se la richiesta di misure protettive e cautelari debba essere formulata separatamente per ciascuna delle società ovvero possa essere unica per tutte le imprese (come la domanda di nomina dell'esperto); è, tuttavia, preferibile ritenere che le domande debbano essere separate (ancorchè collegate) dovendosi iscrivere la richiesta nel Registro delle Imprese di ciascuna società per permettere a tutti i creditori di venire agevolmente edotti della istanza. Ovviamente la trattazione innanzi al Tribunale deve essere unitaria, previa notifica a tutti i soggetti incisi nei loro diritti.

Anche le imprese non sottoposte al fallimento, nonché quelle agricole possono accedere alla composizione negoziata.

L'art. 17 non fa riferimento alle Start up innovative (e di tali imprese non vi è cenno neppure nella Relazione illustrativa) che sono soggette anch'esse alla disciplina del sovraindebitamento, ma si deve ritenere essere solo un'omissione necessariamente superabile in via interpretativa non essendovi motivo per escluderle.

La richiesta può essere proposta all'Organismo di composizione della crisi (competente per territorio) oppure, nelle forme ordinarie, al Segretario della Camera di Commercio.

Trovano integralmente applicazione le norme sulle misure protettive e cautelari come prima illustrate senza particolari deviazioni, con la sola precisazione che le funzioni dell'esperto possono essere svolte dall'Occ qualora la domanda sia stata proposta a questo Organismo.

In conclusione

La disciplina introdotta nel decreto legge sulle misure protettive e cautelari richiede certamente affinamenti soprattutto nella disciplina processuale (attualmente piuttosto lacunosa) e nelle forme di pubblicità al fine di rendere i creditori concretamente e tempestivamente edotti delle misure che influiscono sui loro diritti, preso atto che l'interesse del debitore alla riservatezza delle trattative non può più trovare tutela una volta richieste le misure protettive.

Dovrebbe trovare spazio anche una disciplina diretta alla tutela degli interessi dei creditori apparendo eccessiva (e pericolosa) l'ampia libertà di azione lasciata al debitore durante le trattative a fronte di un sostanziale blocco delle iniziative dei creditori, non mitigata adeguatamente dai poteri dell'esperto al quale sono conferiti solo compiti di segnalazione e di valutazione.

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