La responsabilità degli enti operanti nel settore agroalimentare: una riforma necessaria?

Ferdinando Brizzi
18 Ottobre 2021

La materia dei reati agroalimentari ha fatto recentemente registrare la contrapposizione tra due opposte tendenze legislative: l'una volta alla depenalizzazione dell'intero settore (decreto legislativo 2 febbraio del 2021, n. 27, recante Disposizioni per l'adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni del Regolamento (UE) 2017/625) l'altra, invece, di segno del tutto opposto, “panpenalizzante”, DDL AC 2427 di riforma...
Abstract

La materia dei reati agroalimentari ha fatto recentemente registrare la contrapposizione tra due opposte tendenze legislative: l'una volta alla depenalizzazione dell'intero settore (decreto legislativo 2 febbraio del 2021, n. 27, recante Disposizioni per l'adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni del Regolamento (UE) 2017/625) l'altra, invece, di segno del tutto opposto, “panpenalizzante”, DDL AC 2427 di riforma dei reati agroalimentari, che si propone di introdurre anche una specifica forma di responsabilità dell'ente ex d.lgs. 231/2001. Se il tentativo di depenalizzazione non è riuscito grazie un successivo decreto legge, d.l. 22 marzo 2021, n. 42, le “Nuove norme in materia di illeciti agroalimentari”, continuano ad essere all'esame del Parlamento. Il Legislatore appare dunque assai incerto nelle determinazioni da assumere, mentre Confindustria è intervenuta con le Linee guida per la costruzione dei modelli di organizzazione, gestione e controllo ai sensi del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231, rese pubbliche a giugno 2021, dove un'apposita sezione è dedicata all'art. 25-bis.1 d.lgs. 231/2001Delitti contro l'industria e il commercio. Ma già in precedenza la stessa Confindustria, con il documento Linee guida per “la rendicontazione di sostenibilità per le PMI” del maggio 2020, aveva dimostrato di saper opportunamente valorizzare gli sforzi compiuti dalle realtà operanti nel settore agroalimentare nel dotarsi di validi strumenti di compliance aziendale, a partire dall'adozione in forma volontaria dei cd. bilanci di sostenibilità. Scopo di questo contributo è di verificare se sia realmente necessaria l'introduzione di un nuovo tipo di responsabilità dell'ente, per altro “ritagliato” su quello già adottato in tema di sicurezza sul lavoro, ovvero non sia più opportuno incentivare quelle imprese virtuose che già abbiano predisposto ed effettivamente attuato efficaci modelli preventivi.

Tra depenalizzazione e “panpenalizzazione”

Il decreto legislativo 2 febbraio del 2021, n. 27, recante Disposizioni per l'adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni del Regolamento (UE) 2017/625, nel dotare l'ordinamento italiano di alcune misure minime di adeguamento al nuovo Regolamento europeo in tema di controlli ufficiali degli alimenti, attraverso l'articolo 18, avrebbe disposto l'abrogazione, inter alia, della legge 30 aprile 1962, n. 283, posta a presidio dell'“ordine alimentare” e diretta alla protezione immediata del consumatore. In tal modo sessant'anni di legislazione penale alimentare hanno corso il rischio di essere spazzati via senza una analisi di impatto e senza neppure tenere conto del disegno di legge n. 2427, recante Nuove norme in materia di illeciti agroalimentari.

La forza abrogatrice del decreto n. 27 del 2021 – che avrebbe anche configurato un vizio procedurale di eccesso di delega, come sottolineato nella Relazione del 17 marzo 2021 dell'Ufficio del Massimario della Suprema Corte di Cassazione – è stata arginata in extremis grazie ad un “provvidenziale” Consiglio dei Ministri che, su proposta del Presidente Mario Draghi e del Ministro della giustizia Marta Cartabia, ha approvato un ulteriore decreto legge, n. 42 del 22 marzo 2021 – pubblicato sulla G.U. n. 72 del 24 marzo 2021 – recante Misure urgenti sulla disciplina sanzionatoria in materia di sicurezza alimentare. Le norme così introdotte hanno avuto lo scopo di evitare la caducazione di tutte le disposizioni sanzionatorie di carattere penale e amministrativo di cui alla Legge 283 del 1962, nonché di alcuni articoli del decreto del Presidente della Repubblica n. 327 del 1980, in materia di disciplina igienica della produzione e della vendita delle sostanze alimentari e delle bevande.

La legge n. 283/1962, in particolare artt. 5 e ss., continuerà pertanto a costituire il primo fronte di tutela penale della filiera agroalimentare rispetto alle previsioni delittuose di cui agli articoli 439 e ss. del codice penale. Il testo normativo, infatti, reca la disciplina generale, preventiva e repressiva, sull'igiene degli alimenti, prevedendo numerose contravvenzioni di pericolo contro la salute pubblica, e punendo la sola detenzione di sostanze alimentari “sensibilmente pericolose”, a differenza di quanto previsto (e punito) dai menzionati articoli del codice penale applicabili, nella maggior parte dei casi, quando gli eventi si fossero già verificati.

I reati che avrebbero dovuto essere abrogati in conseguenza dell'entrata in vigore del decreto n. 27/2021 vietano, alternativamente, l'impiego, la vendita o la somministrazione di sostanze alimentari e bevande (art. 5 l.n. 283/1962):

- private anche in parte dei propri elementi nutritivi o mescolate a sostanze di qualità inferiore o comunque trattate in modo da variarne la composizione naturale, salvo quanto disposto da leggi e regolamenti speciali;

- in cattivo stato di conservazione;

- con cariche microbiche superiori ai limiti che saranno stabiliti dal regolamento di esecuzione o da ordinanze ministeriali;

- insudiciate, invase da parassiti, in stato di alterazione o comunque nocive, ovvero sottoposte a lavorazioni o trattamenti diretti a mascherare un preesistente stato di alterazione;

[…]

- con aggiunta di additivi chimici di qualsiasi natura non autorizzati con decreto del Ministro per la sanità o, nel caso che siano stati autorizzati, senza l'osservanza delle norme prescritte per il loro impiego. I decreti di autorizzazione sono soggetti a revisioni annuali;

- che contengano residui di prodotti, usati in agricoltura per la protezione delle piante e a difesa delle sostanze alimentari immagazzinate, tossici per l'uomo. Il Ministro per la sanità, con propria ordinanza, stabilisce per ciascun prodotto, autorizzato all'impiego per tali scopi, i limiti di tolleranza e l'intervallo per tali scopi, i limiti di tolleranza e l'intervallo minimo che deve intercorrere tra l'ultimo trattamento e la raccolta e, per le sostanze alimentari immagazzinate tra l'ultimo trattamento e l'immissione al consumo.

Ai sensi del successivo articolo 6 l. n. 283/1962, i contravventori alle disposizioni del suddetto articolo vengono puniti con l'arresto fino ad un anno o con l'ammenda da euro 309 ad euro 30.987,00 e con l'arresto da tre mesi ad un anno e ammenda da euro 2.582,00 ad euro 46.481,00 rispetto alle più gravi violazioni di cui alle lettere d) ed h), con aggiunta della pena accessoria della pubblicazione della sentenza di condanna ed esclusione, altresì, in caso di frode tossica o comunque dannosa per la salute, dell'applicazione dei benefici della sospensione condizionale e dell'estinzione della pena per decorso del tempo. Le previsioni sanzionatorie sono infine completate dal dispositivo di cui all'articolo 12-bisl. n. 283/1962, il quale attribuisce al giudice, in caso di fatto di particolare gravità dal quale sia derivato un pericolo per la salute, la possibilità di disporre la chiusura definitiva dello stabilimento o dell'esercizio, nonché la revoca della licenza, dell'autorizzazione o di analogo provvedimento amministrativo che consente l'esercizio dell'attività.

Il decreto legislativo n. 27 del 2021, come sopra rilevato, si sarebbe posto in chiaro contrasto con il DDL AC 2427, di riforma dei reati agroalimentari, che, per quanto rimodulato in alcuni punti, trae origine dal testo formulato dalla Commissione istituita presso l'Ufficio legislativo del Ministro della giustizia con decreto del 20 aprile 2015 e presieduta dal Dott. Gian Carlo Caselli, approvato dal Consiglio dei Ministri il 25 febbraio 2020, e presentato alla Camera dei deputati il 6 marzo 2020. L'ambito di intervento, per quanto concerne il contenuto principale del disegno di legge, attiene a tre argomenti:

  • la riorganizzazione sistematica della categoria dei reati in materia alimentare, in modo da garantire i beni giuridici di riferimento, che richiedono spesso l'anticipazione delle correlate incriminazioni già alla soglia del rischio e, in ogni caso, l'elaborazione di un sistema di intervento a tutele crescenti, che muove dalle ipotesi contravvenzionali per passare alla previsione di un delitto connotato da una concreta dannosità e giungere, infine, alla categoria dei reati che mettono in pericolo la salute pubblica;
  • la rielaborazione del sistema sanzionatorio delle frodi alimentari;
  • la sistemazione organica dei reati in materia alimentare nell'ambito della responsabilità delle persone giuridiche.

Anche con riferimento alla l. n. 283/1962 Disciplina igienica della produzione e della vendita di sostanze alimentari e bevande le modifiche sono tutt'altro che marginali e, per quanto precipuamente interessa in questa sede, intervengono sul disposto di cui all'art. 5 l. n. 283/1962 (destinato a rientrare, de iure condendo, tra i reati presupposto ai fini delle responsabilità della persona giuridica) e prevedono, all'art. 1-bis, un'apposita tipologia di delega di funzioni da parte del titolare dell'impresa alimentare. Sulla scorta dei principi elaborati dalla giurisprudenza in tema di gestione del rischio nelle organizzazioni complesse, la riforma prevede – in linea con quanto già dettato dalla legislazione speciale in materia di sicurezza sul lavoro – di disciplinare espressamente l'impiego dell'istituto della “delega di funzioni” nell'ambito delle imprese agroalimentari. Nel settore che ci occupa, la delega può avere ad oggetto i numerosi adempimenti connessi ai requisiti igienico sanitari degli alimenti (v. Reg. (CE) n. 178/2002, Reg. (CE) n. 852/2004, Reg. n. 853/2004), a quelli relativi la tracciabilità degli alimenti (Reg. (CE) n. 178/2002), ed ancora, alla correttezza delle informazioni ai consumatori (Reg. (UE) n. 1169/2011). In particolare, la normativa comunitaria in materia di sicurezza alimentare, con specifico riferimento al Reg. (CE) n. 178/2002 ed ai Regolamenti (CE) nn. 852/2004 e 853/2004 menzionati ha introdotto nell'ordinamento la figura dell'Operatore del Settore Alimentare (OPS) e del Responsabile HACCP. In particolare: l'Operatore del Settore Alimentare, ai sensi dell'art. 3, n. 3 del Reg. (CE) 178/2002, è, in generale, «la persona fisica o giuridica responsabile di garantire il rispetto delle disposizioni della legislazione alimentare nell'impresa alimentare posta sotto il suo controllo»; il Responsabile HACCP è il soggetto incaricato di adottare e mettere in atto le procedure di autocontrollo igienico-sanitario previste dal sistema HACCP, rese obbligatoria dal Reg. (CE) n. 852/2004. Tali figure, di norma, si identificano proprio nel titolare dell'impresa che opera nel settore alimentare, ovvero nel legale rappresentante della medesima che il più delle volte, però, demanda tali attività ricorrendo ad una delega anche solo orale non essendovi alcun vincolo normativo in merito alla forma che la stessa dovrebbe assumere (e, quindi, da rispettare). Del resto, il rafforzamento della tutela del settore alimentare consiste proprio nel rimodellare le fattispecie di prevenzione, cioè quelle più anticipate di rischio, della legislazione speciale, in particolare del vigente art. 5 l. n. 283/1962.

La prevenzione dei rischi in ambito alimentare

Nella materia agroalimentare, l'approccio al rischio ha caratterizzato la disciplina nazionale a partire dagli anni Sessanta ed è oggi fra i pilastri della normativa armonizzata a livello comunitario fin dal Reg. 28 gennaio 2002, n. 178/2002 che, significativamente, pone l'analisi del rischio ed il principio di precauzione fra le metodologie indispensabili per «definire provvedimenti, o altri interventi a tutela della salute, efficaci, proporzionati e mirati», ed impone agli operatori del settore l'adozione di sistemi e di procedure interni idonei ad assicurare – nel pieno rispetto delle normative vigenti – la tracciabilità dei prodotti, l'etichettatura, il pronto ritiro dal mercato, l'informazione ai consumatori (artt. 17-19).

Anche in questo settore di disciplina – come in altri – il legislatore primario, comunitario e nazionale, si è generalmente limitato a prescrivere l'adozione di condotte idonee alla prevenzione di determinati rischi omettendo di indicare il quomodo, vale a dire tipologia, natura, contenuto, modalità di funzionamento, ripartizione di ruoli e funzioni, etc. delle procedure o dei sistemi che le imprese debbono adottare. Non pare irragionevole ritenere che gli obblighi in questione – nella misura in cui debbono concretarsi nella predisposizione di sistemi o procedure volti al controllo in determinate fasi delle attività di produzione o commercio o al rispetto di prescrizioni soggette a vigilanza di soggetti esterni – ricadano oggi nel perimetro dei doveri di predisposizione di adeguati assetti organizzativi per la gestione del rischio e per la compliance codificati innanzitutto negli artt. 2381 e 2403 c.c. Norme che sono esplicitamente dettate per la sola società per azioni, ma paiono potersi estendere analogicamente non solo alle altre società capitalistiche ; bensì anche, con i dovuti adattamenti, alle società personalistiche e pure alle forme imprenditoriali individuali, rappresentando l'adeguatezza degli assetti organizzativi, amministrativi e contabili un principio di ordine universale di buona e corretta gestione economica.

Ma non solo: alcune delle condotte prescritte sono assistite da sanzioni penali che rientrano anche nel “catalogo” dei reati presupposto ex d.lgs. 231/01, sicché si pongono anche su questo terreno problematiche di coordinamento fra assetti organizzativi generali e modello 231.

Lo strumento delineato dalla disciplina della responsabilità degli enti ha un grande potenziale general-preventivo e special-preventivo, poiché impone all'impresa di adottare meccanismi di compliance a carattere prevenzionistico, basati sulla valutazione del rischio e sull'adozione di adeguate misure di prevenzione e tutela della sicurezza alimentare.

L'importantissima previsione della responsabilità amministrativa degli entiin relazione alla commissione dei delitti contro l'industria e il commercio, tra cui i reati rilevanti in materia agroalimentare (art. 25-bis.1, d.lgs. n. 231/2001), con applicazione della sanzione pecuniaria fino a 500 quote, si colloca sulla moderna linea di contrasto a tali crimini in un contesto d'impresa.

Non può certo dirsi che tale previsione normativa sia mancata di concreta applicazione.

Però la maggior parte delle pronunce giurisprudenziali (Cass. pen., sez. III,14 aprile 2015, n. 15249, Cass. pen., sez. III, 31 gennaio 2019, n. 4885, Cass. pen., sez. III, 4 marzo 2020 n. 8785), ha riguardato la determinazione del profitto confiscabile nei confronti degli enti laddove vengano contestati delitti quali l'associazione per delinquere, la frode nell'esercizio del commercio aggravata a norma dell'art. 517-bis c.p., in relazione al reato presupposto di cui al d.lgs. n. 231 del 2001, art.25 bis 1, comma 1, in caso di commercializzazione di prodotti agroalimentari di qualità diverse rispetto a quelle reali, ossia prodotti agricoli non realizzati con il metodo di produzione biologico o comunque provenienti da terreni in conversione e venduti per biologici, attraverso, ad es., la concordata e sistematica falsificazione dei registri delle culture, dei registri delle materie prime, dei registri delle vendite, dei documenti di trasporto e delle fatture di vendita. Nella pregressa giurisprudenza in tema di profitto da reato è stato costantemente affermato il principio secondo il quale, in generale, deve prescindersi, nella sua definizione, da una nozione di tipo prettamente aziendalistico (Cass. pen. sez. unite, n. 9149 del 3 luglio 1996, Chabini, Rv. 205707; Cass. pen. sez. unite, n. 29951 del 24 maggio 2004, Focarelli, in motivazione; Cass. pen. sez. unite, n. 29952 del 24 maggio 2004, Romagnoli, in motivazione; Cass. pen. sez. unite, n. 10208 del 25 ottobre 2007 – dep. 6 marzo 2008 - Miragliotta, Rv. 238700). Il profitto di cui all'art. 240 c.p., non si identifica con (né si sovrappone a) l'utile d'impresa o il reddito di esercizio, sicché non si può strutturalmente scorporare il costo sostenuto per ottenerlo, soprattutto se l'investimento, in quanto cosa destinata a commettere il reato (e dunque a produrre il profitto), potrebbe essere di per sé oggetto di confisca. La definizione di «profitto» confiscabile a norma dell'art. 19, d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, non si discosta da quella da sempre elaborata dalla giurisprudenza di legittimità, nel senso che non può farsi ricorso a parametri valutativi di tipo aziendalistico – quali ad esempio quelli del "profitto lordo" e del "profitto netto" (Cass. pen. sez. unite, n. 26654 del 27 marzo 2008, Fisia Italimpianti Spa, Rv. 239924), tanto più se l'impresa è totalmente votata all'illecito. Diversamente, se l'impresa non è totalmente votata al delitto, allorquando il corrispettivo costituisca il compenso di un'attività che, ancorché acquisita illecitamente, non infici tuttavia la regolarità della prestazione sinallagmatica resa al terzo, di esso non potrà tenersi conto nella quantificazione del profitto (Cass. pen. sez. unite, n. 26654/2008, cit.). Il che, non equivale a sostenere che il profitto confiscabile ai sensi dell'art. 19, d.lgs. n. 231/2001 debba essere calcolato al netto dei costi sostenuti per ottenerlo. Proprio i costi sostenuti dall'ente per poter commercializzare la materia prima acquistata non sono detraibili proprio perché finalizzati a porre in commercio i prodotti agroalimentari di qualità diverse rispetto a quelle reali.

Altra pronuncia rileva in una prospettiva di maggior interesse in questa sede: il tribunale del riesame di Foggia (con ordinanza 12 marzo 2019, in accoglimento dell'appello cautelare proposto dal PM avverso il provvedimento di revoca del sequestro preventivo emesso dal GIP in data 28 gennaio 2019) disponeva il sequestro di 6500 hl. e 12.420 kg. di mosto, in capo al legale rappresentante di una s.r.l., in quanto indagato in relazione al delitto di cui all'art. 517-quater c.p., e con riferimento alla società, in relazione al reato di cui al d.lgs. n. 231 del 2001, art. 25-bis. In particolare, l'Accusa mossa all'indagato contestava la provenienza non tracciabile documentalmente, in quanto avvenuta "in nero", di mosto di uve da tavola nella filiera dei mosti di uve da vino destinata alla produzione di "aceto balsamico di Modena" e che la società amministrata dall'indagato risultava autorizzata all'esclusiva lavorazione delle uve da vino e/o degli altri prodotti vitivinicoli da queste derivanti. Il provvedimento ablativo è stato confermato da Cass. pen. sez. III, 10 ottobre 2019 n. 49889.

Tracciabilità e sostenibilità

Il tema della tracciabilità affrontata nella sentenza da ultimo citata merita un particolare approfondimento.

L'art. 17 par. 1 del Regolamento (CE) 28 gennaio 2002, n. 178 prevede che spetta agli operatori del settore alimentare garantire che, nelle imprese da essi controllate, gli alimenti soddisfino le disposizioni della legislazione alimentare inerenti alle loro attività in tutte le fasi della produzione, della trasformazione e della distribuzione. Per quanto di più specifico interesse, l'art. 3, punto 7, fornisce la definizione di commercio al dettaglio ricomprendendo la movimentazione e/o trasformazione degli alimenti e il loro stoccaggio nel punto di vendita o di consegna al consumatore finale, compresi i terminali di distribuzione, gli esercizi di ristorazione, le mense di aziende e istituzioni, i ristoranti e altre strutture di ristorazione analoghe, i negozi, i centri di distribuzione per supermercati e i punti vendita all'ingrosso. Il commerciante al dettaglio, in ambito locale, ha l'obbligo di documentare la provenienza dei prodotti cedutigli dal produttore primario secondo le disposizioni che il predetto Regolamento ha introdotto in tema di tracciabilità, da intendersi come l'insieme delle procedure necessarie per seguire il percorso di un alimento in ogni tappa della filiera produttiva sino alla distribuzione al consumatore finale, le cui violazioni sono sanzionate dal d.lgs. n. 190 del 2006 (in questi termini Cass. pen. sez. IV, n. 17119/2020).

Sotto questo profilo può dunque affermarsi che la tracciabilità rappresenta un importante strumento di complianceper le aziende che operano in ambito agroalimentare: così alcune delle più significative realtà operanti nel settore agroalimentare sono venute ad integrare il modello 231 con il cd. bilancio di sostenibilità.

Il bilancio di sostenibilità non ha niente a che vedere con il bilancio d'esercizio, che è un documento contabile che fornisce una rappresentazione della situazione patrimoniale e finanziaria dell'azienda, perché ha come obiettivo quello di informare gli stakeholder dei risultati economici, sociali e ambientali generati dalla azienda nello svolgimento delle proprie attività.

L'Unione europea nel Libro verde della Commissione (2001) definisce il Bilancio di Sostenibilità come: «L'integrazione volontaria delle preoccupazioni sociali ed ecologiche delle imprese nelle loro operazioni commerciali e nei loro rapporti con le parti interessate». Sei anni dopo, in Italia, anche il Ministero dell'Interno, Dipartimento della Funzione Pubblica, Direttiva 17 febbraio 2006, ha indicato una definizione nazionale per questo impegno aziendale: «Il Bilancio Sociale è l'esito di un processo con cui l'amministrazione rende conto delle scelte, delle attività, dei risultati e dell'impiego di risorse in un dato periodo, in modo da consentire ai cittadini e ai diversi interlocutori di conoscere e formulare un proprio giudizio su come l'amministrazione interpreta e realizza la sua missione istituzionale e il suo mandato».

Attualmente, nell'ambito profit, la rendicontazione delle informazioni non finanziarie è obbligatoria per le aziende quotate e del settore bancario-assicurativo, di grandi dimensioni (d.lgs. n. 254/2016 che recepisce la direttiva europea 2014/95/UE), mentre è volontaria per la restante platea di aziende.

In aggiunta a quanto previsto dalla direttiva europea, il legislatore italiano ha previsto la possibilità di redazione della dichiarazione non finanziaria (DFN), su base volontaria, per tutti i soggetti diversi dagli EIP (European Investment Practitioner) che siano interessati a farlo. Alla scelta volontaria di redazione del documento fanno seguito automaticamente gli obblighi di pubblicazione e di assoggettamento ad attività di controllo.

Il d.lgs. n. 246/2016 richiama cinque ambiti di rendicontazione: lotta alla corruzione attiva e passiva; ambiente; personale; sociale; diritti umani.

Nonché inserisce un richiamo alla “materialità”, per cui le aziende devono rendicontare anche su temi specifici e rilevanti per loro. Su questi ambiti, l'azienda deve mettere in evidenza modalità di gestione, rischi, politiche e performance.

Oltre a questo, l'impresa deve rendicontare sul modello di business.

Le realtà operanti nel settore agroalimentare che hanno intrapreso la via del bilancio di sostenibilità lo hanno affiancato al modello 231, quale strumento di compliance e che vede nella tracciabilità un asse portante:«lo sviluppo della filiera agricola, industriale e distributiva, consente all'Azienda il presidio “dal seme alla tavola” dei prodotti offerti mediante controlli di qualità e tracciabilità completa dei processi, a vantaggio del consumatore e dell'ambiente. Lo sviluppo dell'attività su terreni di proprietà garantisce la tutela del suolo, anche a vantaggio delle generazioni future e la totale provenienza italiana dei prodotti» (cfr. bilancio di sostenibilità 2020 di BF Spa).

Confindustria già a partire dal documento Linee guida per “la rendicontazione di sostenibilità per le PMI” del maggio 2020, aveva inteso valorizzare questi sforzi compiuti anche dalle realtà operanti nel settore agroalimentare che si sono dotate di validi strumenti di compliance aziendale, a partire dall'adozione in forma volontaria dei cd. bilanci di sostenibilità.

Secondo Confindustria, il binomio “sostenibilità – competitività” aziendale, che viene sostenuto scegliendo di rendicontare informazioni non finanziarie nel proprio bilancio, è in grado di comportare benefici riconducibili in particolare a: risk assessment e mitigazione dei rischi (finanziari e non finanziari), e sviluppo di una filiera sostenibile (sia con i propri fornitori che come fornitori).

Quanto al Risk assessment, la rendicontazione non finanziaria innesca una attività di mappatura e raccolta di dati inerenti a tematiche di natura economica, di governance, sociale e ambientale, tale da permettere all'impresa di conoscere, non solo la natura dei rischi potenziali ed effettivi derivanti dagli ambiti tematici tradizionalmente considerati come “non finanziari”, ma anche di prevenire i potenziali impatti rilevanti nel breve termine.

I temi di sostenibilità possono produrre, pertanto, effetti considerati “financially material” ovvero che impattano concretamente sui risultati economico-finanziari dell'azienda, sulla sua posizione competitiva, sul processo di creazione di valore nel lungo periodo e, sovente, sulla continuità aziendale.

Tra questi Confindustria richiama, a titolo esemplificativo, alcuni rischi qui rilevanti:

  • ambiente (cambiamento climatico, non conformità alla normativa ambientale, gestione dei rifiuti e sostanze pericolose, gestione delle risorse idriche, gestione non efficiente dell'energia, ecc.);
  • personale (non conformità alla normativa su salute e sicurezza sui luoghi di lavoro e sui diritti dei lavoratori, perdita di risorse in posizione chiave, ecc.);
  • diritti umani (violazione dei diritti umani, inadeguata gestione della diversità, discriminazione, ecc.);
  • catena di fornitura (rischi sociali, ambientali e reputazionali legati ad una gestione non attenta della catena di fornitura);
  • compliance (altre tipologie di rischi di non conformità a normativa fiscale, libera concorrenza, sulla privacy, ecc.).

In sintesi, rendicontare le informazioni non finanziarie aiuta le imprese a monitorare tali rischi, la maggior parte dei quali assai rilevanti in sede agroalimentare, misurandone il livello di probabilità e il relativo impatto, nonché a realizzare le azioni specifiche per mitigarli.

Quanto allo sviluppo di una filiera sostenibile,nel documento si rileva come l'implementazione di politiche orientate alla sostenibilità e alla corretta rendicontazione delle stesse può favorire il rapporto tra piccole e medie imprese fornitrici e grandi imprese, nell'ambito delle filiere produttive.

Infatti, l'adozione di comportamenti responsabili da parte di un'azienda di grandi dimensioni induce comportamenti virtuosi anche lungo l'intera catena di fornitura, tali da stimolare, da un lato, condotte sostenibili e, dall'altro, premiare le buone pratiche nel campo della sostenibilità.

In altri termini, l'adozione di comportamenti responsabili da parte di un'azienda può estendersi a tutta la sua catena produttiva e ai rapporti con gli stakeholder di riferimento, in particolar modo, i fornitori. Sempre di più le politiche nazionali e comunitarie riconoscono, in misura crescente, la necessità di un controllo, da parte dell'impresa, delle altre parti della filiera e dell'utilizzo del potere negoziale per provare a correggere distorsioni e disincentivare comportamenti in conflitto con i valori aziendali o i principi etici, sociali e ambientali condivisi e previsti a livello regolamentare.

Il reporting non finanziario, in tale direzione, può certamente contribuire a identificare alcune criticità rilevanti nella gestione produttiva e socio-ambientale, consentendo anche un maggior controllo da parte degli stakeholder esterni.

Modelli 231 e settore agroalimentare

a) In generale. Le specificità del modello organizzativo nel settore agroalimentare sono già state analizzate in dottrina proprio con specifico riferimento al settore enologico: le società ivi operanti dimostrano, anche per esigenze reputazionali legate alle relazioni commerciali con l'estero, attenzione e sensibilità verso i temi della sicurezza, qualità e integrità dei prodotti vinari e della lealtà commerciale. Tuttavia, non è facile per l'azienda risalire a ciascuno degli obblighi funzionali a prevenire reati contro l'industria e il commercio come la frode, la vendita di vini non genuini come genuini e la contraffazione e alterazione delle indicazioni geografiche o delle denominazioni di origine, in quanto disseminati in una miriade di leggi speciali e strumenti sovranazionali: il problema della difficile reperibilità delle misure organizzative atte a fronteggiare i rischi-reato sembra poter essere mitigato grazie a un'accorta integrazione del modello ex d.lgs. 231/2001, oltre che con gli indirizzi, da recuperare e riordinare in sede applicativa, provenienti dalla normativa interna ed europea, dalla soft law internazionale, nonché da ordinamenti, quale quello statunitense, che vantano una più lunga tradizione nel campo dei sistemi di gestione dei rischi alimentari, anche dalla standardizzazione privata. Indirizzi alla luce dei quali sembra altresì opportuno modulare anche l'attività dell'Organismo di Vigilanza, il quale, al fine di non innescare inutili duplicazioni dei compiti di controllo, dovrebbe tenere presente che l'applicazione di alcune di tali norme già è oggetto di monitoraggio a opera di Autorità competenti.

Quella stessa dottrina salutava positivamente la novità costituita dal progetto di riforma dei reati in materia agroalimentare elaborato dalla Commissione Caselli, ritenuto “immeritatamente fermo all'esame del Parlamento, ma comunque esito dello studio di esperti del settore tra professori universitari, magistrati e avvocati e, quindi, espressione della direzione verso cui muove la disciplina”. Nello sforzo di «codificare», in un nuovo art. 6-bis d.lgs. n. 231/2001 – speciale rispetto all'art. 6 d.lgs. n. 231/2001 – un Modello organizzativo-tipo per l'impresa alimentare, il progetto di riforma individuava infatti quali misure di prevenzione dei rischi-reato procedure già disciplinate all'interno dei predetti standard cogenti e volontari, le quali così assolverebbero per l'ente una funzione sia organizzativo-gestionale sia, laddove adottate ed efficacemente attuate, esimente o attenuante di un'eventuale responsabilità amministrativa. Una soluzione, quella proposta, che porterebbe con sé un ulteriore beneficio: sottrarre la gestione dei rischi-reato nel comparto vitivinicolo dal “ginepraio” dell'eteronormazione cogente e volontaria e far confluire quest'ultima, anche in prospettiva efficientista, in un sistema di compliance organico e integrato con tali normative, le quali per tale via sarebbero peraltro assistite dall'attività dell'Organismo di Vigilanza e da un sistema disciplinare coordinato.

Al progetto di riforma dei reati in materia agroalimentare elaborato dalla Commissione Caselli ha fatto seguito il disegno di legge n. 2427, recante «Nuove norme in materia di illeciti agroalimentari», attualmente all'esame parlamentare, e proposto dagli allora Ministri della giustizia, Alfonso Bonafede e delle politiche agricole, alimentari e forestali, Teresa Bellanova, approvato dal plenum ministeriale in data 25 febbraio 2020 e presentato in data 6 marzo 2020.

Tale testo, se, per un verso, affonda le proprie radici nel disegno di legge n. 2231 già elaborato, nell'anno 2015, dalla Commissione Caselli, per l'altro verso, condivide con quest'ultimo la necessità di dare tempestiva risposta alla crescente inidoneità degli attuali strumenti legislativi posti a tutela di quello che è stato icasticamente definito patrimonio agroalimentare italiano.

b) I reati presupposto. Certamente importante, in subiecta materia, è l'estensione della responsabilità amministrativa degli enti per fatti dipendenti da reato-agroalimentare ex d.lgs. n. 231/2001 che il disegno di legge in esame pone in essere, da un lato, ampliando nell'anzidetta direzione il correlativo “catalogo” e, dall'altro lato, introducendo una specifica disciplina avente a oggetto i nuovi modelli organizzativi e gestionali agroalimentari.

Per quanto riguarda il primo aspetto, in prospettiva de iure còndito, è dato osservare come, già oggi, nel corpo del d.lgs. 231/2001 figurino, a vario titolo, reati concernenti la materia agroalimentare: a venire qui in emergenza, più specificamente, sono, in massima parte, reati tratti dalla disciplina codicistica. Il riferimento è qui, a mero titolo esemplificativo, al delitto di frode nell'esercizio del commercio ovvero a quelli di vendita di sostanze alimentari non genuine come genuine o di contraffazione d'indicazioni geografiche o denominazioni d'origine dei prodotti agroalimentari ex artt. 515, 516 e 517-quater c.p. e art. 25-bis.1 d.lgs. 231/2001.

Il disegno di legge introduce gli illeciti di disastro sanitario ex art. 445 bis c.p. e d'agropirateria ex art. 517-quater.1 c.p., quali nuovi reati-presupposto della responsabilità amministrativa degli enti per fatti dipendenti da reato-agroalimentare ex d.lgs. n. 231/2001.

Il progetto di riforma prevede poi la frammentazione del citato art. 25-bis.1 d.lgs. n. 231/2001 in tre diverse disposizioni aventi a oggetto, rispettivamente, i delitti contro l'industria e il commercio (art. 25-bis.1 d.lgs. n. 231/2001), le frodi nel commercio di prodotti alimentari (art. 25 bis.2 d.lgs. 231/2001) e i delitti contro la salute pubblica (art. 25-bis.3 d.lgs. n. 231/2001).

E, così, mentre nel nuovo articolo 25-bis.2 d.lgs. n. 231/2001 viene trasferito il riferimento all'art. 517-quater c.p. e vengono inserite le nuove fattispecie d'agropirateria, frode nel commercio d'alimenti e commercio d'alimenti con segni mendaci ex nuovi artt. 517-quater.1; 517-sexies e 517-septies c.p., nel nuovo art. 25-bis.3 d.lgs. n. 231/2001 trovano collocazione i già citati reati contro la salute pubblica, fra i quali è destinato a spiccare il nuovo illecito di disastro sanitario.

Al di fuori dei reati previsti dal codice penale, il comma 2 dell'art. 25-bis.3 sanziona i delitti previsti dall'art. 5, commi 1 e 2, della legge 30 aprile 1962, n. 283, come modificato all'art. 6 del disegno di legge, per i quali si applicano la sanzione pecuniaria fino a 300 quote e l'interdizione dall'esercizio dell'attività fino a 6 mesi. L'articolo 6 apporta modifiche alla legge 30 aprile 1962, n. 283, che contiene la disciplina principale in tema di produzione e vendita delle sostanze alimentari e delle bevande e degli illeciti ad esse connessi. In particolare, la lettera b), sostituendo l'art. 5 della legge n. 283 del 1962, intende rafforzare il presidio giuridico posto a tutela della sicurezza degli alimenti (comprese acque e bevande), intesa come ragionevole certezza del loro essere adatti al consumo umano, introducendo un reato volto a sanzionare una condotta che viene ritenuta di per sé pericolosa, anche se non ancora idonea a concretizzare un pericolo per la salute pubblica, come avviene invece nella fattispecie di nuovo conio di importazione, esportazione, commercio, trasporto, vendita o distribuzione di alimenti, medicinali o acque pericolosi, sanzionata dall'art. 440-bis c.p., rispetto alla quale si pone in un rapporto di minore gravità (come evidenziato dalla minore entità della pena). Si tratta quindi di un reato di pericolo astratto, le cui condotte caratteristiche possono comunque rivelarsi sintomatiche di situazioni suscettibili di evolvere nel pericolo concreto di cui all'art. 440-bis c.p.

c) Il modello organizzativo “riformato”. La novità più importante, però, è certamente quella inerente il secondo aspetto supra menzionato ed è rappresentata da quella passata in rassegna dall'art. 5 comma 1 lett. a) del disegno di legge in esame, che prevede l'introduzione, nel corpo del d.lgs. n. 231/2001, d'un nuovo art. 6-bis, rubricato «[m]odell[o] di organizzazione dell'ente qualificato come impresa agroalimentare», istituente una specifica disciplina di settore diretta a enucleare, sub specie d'elenco, tutti gli obblighi giuridici che il modello organizzativo e gestionale adottando dalle aziende operanti nell'ambito del perimetro soggettivo previsto dalla norma dovrà rispettare per poter avere efficacia esimente/(anche solo) attenuante della responsabilità amministrativa degli enti per fatti dipendenti da reato-agroalimentare.

La scelta legislativa ricalca quella già effettuata con riguardo all'art. 30 d.lgs. 81/2008, che parimenti disciplina gli specifici obblighi che l'adottando modello organizzativo e gestionale deve rispettare per poter mandare esente da responsabilità gli enti con specifico riferimento alla materia della salute e della sicurezza sui luoghi di lavoro.

Come là, infatti, anche qui – i.e. anche con il nuovo art. 6 bis d.lgs. 231/2001 – si propone d'introdurre un nuovo prototipo di modello organizzativo e gestionale specifico per le imprese operanti nel settore agroalimentare.

Come già precisato all'epoca della Commissione Caselli, d'altro canto, tre erano e tre restano le linee-direttrici seguite:

- estendere la responsabilità degli enti ai reati alimentari di maggiore gravità;

- incentivare l'applicazione concreta delle norme in tema di responsabilità degli enti, da parte dell'autorità di polizia giudiziaria e della stessa autorità giudiziaria;

- favorire l'adozione e l'efficace attuazione di più puntuali modelli di organizzazione e di gestione da parte delle imprese anche di minore dimensione.

Nitidi, in quest'ottica, gli obiettivi propri degli ideatori della riforma: già all'epoca della Commissione Caselli, infatti, gli stessi affermavano di voler rivolgere la propria attenzione, in primis, a quelle situazioni che si caratterizzavano per lo specifico «deficit organizzativo, suscettibili di evolversi in comportamenti illeciti», procedendo con ciò a enucleare/elencare gli specifici obblighi, di natura vuoi nazionale vuoi sovranazionale, idonei a «riempire di contenuto e a concretizzare la figura generale e astratta del modello organizzativo sul quale si impernia il criterio soggettivo di imputazione delle responsabilità amministrativa.

Di tale scelta è stato rilevato il pregio d'influire, da un lato, sulla cultura della legalità propria dello specifico ambito imprenditoriale di riferimento e, dall'altro lato, sullo stesso modo di concepire la compliance normativa in subiecta materia: infatti, dato a monte, per le imprese di settore, un oggettivo ancoraggio all'atto dell'effettuando adeguamento normativo, ciò che, ragionevolmente, ne dovrebbe discendere a valle dovrebbe essere una minor discrezionalità in sede giudiziale.

È proprio questo l'aspetto a suscitare i maggiori dubbi, che vanno a ripercuotersi sull'impianto complessivo della riforma: i dati censiti, su scala nazionale, dalla Direzione Generale di Statistica e Analisi Organizzativa (DG-Stat) presso il Ministero della Giustizia e, a livello locale, dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Milano segnalano infatti un'applicazione limitata del d.lgs. 231/2001 da parte dell'autorità giudiziaria. La causa del decremento è individuata da questa stessa Procura nella «scelta operata da molti PM di ritenere discrezionale l'iscrizione della persona giuridica». La “cifra oscura” degli illeciti d'impresa non registrati dalle procure documenta l'assoluta discrezionalità del pubblico ministero nell'agire contro l'ente e introduce una variabile del tutto arbitraria che finisce per disincentivare gli investimenti delle imprese in prevenzione. se questo è dunque lo “stato dell'arte”, appare assai improbabile che la mera concretizzazione della figura generale e astratta del modello organizzativo sia idonea ad incidere su quello che è il reale problema attinente non tanto alla discrezionalità dell'Autorità giudiziaria nella valutazione del modello, quanto nella ritenuta discrezionalità dell'Ufficio del Pubblico ministero nell'esercitare l'azione volta all'affermazione della responsabilità dell'ente.

Oltre a ciò, il testo trasposto nel disegno di legge in esame lascia aperta, la via a non secondari dubbi esegetici.

In primo luogo, ha certamente fatto discutere la scelta, che contrassegna la prima alinea del comma 1 del nuovo art. 6 bis d.lgs. 231/2001, d'operare rinvio espresso unicamente al vigente art. 6 d.lgs. 231/2001 – e, dunque, alla commissione d'illeciti da parte di soggetti posti in posizione apicale – e non anche al vigente art. 7 d.lgs. 231/2001, e, dunque, alla commissione d'illeciti da parte di soggetti sottoposti all'altrui direzione; con la conseguenza, per quel che qui importa, che, così impostata la questione, nulla, in questo secondo caso, verrebbe a essere previsto.

Senza considerare l'ulteriore questione inerente i rapporti che dovrebbero intercorrere tra la citata nuova disposizione in materia di modelli organizzativi e gestionali agroalimentari ex nuovo art. 6-bis d.lgs. n. 231/2001 e la citata attuale disposizione in materia di modelli organizzativi e gestionali generali ex vigente art. 6 d.lgs. n. 231/2001.

Sotto questo profilo, v'è stato chi s'è chiesto se la nuova figura di modello organizzativo e gestionale così disegnata vada a sostituire la vecchia ovvero se le anzidette figure si debbano integrare reciprocamente e, se sì, in che modo.

Perplessità, sotto altro profilo, ha suscitato anche l'utilizzo del lemma «attenuante» ex comma 1 del nuovo art. 6 bis d.lgs. 231/2001 in aggiunta a quello, certamente più familiare nella materia che qui c'occupa, d'«esimente».

Da questo punto di vista, s'è osservato, non poche domande potrebbero sorgere allorquando, in futuro, si trattasse di trasmettere l'anzidetta capacità «attenuante» altresì ai modelli organizzativi e gestionali generali ex vigente art. 6 d.lgs. 231/2001.

Con l'avvertenza, per quel che qui importa, che, ove la risposta all'anzidetto quesito fosse negativa, ci si dovrà necessariamente chiedere altresì quale potrà essere la ratio giustificatrice di questa evidente disparità di trattamento.

Quanto al nuovo art. 6-bis d.lgs. n. 231/2001, l'ambito d'applicazione soggettiva della citata disposizione fa espressamente riferimento agli «enti che svolgono taluna delle attività di cui all'articolo 3 del Regolamento (CE) n. 178/2002 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 28 gennaio 2002».

In particolare, l'art. 3, n. 2 Reg (CE) n. 178/2002 dispone che, per “impresa alimentare” si intende

ogni soggetto pubblico o privato, con o senza fini di lucro, che svolge una qualsiasi delle attività connesse ad una delle fasi di produzione, trasformazione e distribuzione degli alimenti; e l'art. 3, n. 3) definisce “operatore del settore alimentare”, la persona fisica o giuridica responsabile di garantire il rispetto delle disposizioni della legislazione alimentare nell'impresa.

La norma indica, quindi, come debba essere attuata l'implementazione del sistema aziendale: la società deve assicurare «l'applicazione di un sistema aziendale per l'adempimento di tutti gli obblighi giuridici, previsti a livello nazionale e sovranazionale, relativi:

a) al rispetto dei requisiti relativi alla fornitura di informazioni sugli alimenti;

b) alle attività di verifica sui contenuti delle comunicazioni pubblicitarie al fine di garantire la coerenza degli stessi rispetto alle caratteristiche del prodotto;

c) alle attività di vigilanza con riferimento alla rintracciabilità, ossia alla possibilità di ricostruire e di seguire il percorso di un prodotto alimentare attraverso tutte le fasi della produzione, della trasformazione e della distribuzione;

d) alle attività di controllo sui prodotti alimentari, finalizzate a garantire la qualità, la sicurezza e l'integrità dei prodotti e delle loro confezioni in tutte le fasi della filiera;

e) alle procedure di ritiro o di richiamo dei prodotti alimentari importati, prodotti, trasformati, lavorati o distribuiti non conformi ai requisiti di sicurezza degli alimenti;

f) alle attività di valutazione e di gestione del rischio, compiendo adeguate scelte di prevenzione e di controllo;

g) alle periodiche verifiche sull'effettività e sull'adeguatezza del modello».

Com'è agevole constatare, eccezion fattasi per le previsioni proprie delle ultime due lettere supra menzionate – i.e. lett. f) e g) –, che passano in rassegna requisiti comuni anche ai modelli organizzativi e gestionali generali, tutte le altre previsioni citate introducono una nuova disciplina speciale integralmente costruita a partire da obblighi sovranazionali di derivazione euro-unitaria.

Il comma 2 del nuovo art. 6 bis d.lgs. 231/2001 prevede alcuni requisiti minimi tassativi che, a seconda della «natura e [delle] dimensioni dell'organizzazione e del tipo di attività», l'adottando modello organizzativo e gestionale agroalimentare dovrà necessariamente prevedere.

Il riferimento, più specificamente, è qui a:

a) «idonei sistemi di registrazione dell'avvenuta effettuazione delle attività ivi prescritte;

b) un'articolazione di funzioni che assicuri le competenze tecniche e i poteri necessari per la verifica, la valutazione, la gestione e il controllo del rischio, nonché un sistema disciplinare idoneo a sanzionare il mancato rispetto delle misure indicate nel modello;

c) un idoneo sistema di vigilanza e di controllo sull'attuazione del modello e sul mantenimento nel tempo delle condizioni di idoneità delle misure adottate […]».

Come già ricordato supra, i tre punti menzionati appaiono chiaramente mutuati dall'art. 30 commi 2, 3 e 4 d.lgs. 81/2008; con il citato articolo, infatti, gli stessi non condividono unicamente il testo, che è pressoché identico, ma anche l'intervenuta positivizzazione, da parte degl'ideatori della riforma, di quelli che sono i classici requisiti già richiesti dalla giurisprudenza in materia di modelli organizzativi e gestionali generali ex vigente art. 6 d.lgs. 231/2001.

In conclusione

La previsione in fieri si limita, dunque, ad introdurre un contenuto tassativo di idoneità del modello organizzativo per le imprese alimentari, come, del resto, suggerito dalla collocazione sistematica subito dopo la disposizione che regola il rapporto tra reato, responsabilità dell'ente e (appunto) l'idoneità del modello organizzativo.

Il testo legislativo in discussione non pare, tuttavia, essersi adeguatamente confrontato con quanto le realtà che operano nel settore agroalimentare hanno già realizzato, anticipando il progetto di riforma.

Già si è detto del documento Linee guida per “la rendicontazione di sostenibilità per le PMI” del maggio 2020 di Confindustria: il percorso ivi intrapreso viene portato a compimento, per quanto concerne il settore agroalimentare, con le nuove Linee guida per la costruzione dei modelli di organizzazione, gestione e controllo ai sensi del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231, rese pubbliche a giugno 2021.

Nell'appendice è dedicata un'apposita sezione all'art. 25 bis.1 d.lgs. 231/2001 – Delitti contro l'industria e il commercio, dove sono indicate le misure organizzative e normative ed in particolare l'applicazione dei seguenti controlli di carattere generale:

  • previsione nel codice etico e relativa appendice applicativa di specifiche indicazioni volte a impedire la commissione dei reati previsti dall'articolo 25-bis.1;
  • previsione di un idoneo sistema di sanzioni disciplinari (o vincoli contrattuali nel caso di terze parti) a carico dei dipendenti (o altri destinatari del modello) che violino i sistemi di controllo o le indicazioni comportamentali fornite;
  • predisposizione di adeguati strumenti organizzativi e normativi atti a prevenire e/o impedire la realizzazione dei reati previsti dall'articolo 25-bis.1 del decreto 231 da parte dei dipendenti e in particolare di quelli appartenenti alle strutture della società ritenute più esposte al rischio;
  • predisposizione di programmi di formazione, informazione e sensibilizzazione rivolti al personale al fine di diffondere una chiara consapevolezza sui rischi derivanti dalla commissione dei reati previsti dall'articolo 25-bis del decreto (ma da ritenersi applicabile anche ai reati previsti dall'articolo 25-bis.1 del decreto 231.

Viene poi previsto che, nell'espletamento delle rispettive attività e funzioni, oltre alle regole definite nel modello e nei suoi protocolli, gli organi sociali, gli amministratori, i dipendenti e i procuratori della società nonché i collaboratori e tutte le altre controparti contrattuali coinvolte nelle svolgimento delle attività a rischio sono tenuti, al fine di prevenire e impedire il verificarsi dei reati di cui agli articoli 25-bis e 25-bis.1, al rispetto delle regole e procedure aziendali emesse a regolamentazione delle attività a rischio.

Tali regole e procedure prevedono controlli specifici e concreti a mitigazione dei fattori di rischio caratteristici delle aree a rischio identificate, tra i quali, ad esempio:

  • attuazione di specifici controlli sui prodotti e sui relativi imballi (dall'analisi della composizione del prodotto fino al monitoraggio dell'ambiente della linea di produzione), finalizzati a garantire la qualità, la sicurezza e l'integrità dei prodotti e delle relative confezioni;
  • predisposizione delle dichiarazioni di conformità dei prodotti;
  • presenza di uno specifico processo di validazione delle etichette dei prodotti;
  • svolgimento di specifici audit presso i propri fornitori al fine di verificare l'adeguatezza dei sistemi utilizzati per la produzione ed il rispetto delle norme previste dalla legge;
  • presenza di uno specifico processo di gestione dei reclami;
  • svolgimento di apposite verifiche sulle quantità in ingresso, sulla qualità di stoccaggio (in termini di temperatura e umidità), sulla preparazione delle consegne in ambienti controllati e sulle quantità caricate sui camioncini, al fine di evitare che vengano distribuiti prodotti alimentari con segni distintivi mendaci o non genuini;
  • attuazione di specifiche verifiche sui contenuti delle comunicazioni pubblicitarie al fine di garantire la coerenza degli stessi rispetto alle caratteristiche del prodotto (i messaggi non devono, infatti, essere in alcun modo ingannevoli);
  • presenza di uno specifico processo di gestione delle attività di raccolta e archiviazione della documentazione relativa ai prodotti;
  • definizione di apposite procure per l'assicurazione della qualità e dell'igiene dei prodotti alimentari e per l'assicurazione della conformità a legge dei prodotti alimentari e delle materie prime;
  • previsione di procedure aziendali relative al sistema di gestione della qualità;
  • erogazione di specifici corsi di formazione sugli aspetti nutrizionali del prodotto e sulle tematiche inerenti la qualità e l'igiene dei prodotti alimentari;
  • presenza di uno specifico processo di gestione delle contestazioni.

Sempre nello stesso documento, tra le Aree a rischio reato – Attività sensibili viene individuata quella dell'Acquisto e cessione di beni o servizi. Quanto ai Rapporti con fornitori e controparti contrattuali si prescrive che: occorre adottare e attuare uno strumento normativo o organizzativo che definisca modalità di qualifica, valutazione e classificazione dei fornitori e dei contrattisti. In particolare tale strumento dovrebbe:

  • definire ruoli, responsabilità e modalità di effettuazione della qualifica/valutazione/classificazione;
  • in caso di appalto, prevedere che si tenga conto oltre che dei requisiti di carattere generale e morale degli appaltatori, anche dei requisiti tecnico-professionali, ivi incluse le necessarie autorizzazioni previste dalla normativa ambientale e di salute e sicurezza;
  • prevedere che si tenga conto della rispondenza di quanto eventualmente fornito con le specifiche di acquisto e con le migliori tecnologie disponibili in tema di tutela dell'ambiente, della salute e della sicurezza.

Le Linee guida paiono assai migliorative del progetto di riforma governativo in quanto vanno anche a colmare quei deficit denunciati dalla dottrina, sopra rappresentati.

Quindi, a sommesso avviso di chi scrive, il problema che il legislatore si dovrebbe porre non è tanto quello di introdurre un nuovo modello organizzativo espressamente “pensato” per il settore agroalimentare, per altro tratto da altri ambiti non perfettamente sovrapponibili, quanto di saper coniugare il sistema 231 con altri modelli di compliance aziendale già ampiamente sperimentanti ed opportunamente incentivati.

Va per altro rimarcato che, mentre vengono inserite nel catalogo dei reati presupposto nuove fattispecie quali quelle di agropirateria e disastro sanitario, non si è però pensato di introdurre una norma analoga all'art. 25-septies, finalizzata a sanzionare gli enti in caso di omicidio colposo e lesioni colpose commesse con violazione delle norme in materia di sicurezza alimentare, nonostante l'evidente proposito di riprodurre in materia agroalimentare i medesimi principi elaborati in tema di sicurezza sul lavoro.

La riforma in discussione, così come concepita, rischia di tradursi, per le imprese, nell'introduzione di un nuovo appesantimento burocratico, incapace di cogliere e valorizzare le esperienze già in atto, idonee ad erigere uno “scudo” penale e amministrativo per le imprese virtuose.

Guida all'approfondimento

Rusconi Giorgio e Cozzolino Giulia, Reati agroalimentari: la (mancata) abrogazione della legge n. 283/1962, www.quotidianogiuridico.it, 30 marzo 2021

Ciro Santoriello, Reati alimentari e responsabilità della persona giuridica, in La responsabilità amministrativa delle società e degli enti, 2014, 1.

Cinzia Catrini, Riflessioni sulla codifica di un “peculiare” modello di gestione e organizzazione per il comparto alimentare: limiti attuali, prospettive di riforma e spunti comparatistici, in Responsabilità degli enti: problematiche e prospettive di riforma a venti anni dal d.lgs. 231/2001, Giurisprudenza Penale 2021, 1-bis.

Federica Girinelli, La gestione del rischio alimentare: certezze consolidate e prospettive per il futuro, in Diritto e giurisprudenza agraria alimentare e dell'ambiente, Numero 5 2019

Stefano A. Cerrato, Risikogesellschaft e corporate governance: prolegomeni sulla costruzione degli assetti organizzativi per la prevenzione dei rischi. Il caso delle imprese agroalimentari, in Rivista delle Società, fasc.1, 1 febbraio 2019, pag. 149

Vittore d'Acquarone, Riccardo Roscini-Vitali, Riflessioni sulle specificità del modello organizzativo nel settore agroalimentare ed enologico in particolare, in La responsabilità amministrativa delle società e degli enti - 1/2018

Guido Sola e Guglielmo Guerrieri, Responsabilità amministrativa degli enti per fatti dipendenti da reato-agroalimentare e nuovi modelli organizzativi e gestionali ex art. 6 bis d.lgs. 231/2001, in Giurisprudenza Penale Web, 2021, 3 Rivista, n.2/2018 da Vittore d'Acquarone e Riccardo Roscini-Vitali, Sistemi di diversione processuale e D.LGS. 231/2001: spunti comparativi

Massimo Ceresa Gastaldo, Legalità d'impresa e processo penale. i paradossi di una giustizia implacabile in un caso su dieci, in DPC, 7 giugno 2019

Gaetano Stea, Elementi per un'analisi del reato alimentare tra rischio, pericolo e necessità di prevenzione, Rivista di diritto alimentare numero 2 Aprile-Giugno 2018

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