L'eccessivo formalismo rende il processo non equo. Quando la forma non è sostanza: ovvero, se a “difendersi dal processo” non è l'imputato ma il giudice

05 Novembre 2021

“Nel diritto la forma è sostanza”: l'affermazione, nota per evidenziare la necessità imprescindibile del rispetto della forma nell'applicazione del diritto, non può certamente giustificare ogni eccesso di formalismo che abbia l'effetto di non rendere concreto ed effettivo il diritto al ricorso alla Giustizia.
La sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo

Nel diritto la forma è sostanza”: l'affermazione, nota per evidenziare la necessità imprescindibile del rispetto della forma nell'applicazione del diritto, non può certamente giustificare ogni eccesso di formalismo che abbia l'effetto di non rendere concreto ed effettivo il diritto al ricorso alla Giustizia.

È questo, ridotto ai minimi termini, il principio ricavabile dalla recente sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo (sentenza del 28 ottobre 2021 nel caso Succi c/Italia – ric. n. 55064/11), che ha riscontrato la violazione dell'art. 6 CEDU – e dunque del diritto ad un equo processo – per l'eccessivo formalismo dei criteri di redazione del ricorso per cassazione nel procedimento civile.

La pronuncia, che nel giudicare congiuntamente tre ricorsi che deducevano doglianze analoghe, ne ha accolto solo uno, ha sanzionato l'Italia sul presupposto che, sotto taluni profili, in materia di ricorso per cassazione civile sia stato attribuito maggior peso alla forma che alla sostanza.

La Corte di Strasburgo sviluppa il suo ragionamento in relazione al principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, che riconosce «destinato a semplificare l'attività della Corte di Cassazione e allo stesso tempo a garantire la certezza del diritto e la corretta amministrazione della giustizia», ma procede altresì a verificare se le restrizioni all'accesso alla Suprema Corte di Cassazione dipendenti dall'applicazione di tale principio siano effettivamente proporzionate.

I Giudici della Convenzione, infatti, muovono dal presupposto che il principio di autosufficienza permette alla Corte di cassazione di apprezzare «meglio il contenuto dei ricorsi», garantendo «un miglior uso delle risorse disponibili»; si mostrano consapevoli del fatto che «tale approccio derivi dalla natura stessa del ricorso in Cassazione, che protegge, da un lato, l'interesse del contendente a vedere accolte le sue critiche alla decisione impugnata e, dall'altro, l'interesse generale all'annullamento di una decisione che potrebbe minare la corretta interpretazione del diritto»; ammettono, per queste ragioni, «che le condizioni di ammissibilità di un ricorso in cassazione possono essere più rigorose di quelle di un appello» e contestualizzano il tutto ricordando il «grande arretrato» e il «notevole afflusso di ricorsi» presentati al Giudice di legittimità, che nel 2015 aveva spinto addirittura alla firma di un protocollo tra la Corte di cassazione e il Consiglio nazionale forense.

Ciò nonostante, però, la Corte europea dei diritti dell'uomo afferma un principio fondamentale: «anche se il carico di lavoro della Corte di cassazione come descritto dal governo è suscettibile di causare difficoltà nel funzionamento ordinario del trattamento dei ricorsi, resta il fatto che le limitazioni all'accesso alle corti di cassazione non devono essere interpretate in modo troppo formale per limitare il diritto di accesso a un tribunale in modo tale o in misura tale da incidere sulla sostanza stessa di tale diritto». E, alla luce di questo principio, riconosce che, almeno fino al 2012, le pronunce del Giudice di legittimità hanno rivelato «una tendenza dell'Alta Corte a concentrarsi su aspetti formali che non sembrano rispondere allo scopo legittimo individuato […], in particolare per quanto riguarda l'obbligo di trascrivere integralmente i documenti inclusi nei motivi di ricorso, e il requisito della prevedibilità della restrizione».

Tralasciando gli aspetti specifici dei casi oggetto dei ricorsi decisi con la sentenza de qua (maggiormente rilevanti in un'ottica processualcivilistica), il precipitato giuridico delle affermazioni della Corte europea è il seguente: le norme che limitano l'accesso a un tribunale e le procedure che disciplinano l'esercizio del potere di impugnazione devono essere chiare e le conseguenze che vengono fatte derivare dalla loro violazione devono essere prevedibili e proporzionate; e i criteri di redazione del ricorso per cassazione, a lungo imposti dalla giurisprudenza sulla base della normativa nazionale, non avevano, nel caso esaminato, queste caratteristiche.

Una situazione, quella italiana, che impedisce la formulazione di un parallelismo con i “sistemi di filtro” dei ricorsi utilizzati in altri paesi dell'Unione; senza considerare che, secondo i Giudici di Strasburgo, «nemmeno i criteri relativi alla redazione del ricorso possono essere comparati, come vorrebbe il governo […], con il “sistema di filtro” e le condizioni di ammissibilità della domanda davanti alla Corte. L'articolo 47 del Regolamento della Corte prevede che ogni domanda presentata ai sensi dell'articolo 34 della Convenzione deve essere presentata sul formulario fornito dalla cancelleria, secondo criteri formali chiari e prevedibili stabiliti in documenti consultabili da ogni richiedente».

La Corte, in buona sostanza, ribadisce il principio di “legalità processuale”, che troppo spesso la stessa Giurisprudenza trascura abbandonandosi ad interpretazioni creative, e che, a ben vedere, impone una valutazione delle norme processuali analoga a quella imposta, sul piano sostanziale, dall'art. 25 Cost.

Il problema di fondo: l'eccesso di formalismo e la mancanza di proporzione della sanzione processuale rispetto alla violazione

La sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo fa riflettere, perché restituisce una visione dell'accesso all'impugnazione di un provvedimento moderata e bilanciata, che potremmo definire di “giustizia sostanziale”. I Giudici di Strasburgo, nel verificare «se il rigetto di un ricorso in cassazione per inammissibilità abbia intaccato la sostanza stessa del "diritto" del ricorrente a un tribunale», spostano l'attenzione dalla forma alla sostanza, così ribadendo che “nel diritto la forma è sostanza”.

La Corte riconosce necessario, talvolta imprescindibile e connaturato alla tipologia dell'impugnazione proposta, un meccanismo di “filtro” dei ricorsi, ma sempre a condizione che esso sia noto al ricorrente nella sua effettiva portata, in modo da consentirgli di redigere un ricorso ammissibile. Contemporaneamente, questo sistema di filtro del ricorso deve avere delle conseguenze proporzionate, nel senso di non porsi come inutile orpello capace esclusivamente di deflazionare il carico processuale ai danni di chi cerchi di accedere alla Giustizia.

Il monito è, dunque, quello di prevedere ipotesi di inammissibilità nei soli casi in cui tale sanzione sia effettivamente proporzionata alla violazione; e soprattutto, di prevedere a monte regole chiare per la redazione dei ricorsi, senza abbandonarsi ad interpretazioni giurisprudenziali che talvolta, come accaduto in materia di principio di autosufficienza, hanno l'effetto di rendere ancor più difficile la comprensione dell'effettiva portata del principio.

Altrimenti, viene da dire, si corre il rischio di poter pensare che in questi casi la sanzione dell'inammissibilità rappresenti solo uno strumento usato dal giudicante per “difendersi dal processo”: accusa, quest'ultima, che viene spesso mossa, del tutto ingiustamente, all'imputato che cerca di far valere una causa di invalidità. Contrariamente a quanto si continua a ripetere, infatti, “difendersi dal processo” è atto doveroso che è posto in essere quando il processo non ha le caratteristiche dell'“equo processo”. D'altronde, solo un processo non equo pone le condizioni per una difesa “dal processo”; un processo equo, nel quale le garanzie operano appieno, infatti, rende ictu oculi vano ogni tentativo in tal senso.

Quali ricadute sul processo penale?

Seppure la pronuncia dei giudici di Strasburgo consegua ad una violazione dell'art. 6 CEDU in riferimento al processo civile, la stessa rappresenta spunto di riflessione anche in relazione al processo penale. Non solo perché, talvolta, l'interpretazione delle condizioni di inammissibilità del ricorso è, in generale, improntata con troppa rigidità al rispetto della forma; ma anche perché, nello specifico, proprio il principio di autosufficienza del ricorso, nato in ambito civile, è stato da tempo recepito nel processo penale.

Anche in quest'ultimo ambito, si è a lungo definita “autosufficienza del ricorso” quella caratteristica che il ricorso assume nel momento in cui la Corte di cassazione, al fine di decidere sull'impugnazione, può limitarsi alla lettura del suo solo testo – o dei suoi allegati – senza la necessità di andare alla ricerca, nell'intero fascicolo processuale, degli atti che contengono gli elementi posti a sostegno delle ragioni di doglianza. Un canone che, secondo la giurisprudenza, assume rilevanza, a pena di inammissibilità, in presenza di censure che postulano, per la loro valutazione, l'esame di atti estranei al ricorso, al quale essi, al fine dell'autosufficienza, devono venire allegati o nel quale devono essere integralmente trascritti.

Questa interpretazione del principio di autosufficienza nel settore penale ha imposto talvolta la trascrizione, o la riproduzione xerografica, o l'allegazione integrale al ricorso, a cura del ricorrente, degli atti ai quali il ricorso fa riferimento, così come imposto nel processo civile da quella giurisprudenza di legittimità giudicata, dalla Corte europea, come eccessivamente formalista e in contrasto con i principi dell'equo processo.

A ben vedere, però, una siffatta interpretazione oggi non deve ritenersi più attuale alla luce del nuovo art. 165-bis norme att. c.p.p., introdotto dalla legge 23 giugno 2017, n. 103 (cosiddetta “riforma Orlando”), con la conseguenza che oggi un ricorso deve dirsi autosufficiente, in riferimento ai motivi ex art. 606 comma 1 lett. c) c.p.p. (errores in procedendo), qualora nell'esporre le ragioni della censura, indichi specificamente gli atti da esaminare e la loro sede processuale; ovvero, in riferimento ai cui motivi ex art. 606 comma 1 lett. e), c.p.p. (Vizi della motivazione), qualora, nell'argomentare la doglianza attraverso il richiamo di singoli atti e la loro trascrizione nei limiti necessari all'illustrazione della stessa, li individui specificamente, indicando il momento in cui la prova è stata assunta (incidente probatorio, dibattimento di primo o secondo grado). Questo è, d'altronde, quanto può legittimamente esigersi oggi dal ricorrente, considerato che anche richiedere l'indicazione di «faldone, pagina, affogliazione, ecc.», come fa il protocollo del 2015, significa pretendere dal ricorrente ciò che spesso, in virtù del disordine regnante nei fascicoli processuali, è difficile se non impossibile offrire.

Nel processo penale, dunque, secondo l'attuale normativa, il “principio di autosufficienza” non rende più “tecnicamente” autosufficiente il ricorso, imponendo comunque l'accesso agli atti; in buona sostanza, non può più parlarsi di autosufficienza con quella accezione che il termine avrebbe dovuto avere all'inizio e che per semantica gli è proprio. L'autosufficienza, oggi, postula, infatti, legittimamente, da parte del ricorrente, solo l'indicazione dell'atto posto a base della censura e, pertanto, si risolve nella chiarezza, specificità e precisione del motivo.

L'indicazione specifica degli atti è richiesta in modo da consentire alla cancelleria la formazione di un fascicolo che li contenga da allegare al ricorso; fascicolo che verrà trasmesso alla Suprema Corte per il loro esame diretto ai sensi dell'art. 165-bis norme att. c.p.p.: ciò sarà consentito, in materia di vizi procedurali, in quanto è orientamento granitico della giurisprudenza di legittimità quello secondo cui la Corte di cassazione è giudice del fatto processuale (ex pluribus cfr. Cass., Sez. V, 10 ottobre 2006, n. 36773, Pace, in C.E.D. Cass., n. 234609; Cass., Sez. VI, 4 maggio 2006, n. 33519, Acampora et al., in C.E.D. Cass., n. 234399); in presenza di un vizio di motivazione, invece, nei limiti in cui è oggi consentito a seguito delle modifiche apportate all'art. 606 comma 1 lett. e) c.p.p. dalla legge 20 febbraio 2006, n. 46.

Pertanto, se nel concetto di autosufficienza la Suprema Corte farà ancorarientrare la necessità di trascrizione integrale o di allegazione, da parte dell'impugnante, dell'atto sul quale è fondato il vizio censurato ci troveremo chiaramente di fronte ad un adempimento normativamente non previsto, che non risponde ad altro se non ad una agevolazione, sotto il profilo operativo, dei compiti della cancelleria del giudice a quo e dell'attività di valutazione del giudice ad quem, dal quale certamente non potrà farsi discendere l'inammissibilità del ricorso, pena la violazione dell'art. 6 CEDU.

Allegazione o trascrizione integrale dell'atto su cui la censura si fonda, allorché siano imposte dalla giurisprudenza a pena di inammissibilità, rappresentano, d'altronde, una illegittima prassi giurisprudenziale dagli evidenti ed ingiustificati effetti deflativi, che introduce un ingiustificato onere aggiuntivo gravante sul ricorrente al di fuori di una previsione normativa, anzi in contrasto con essa. Verrebbe da dire: un onere aggiuntivo illegittimo, sproporzionato, adottato in spregio al principio di tassatività, al cui inadempimento non può conseguire alcun tipo di sanzione, considerato che il sistema respinge categoricamente cause di inammissibilità di matrice giurisprudenziale.

Non stupisce, d'altronde, che la “riforma Orlando”, che ha inciso sul segmento delle impugnazioni con l'obiettivo di garantireefficienza e speditezza del sistema, tentando di intervenire, oltre che sulle tempistiche, anche sui contenuti dell'impugnazione, abbia in un certo senso rafforzato il significato del requisito di specificità dei motivi ma al contempo, con l'inserimento dell'art. 165-bis norme att. c.p.p., abbia posto le condizioni per ritenere illegittimo un onere di allegazione a carico del ricorrente.

Pertanto, se, fino all'introduzione della predetta norma di attuazione, un ricorso dotato di motivi chiari e specifici ma privo dell'integrale trascrizione o allegazione è stato sanzionato con l'inammissibilità nel silenzio della legge, con la sua entrata in vigore ciò non può più accadere. L'esistenza di una previsione sul punto, infatti, deve impedire creative interpretazioni giurisprudenziali che il vuoto normativo aveva, invece, favorito; esse, infatti, sarebbero ora non più praeter legem ma contra legem e, pertanto, lesive del diritto ad un giusto processo, che, come ricorda la nostra Costituzione, è regolato dalla legge, non dalla giurisprudenza.

Quando l'impostazione formalistica è radicata…

Ma se finora ad essere criticato è stato più l'atteggiamento della giurisprudenza che quello del legislatore, anche quest'ultimo non può non essere censurato: assistiamo, infatti, talvolta ad un ricorso alla sanzione dell'inammissibilità totalmente sproporzionato.

L'invito è a riflettere sull'attuale previsione emergenziale in materia di presentazione delle impugnazioni per via telematica. L'art. 24 d.l. 28 ottobre 2020, n. 137, convertito dalla l. 18 dicembre 2020, n. 176, infatti, prevede innanzitutto che gli eventuali allegati all'atto di impugnazione siano trasmessi in «copia informatica per immagine» che deve essere sottoscritta digitalmente dal difensore per conformità all'originale: un'inedita attività di conformizzazione per il processo penale, della quale non si è ancora riusciti a rinvenire la base giuridica.

Ma, come se ciò non bastasse, la stessa disposizione prevede, ad integrazione della previsione di cui all'art. 591 c.p.p., che già individua le ipotesi di inammissibilità dell'atto, che tale causa di invalidità ricorra anche nell'ipotesi in cui le copie informatiche per immagine non siano sottoscritte digitalmente dal difensore per conformità all'originale. E ciò pare davvero eccessivo, per sproporzione, e non compatibile con l'equo processo come afferma la Corte europea dei diritti dell'uomo, considerata la gravità della sanzione e la sua capacità di colpire l'atto in toto pur a fronte di una mancanza che potrebbe essere irrilevante o, comunque, potrebbe essere superata dalla non valutazione del singolo motivo di impugnazione che all'allegato fa riferimento.

È proprio il caso, dunque, di creare le condizioni per una nuova condanna della Corte di Strasburgo?

Guida all'approfondimento

M. M. Alma - D. Chindemi, Ricorso per cassazione. Guida all'individuazione degli errores rilevabili, Altalex, 2017

S. Beltrani, Il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione dopo il d.lgs. 11/2018, in www.ilpenalista.it

A. Capone, Autosufficienza del ricorso e specificità dei motivi in Cassazione, in Proc. pen. e giust., 2014, n. 4

A. Chelo, L'autosufficienza del ricorso per cassazione nel processo penale, Cedam, 2020

G. Conti, L'autosufficienza del ricorso nel giudizio penale di cassazione, in Cass. pen., 2017

P. Ferrua, L'inammissibilità del ricorso: a proposito dei rapporti tra diritto “vigente e diritto vivente”, in Cass. pen., 2017

P. Ferrua, Il giusto processo tra governo della legge ed egemonia del potere giudiziario, in Dir. pen. e proc., 2020

A. Gerardi, L'inammissibilità delle impugnazioni. Evoluzione o involuzione?, in Arch. pen., 2019, n. 1 web, p. 11,

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