Commette istigazione alla pedofila il soggetto che descrive dettagliatamente sul web rapporti sessuali con minori
17 Novembre 2021
Massima
La norma dell'art. 414-bis c.p. integra un'ipotesi speciale di istigazione a delinquere, qualificata dalla natura dei reati oggetto della condotta; entrambe le norme puniscono la stessa condotta (chiunque pubblicamente istiga o pubblicamente fa apologia); la pena per l'art. 414-bis c.p. risulta più grave di quella dell'art. 414 c.p. La materialità della condotta, quindi, non può essere diversa per le due fattispecie. Si tratta di reati di pericolo concreto e, ai fini dell'affermazione della rilevanza penale delle condotte indicate, risulta necessario accertare l'idoneità di esse a provocare l'effettiva commissione dei delitti che per l'art. 414-bis c.p. sono in tale norma specificamente elencati. La soglia di rilevanza penale non può, infatti, arretrare fino a ricomprendere condotte non pericolose, in concreto. Per l'elemento soggettivo deve sussistere l'intenzione di istigare alla commissione concreta dei reati. Il caso
Il caso attiene alla condanna di un imputato per il delitto di istigazione a pratiche di pedofilia e di pedopornografia a seguito della pubblicazione su un dominio accessibile a tutti di un racconto a contenuto erotico e pedofilo utilizzando uno specifico nickname associato ad un account. Specificamente la Corte di appello di Firenze ha ritenuta fondata l'incriminazione ai sensi dell'art. 414-bis c.p. di pubblica istigazione a commettere atti di abuso sessuale in danno di minori nonostante l'imputato avesse inserito prima del racconto l'avvertenza testuale “l'autore non condona in alcun modo le molestie su minori e crede fermamente che esse vadano punite dalla legge nella maniera più severa”. Ciò in quanto nel corpo del racconto erano presenti minuziose descrizioni di rapporti sessuali incestuosi tra un adulto - padre - e una minore di 9 anni – figlia, accuratamente accompagnate da un suggestivo resoconto emozionale espressivo di piacere, eccitazione ed esaltazione. Ad esito del giudizio il giudice di secondo grado, con sentenza del 29 ottobre 2020, ha parzialmente riformato la decisione del giudice per l'udienza preliminare del Tribunale di Firenze del 25 febbraio 2016 - giudizio abbreviato - rideterminando la pena nei confronti dell'accusato in anni 1 di reclusione, relativamente al reato di cui all'art. 414-bis c.p. L'imputato nel ricorso per Cassazione ha denunziato la mancata applicazione da parte della Corte territoriale dei principi espressi dalla giurisprudenza in relazione alla fattispecie di cui all'art. 414 c.p., riferibili anche a quella disciplinata dall'art. 414-bis c.p., perché non avrebbe effettuato l'accertamento in concreto dell'idoneità della sua condotta a far sorgere o rafforzare nei lettori il proposito di commettere uno o più fatti di reato indicati dall'art. 414-bis c.p. e nell'aver individuato, quale elemento soggettivo, il dolo generico in luogo di quello specifico. La questione
La questione riguarda principalmente due aspetti: il primo concerne la necessità di operare un accertamento in concreto dell'idoneità della condotta del reo a far sorgere o rafforzare nei destinatari il proposito di commettere uno o più fatti di reato indicati dall'art. 414-bis c.p. per poter affermare la sua penale responsabilità. Secondo la difesa l'avvenuta concreta istigazione dei lettori a commettere uno dei delitti indicati dalla norma incriminatrice non può ritenersi acclarata esclusivamente dai loro commenti riportati in relazione al racconto. In particolare, non sarebbe logicamente deducibile che questi ultimi siano stati indotti a replicare l'osceno comportamento descritto nella narrazione solo a seguito della lettura dello scritto. I commenti citati puntualmente nella sentenza impugnata si limiterebbero, infatti, a richiedere esclusivamente un seguito alla narrazione, ma non manifesterebbero l'intenzione dei loro autori di realizzare condotte simili a quelle raccontate. Il secondo profilo, invece, attiene all'individuazione della tipologia di dolo, generico o specifico, necessario ai fini della consumazione del reato. Secondo la difesa, infatti, per il reato di cui all'art. 414-bis c.p., al pari di quello previsto dall'art. 414, occorrerebbe un dolo specifico (ovvero l'intenzione di istigare). Quest'ultimo, poi, non si concilierebbe, ad avviso del ricorrente, con l'avvertenza inserita da lui nella parte iniziale del suo racconto (“l'autore non condona in alcun modo le molestie su minori e crede fermamente che esse vadano punite dalla legge nella maniera più severa”), circostanza questa che, se certamente non rende meno moralmente deprecabile la condotta, risulterebbe tuttavia incompatibile con il dolo specifico. Le soluzioni giuridiche
In primo luogo, la Corte di Cassazione premette che i principi enucleati dalla giurisprudenza in riferimento al reato contemplato all'art. 414 c.p. devono essere ritenuti applicabili “con ragionevolezza” anche alla fattispecie di cui all'art. 414-bis c.p. Ciò in quanto la descrizione della condotta contenuta nelle due summenzionate norme è sostanzialmente identica: l'art. 414 c.p. punisce “Chiunque pubblicamente istiga” e “chi pubblicamente fa l'apologia”, mentre l'art. 414-bis c.p. sanziona “Chiunque, con qualsiasi mezzo e con qualsiasi forma di espressione, pubblicamente istiga a commettere” e “chi pubblicamente fa l'apologia”. Gli elementi differenziali devono essere individuati da un lato nel diverso trattamento sanzionatorio, più grave per l'istigazione a pratiche di pedofilia e di pedopornografia (tanto che si è anche discusso se il fatto previsto dalla norma specifica potesse, o no, considerarsi solo aggravante della previsione generale), dall'altro nella previsione contenuta al comma 3, dell'art. 414-bis c.p., laddove si chiarisce che: “Non possono essere invocate, a propria scusa, ragioni o finalità di carattere artistico, letterario, storico o di costume”. Successivamente la Suprema Corte chiarisce che non è accoglibile l'impostazione sostenuta dalla difesa in merito all'elemento soggettivo, per cui, ai fini della consumazione del reato di cui all'art. 414-bis c.p., al pari di quello previsto dall'art. 414 c.p., deve sussistere un dolo specifico, ovvero l'intenzione di istigare alla commissione concreta dei reati. Per la Cassazione quest'ultima ricostruzione non risulta corretta sia in relazione all'art. 414 e sia all'art. 414-bis c.p. poiché entrambe le norme non richiedono un dolo specifico, ma solo un pericolo concreto di indurre altri alla commissione di reati analoghi a quelli istigati o di cui si è fatta apologia. Il dolo istigatorio, infatti, consiste nella coscienza e volontà di turbare l'ordine pubblico e deve necessariamente essere analizzato in relazione alla condotta: quest'ultima deve essere caratterizzata da una forza suggestiva e persuasiva tale da poter stimolare nell'animo dei destinatari la commissione dei fatti criminosi propalati o esaltati. In merito la Corte ricorda che le disposizioni di cui agli artt. 414 e 414-bis c.p. (come del 415 c.p.) costituiscono un'eccezione alla regola generale prescritta dall'art. 115 c.p. per cui è penalmente irrilevante l'istigazione non accolta o, comunque, accolta ma non seguita dalla commissione del reato istigato. Tale eccezione è giustificata dalla rinvenuta esigenza di approntare una tutela anticipata del bene protetto dalla norma. Pertanto, al fine della consumazione dei reati di cui agli artt. 414 e 414-bis c.p. non è significativa la non commissione del reato istigato, che può anche essere realizzato (c.d. indifferenza rispetto agli esiti della manifestazione istigativa). L'istigazione deve, quindi, essere accertata ex ante e non ex post come nella previsione generale dell'art. 115 c.p. Di conseguenza entrambe le due fattispecie (artt. 414 e 414-bis c.p.) prevedono un'imputazione soggettiva a titolo di dolo generico: deve, pertanto, sussistere la coscienza e la volontà dell'agente di istigare pubblicamente fatti previsti come reati, oppure di fare apologia di delitti, con la consapevolezza e la volontà degli effetti di tale condotta. L'intento dell'agente di provocare la commissione del reato oggetto di istigazione o di apologia, infatti, non è espressione di un dolo specifico, ma concorre alla descrizione della fattispecie oggettiva e ne connota la tipicità, con sfumature certamente di natura soggettiva. L'altro profilo dirimente ai fini della corretta applicazione della norma affrontato dalla Cassazione attiene all'accertamento della tipologia di condotta posta in essere, la quale deve qualificarsi per la sua capacità di determinare un rischio effettivo della consumazione di altri reati lesivi di interessi omologhi a quelli istigati. Il comportamento dell'agente deve essere tale (per il suo contenuto intrinseco, per la condizione personale dell'autore e per le circostanze di fatto in cui si esplica) da determinare il rischio, non teorico, ma effettivo (concreto) della consumazione di altri reati. I delitti di cui agli artt. 414 e 414-bis c.p. sono entrambi qualificabili come reati di pericolo concreto per cui, ai fini dell'affermazione della rilevanza penale delle condotte al loro interno riportate, occorre accertare la loro idoneità a provocare l'effettiva commissione dei delitti specificamente elencati nel corpo del testo. La soglia di rilevanza penale non può, infatti, arretrare fino a ricomprendere condotte non pericolose, in concreto. Più specificamente, nel caso dell'art. 414-bisc.p. occorre tenere in considerazione il disposto del comma 3 ai sensi del quale il reo non può invocare “a propria scusa, ragioni o finalità di carattere artistico, letterario, storico o di costume”. Quest'ultima disposizione impone al giudice di effettuare una verifica particolarmente profonda e concreta, in relazione ad un possibile conflitto con i contenuti dell'art. 21 Cost., nella parte in cui sancisce il “diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”. Al riguardo la Corte di Cassazione richiama la sentenza n. 65/1970 nella quale la Corte Costituzionale ha rilevato come “L'apologia punibile ai sensi dell'art. 414 c.p. non è, dunque, la manifestazione di pensiero pura e semplice, ma quella che per le sue modalità integri comportamento concretamente idoneo a provocare la commissione di delitti. Si vuole ricordare, a chiarimento, che la libertà di manifestazione del pensiero, garantita dall'art. 21 Costituzionale, comma 1, trova i suoi limiti (...) nella necessità di proteggere altri beni di rilievo costituzionale e nell'esigenza di prevenire e far cessare turbamenti della sicurezza pubblica (sentenze nn. 19/1962, 87/1966 e 84/1969)”. La Cassazione, pertanto, conclude che il giudice di secondo grado (e quello di primo grado) ha fatto applicazione corretta dei principi sopraesposti in quanto ha evidenziato come “ladescrizione dell'atto sessuale, nei minimi dettagli, dai preliminari alla fellatio, al sesso orale praticato sulla figlia, alla sua penetrazione e alla successiva eiaculazione del genitore sulla pancia della bambina, il tutto unito alla rappresentazione, reiterata, della condizione estatica della minore (...) con un grado di partecipazione e adesione dell'autore che anche una fugace lettura rende palese, costituisce un elemento che, letto in uno agli altri valutati dal primo giudice, dimostrano con chiarezza la potenzialità emulativa del narrato”. Da tali elementi, infatti, è possibile ravvisare la sussistenza di un concreto pericolo “non seriamente contestabile” di emulazione e riproduzione di quanto rappresentato. La Corte d'appello, poi, a riprova della concretezza del pericolo (verificata operando con giudizio ex ante e, comunque, scollegato dalla effettiva commissione dei reati da parte dei lettori) ha richiamato nella sentenza, puntualmente riportandone i contenuti, “i commenti alla storia, in sé significativi della forza e dell'efficacia concreta e non solo teorica dello scritto”. Osservazioni
Il primo passaggio logico operato dalla Cassazione è di fondamentale importanza per una corretta ricostruzione dell'ambito di operatività di una norma che è stata introdotta da meno di un decennio, e che sconta, pertanto, la mancanza di un consolidamento degli indirizzi esegetici che la riguardano, nonché per sciogliere i nodi interpretativi prospettati dal ricorrente: i principi giurisprudenziali elaborati in riferimento al delitto previsto dall'art. 414 c.p. sono applicabili “con ragionevolezza” anche alla fattispecie di cui all'art. 414-bis c.p. L'espressione “con ragionevolezza” non sta ad indicare solamente un doveroso atteggiamento prudenziale da parte della Corte, ma più specificamente la tipologia di approccio metodologico che la Corte stessa ritiene debba essere utilizzato per interpretare correttamente la norma in esame. Il ricorso ai principi giurisprudenziali sopra menzionati deve essere logicamente preceduto da una attenta verifica della sua fattibilità: nel caso di specie è possibile in quanto il delitto di istigazione a pratiche di pedofilia e pedopornografia presenta la stessa struttura dei reati di istigazione ed apologia previsti all'art. 414, e ciò al dichiarato fine «di evitare qualsiasi problema circa la costituzionalità della norma sotto il profilo dell'offensività» (sul punto si rinvia ai lavori preparatori). Ed è proprio il profilo dell'offensività quello che risulta più problematico da un punto di vista ricostruttivo della fattispecie, per cui la sopra riportata precisazione iniziale della Corte appare dirimente sotto il profilo esegetico, in quanto costituisce una sorta di “bussola” per l'interprete. L'adozione da parte del legislatore della stessa tipologia di struttura prescelta per la fattispecie di cui all'art. 414 c.p., trattandosi di reati di pericolo, comporta, infatti, la necessaria anticipazione della soglia del penalmente rilevante ad azioni antecedenti rispetto alle tipiche condotte di mercificazione del corpo dei minori e di lesione della loro libertà sessuale. Tale anticipazione da un lato è giustificata sia dalla ratio dell'introduzione del delitto de quo nel Titolo V del Libro II del codice – rinvenibile, come esplicitato dai lavori preparatori della Camera dei Deputati, nella finalità di combattere più efficacemente i reati prodromici e connessi alla pedofilia e garantire una tutela rafforzata ai minori – e sia dalla tipologia di beni giuridici tutelati (si è in presenza, infatti, di delitto plurioffensivo, volto a garantire sia l'interesse del soggetto minorenne ad un ordinato sviluppo psico-fisico sia il sentimento collettivo di sicurezza, nonché l'ordine pubblico, inteso come insieme dei valori fondamentali della comunità, turbati dalle condotte punite dall'art. 414-bisc.p.). Dall'altro, però, pone dei problemi esegetici in sede di ricostruzione dell'elemento oggettivo e di quello soggettivo, poiché la fattispecie contemplata dal succitato art. 414-bisc.p. è qualificata come reato di pericolo concreto: tale qualifica impone al giudice di espletare un accertamento particolarmente rigoroso in termini di concretezza ed effettiva idoneità delle condotte di istigazione o di apologia a determinare taluno alla commissione dei reati oggetto di istigazione o di apologia. Per individuare i comportamenti di istigazione a pratiche di pedofilia e pedopornografia rilevanti sotto un profilo penale la Cassazione ha, infatti, ritenuto estensibile il principio sancito dalla giurisprudenza costituzionale in relazione alla fattispecie generale di cui all'art. 414 c.p., secondo cui devono ritenersi punibili le sole attività che si rivelino concretamente idonee a provocare la commissione dei reati richiamati dall'art. 414bisc.p. (Corte Cost., n. 65/1970). In merito di particolare rilievo è il passaggio della sentenza, relativo all'elemento soggettivo, in cui la Corte di Cassazione precisa che all'interno della struttura della fattispecie si rinviene “l'intento dell'agente di provocare la commissione del reato oggetto di istigazione o di apologia. Tale condotta non esprime un dolo specifico, ma concorre alla descrizione della fattispecie oggettiva e ne connota la tipicità, con sfumature certamente di natura soggettiva”. Attraverso quest'ultima statuizione la Cassazione si pone nel solco della precedente – e costante - giurisprudenza secondo la quale ai fini della consumazione del reato di cui all'art. 414 c.p. – e, di conseguenza, in virtù dell'applicazione dei principi enucleati dalla predetta giurisprudenza anche alla fattispecie prevista dall'art. 414-bisc.p.- occorre un dolo generico consistente “nella cosciente volontà di commettere il fatto in sè, con l'intenzione di istigare alla commissione concreta di uno o più delitti, essendo del tutto irrilevanti il fine particolare perseguito ed i motivi dell'agire” (Cass. pen.,Sez. I, n. 40684/2008; Cass. pen., Sez. I, n. 10641/1997). Tale precisazione risulta dirimente ai fini della ricostruzione del corretto perimetro di applicazione della norma anche perché confuta l'argomentazione di quell'orientamento dottrinario minoritario secondo il quale l'intento dell'agente di provocare la commissione del reato oggetto di istigazione o di apologia rappresenterebbe il fine ulteriore richiesto dal dolo specifico. In merito giova ricordare, infatti, che un indirizzo risalente identificava l'elemento psicologico, richiesto per l'integrazione della fattispecie, nel dolo specifico attraverso la figura del c.d. “dolo istigatorio”, inteso come volontà di prospettare il fatto delittuoso, oggetto di istigazione o di apologia, come un modello o un esempio da imitare.
Un altro spunto interpretativo particolarmente utile s'individua nel passaggio in cui la Corte spiega che nel caso dell'art. 414-bisc.p. per individuare esattamente la condotta di reato occorre tenere in considerazione il comma 3, ai sensi del quale il reo non può invocare “a propria scusa, ragioni o finalità di carattere artistico, letterario, storico o di costume”. La ratio di tale disposizione è quella di anticipare la tutela accordata in riferimento alla sfera di intangibilità sessuale dei minori, punendo condotte idonee ad ampliare il pubblico attratto dalle pratiche di pedofilia e pedopornografia. La norma mira, infatti, a colpire un certo indirizzo culturale che, sebbene non giustifichi i crimini commessi in danno dei minori, tende a ridimensionarne la gravità facendo riferimento a precedenti letterali, storici o artistici, e, in tal modo, a modificare il giudizio dei consociati sul fenomeno della pedofilia. Tale disposizione deve essere necessariamente letta alla luce di quanto sancito dall'art. 21 Cost. perché non deve costituire “un ingiusto impedimento alla libertà di manifestare il proprio pensiero; libertà fondamentale garantita a tutti, senza distinzione di modi e di materia, dall'art. 21, comma 1, Cost.”. Per comprendere l'iter motivazionale seguito dalla Corte nella sentenza in commento occorre, pertanto, preliminarmente richiamare il contenuto che il nostro ordinamento giuridico assegna a tale libertà individuale fondamentale: quest'ultima, infatti, deve essere intesa sia in un'accezione negativa - come divieto di qualsiasi intervento limitativo di carattere pubblico o privato -, sia positiva, quale strumento attraverso cui la persona si esprime e sviluppa la propria personalità, come individuo e come componente di formazioni sociali. L'accoglimento di questa duplice accezione comporta che l'art. 21 Cost. tutela non solo le manifestazioni “pure” di pensiero, ma soprattutto quelle che hanno come scopo quello di modificare e trasformare la realtà, attraverso l'esercizio di un'influenza reciproca tra i consociati. Lo scambio delle idee libero da qualsiasi forma di compressione o di manipolazione costituisce uno dei principali pilastri di un sistema democratico, e, pertanto, deve essere garantito dall'ordinamento in tutte le sue manifestazioni. Al fine, quindi, di tutelare la libertà di espressione, occorre individuare eventuali limitazioni dell'art. 21 nella stessa Costituzionee, in particolare, in quegli interessi di rango costituzionale contrapposti, impliciti o espliciti, che in un giudizio di bilanciamento possano considerarsi prevalenti alla luce del criterio di ragionevolezza. Quest'ultimo esprime la necessità, per il rispetto dei valori costituzionali, di un bilanciamento in concreto e volta per volta dei beni giuridici in gioco e, pertanto, anche l'esigenza di farprevalere il diritto di espressione del singolo individuo se in concreto non emerge, dalla condotta oggetto di esame processuale, l'offesa al bene giuridico tutelato dalla norma penale. La Cassazione, pertanto, per interpretare correttamente il disposto dell'art. 414 c.p. alla luce dei contenuti dell'art. 21 Cost. ha richiamato le argomentazioni fornite dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 65/1970, che ha ritenuto non fondata la questione di legittimità costituzionale ed ha escluso il contrasto dell'art. 414 c.p. con l'art. 21 Cost. fornendo al contempo un'interpretazione conforme a quest'ultima della norma oggetto del giudizio di costituzionalità: l'apologia (e l'istigazione) punibile ai sensi della norma oggetto di vaglio di costituzionalità, “non è la manifestazione di pensiero pura e semplice, ma quella che, per le sue modalità, integri comportamento concretamente idoneo a provocare la commissione di delitti”. La concretezza del pericolo segna, pertanto, la linea di demarcazione fra la libertà di manifestazione del pensiero e l'esigenza di tutela dei beni giuridici tutelati dalla fattispecie in analisi. In merito la Corte Costituzionale ricorda, inoltre, che “la libertà di manifestazione del pensiero, garantita dall'art. 21, primo comma, della Costituzione, trova i suoi limiti non soltanto nella tutela del buon costume” espressamente richiamato al suo ultimo comma, “ma anche nella necessità di proteggere altri beni di rilievo costituzionale e nell'esigenza di prevenire e far cessare turbamenti della sicurezza pubblica, la cui tutela costituisce una finalità immanente del sistema”. È utile richiamare alla memoria che con tale arresto la Corte Costituzionale ha superato un primo e risalente orientamento secondo il quale l'idoneità della condotta istigativa a ledere il bene giuridico protetto dall'art. 414 c.p. derivava ex se dalla condotta tipizzata dal legislatore. Il reato, pertanto, si riteneva sussistente indipendentemente dal concreto riscontro delle conseguenze derivate dalla condotta tipica ed indipendentemente dalla commissione o meno, da parte dei soggetti istigati, del reato voluto dall'agente.
Applicando il suesposto principio elaborato dalla Corte Costituzionale al caso di specie, la Corte di Cassazione ha sottolineato che la condotta punibile “non deve essere indeterminata e anticipata nella soglia di punibilità, in modo irrazionale, tale da confliggere con la disposizione costituzionale che tutela la libera manifestazione del pensiero” (Cass. pen., Sez. V, n. 48247/2019; Cass. pen., Sez. I, n. 25833/2012) e che il concetto di idoneità deve essere valutato in concreto. Solo in tal modo, infatti, si recupera una dimensione di reale offensività delle condotte descritte nell'art. 414 bis c.p. A tal fine la Corte chiarisce le ipotesi in cui non si determina un rischio effettivo della consumazione di altri reati – ovvero l'esternazione di un “semplice” giudizio positivo su un episodio criminoso – e fornisce anche gli “strumenti” per effettuare tale valutazione, indicando i parametri in riferimento ai quali deve essere giudicato il comportamento dell'agente: il suo contenuto intrinseco, la condizione personale dell'autore e le circostanze di fatto in cui si esplica (Cass. pen., Sez. VI,n. 31562/2019; Cass. pen., Sez. I, n. 8779/1999). Solo seguendo un percorso logico-giuridico che tenga conto dei succitati parametri il giudice può verificare se il comportamento dell'imputato abbia una forza suggestiva e persuasiva tale da poter far sorgere o rafforzare il proposito criminoso ed assicurare, pertanto, il rispetto del principio costituzionale di offensività nell'applicazione della fattispecie di reato. Ciò in quanto il concetto di pericolo di adesione al programma illecito risulta alquanto indeterminato e sfuggevole e può essere “effettivo” solo valutando la condotta posta in essere dal reo in relazione al contesto spazio-temporale ed economico-sociale in cui si esplica (che dovrebbe risultare particolarmente predisposto al recepimento di un messaggio istigatorio specifico) e tenendo conto della qualità (e della sensibilità) dei destinatari del messaggio e della continuità e contiguità temporale tra istigazione e commissione del fatto istigato. Riferimenti
BELTRANI – DELL'UTRI, Sub art. 414 bis, in Beltrani (a cura di), Codice di diritto penale commentato, Giuffrè, 2020. |